martedì 21 gennaio 2014

1033 - Il tiranno amato dall’occidente Jefrey Gettleman, The New York Times, Stati Uniti Il presidente ruandese Paul Kagame vuole sconiggere la povertà e l’odio a sfondo etnico. I paesi occidentali gli assicurano ingenti aiuti per lo sviluppo, ma chiudono un occhio di fronte ai suoi metodi autoritari. Un giornalista del New York Times l’ha incontrato nella capitale Kigali

aul  Kagame, il presidente
del Ruanda, mi ha dato appuntamento alle undici di
mattina di un sabato di agosto. Il suo uicio è in cima a
una collina vicino al centro
di Kigali. Ogni volta che torno nella capitale
ruandese rimango colpito dalla pulizia e
dall’eicienza di questa città, caratteristiche ancora più eccezionali se si considera
che il Ruanda è uno dei paesi più poveri del
mondo. Plotoni di donne con i guanti bianchi spazzano le strade. In centro il traico
scorre luido intorno a una fontana gigantesca. Non c’è spazzatura in giro e, diversamente da molte altre città africane, non si
vedono sacchetti di plastica attaccati agli
alberi e ai recinti perché il governo di Kagame li ha vietati. Non ci sono giovani senzatetto che dormono sui marciapiedi o che
snifano colla. Vagabondi e piccoli criminali sono stati arrestati e spediti in un “centro
di riabilitazione” giovanile su un’isola in
mezzo al lago Kivu. A Kigali non ci sono
neppure grandi baraccopoli perché il governo non le tollera.
Il Ruanda è uno dei paesi più sicuri che
ho visitato e questo è diicile da conciliare
con il fatto che nel 1994, in cento giorni, qui
furono uccisi più civili che in qualsiasi altro
periodo di tre mesi della storia umana. Durante il genocidio, la maggioranza hutu si
scagliò contro la minoranza tutsi massacrando circa un milione di persone. Oggi è
diicile perino trovare dei pedoni indisciplinati.
Nessun paese in Africa, e forse nel mondo intero, è cambiato così radicalmente in
un arco di tempo tanto breve, e Kagame ha
guidato con accortezza questa trasformazione. In confronto ad altri presidenti – come Robert Mugabe dello Zimbabwe, un
megalomane, o Joseph Kabila della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), afabile ma inetto – Kagame sembra un dono del
cielo. Morigerato, stoico, analitico e austero, di solito rimane sveglio ino alle due o
alle tre di notte per sfogliare vecchi numeri
dell’Economist o i rapporti spediti dai villaggi di tutto il paese per trovare il modo
migliore per sfruttare il miliardo di dollari
di aiuti che il suo governo riceve ogni anno.
Kagame è una presenza issa al Forum economico mondiale di Davos ed è in ottimi
rapporti con molti uomini di potere, tra cui
Bill Gates e Bono.
Il presidente ruandese ha ottenuto progressi indiscutibili nella lotta contro il più
grande male dell’Africa: la povertà. Il suo
paese è ancora molto povero – in media gli
abitanti vivono con meno di un dollaro e
mezzo al giorno – ma la situazione è molto
migliorata rispetto al passato. Il governo
Kagame ha ridotto la mortalità infantile del
70 per cento, ha fatto crescere l’economia a
una media dell’8 per cento annuo negli ultimi cinque anni e ha istituito un programma
nazionale di assicurazione sanitaria. Progressista sotto vari aspetti, Kagame ha aidato numerosi incarichi politici a donne.
Oggi il parlamento ruandese conta la percentuale di donne più alta del mondo (64
per cento). I suoi sostenitori, in patria e
all’estero, afermano che ha abilmente riorganizzato la società ruandese per disinnescare le rivalità etniche.
Un alleato comodo
Il problema, però, non sono tanto i risultati
ottenuti dal presidente, quanto i suoi metodi. Ha fama di essere spietato e brutale, è
accusato di reprimere il suo popolo e di aver
inanziato segretamente alcuni gruppi ribelli nella vicina Repubblica Democratica
del Congo. O almeno, questo è quello che
afermano i suoi critici – tra cui alti funzionari delle Nazioni Unite e diplomatici occidentali – e i dissidenti ruandes  all’estero. Secondo loro il Ruanda di Kagame è stretto in una camicia di forza. Pochi
ruandesi si sentono liberi di parlare apertamente del presidente e molti aspetti della
loro vita sono rigidamente regolati dal governo. Molti dicono di sentirsi spiati da Kagame in persona.
Pur di tutelare i loro interessi strategici,
gli Stati Uniti hanno spesso appoggiato dei
dittatori, mettendo da parte ogni preoccupazione sui diritti umani e sui princìpi democratici. Ma la situazione del Ruanda è
diversa da quella dell’Egitto o dell’Arabia
Saudita, perché Washington non ha espliciti interessi strategici in questo paese africano. È minuscolo, ha poche risorse naturali e
non ospita terroristi islamici. E allora perché l’occidente si è afrettato a sostenere
Kagame?  Un  diplomatico  che  lavora  in
Ruanda mi ha spiegato che il presidente è
diventato un raro simbolo di progresso in
un continente dove proliferano gli stati falliti e la corruzione. Kagame dà lustro all’immagine dell’industria miliardaria degli aiuti. “Metti dentro i soldi e tiri fuori i risultati”,
mi ha detto il diplomatico. Sì, Kagame è
“assolutamente spietato”, ma gli Stati Uniti
hanno interesse ad averlo come allea to perché sta dimostrando che gli aiuti all’Africa
non sono soldi buttati e che con la leadership giusta i paesi poveri possono rimettersi
in piedi.
Il taxi mi lascia all’ingresso della residenza presidenziale, sorvegliata da due
guardie armate di mitra. I collaboratori di
Kagame mi invitano a passare attraverso il
metal detector e mi accompagnano in una
sala cavernosa con un tappeto color pesca.
Mi accomodo su un’elegante sedia di legno.
Mi  aspetto  di  incontrare  una  persona
dall’aria minacciosa, perciò rimango sorpreso quando Kagame scivola nella stanza
silenziosamente e si materializza accanto a
me senza che me ne accorga. Mi accoglie
con un sorriso timido e sembra più nervoso
di me.
Kagame, 55 anni, è cresciuto in una capanna con il tetto di paglia in un campo profughi in Uganda, un’umiliazione particolarmente grave per un tutsi come lui. I re tutsi
hanno dominato il Ruanda per secoli, prima che la maggioranza hutu rovesciasse la
situazione nel 1959, uccidendo centinaia o
forse migliaia di tutsi e costringendo molti,
tra cui la famiglia di Kagame, a scappare per
salvarsi la vita. Quando aveva circa dodici
anni e viveva nel campo profughi, Kagame
chiese al padre: “Perché ci troviamo qui?
Perché dobbiamo vivere in questo modo?
Cosa abbiamo fatto di male?”.
Questo, spiega Kagame, ha segnato la  nascita della sua coscienza politica. “È qui
che comincia  tutto”, sussurra. Questa storia
me la racconta all’inizio dell’intervista, che
dura quasi tre ore. Il presidente sembra
aperto, esuberante e cordiale. Parla un ottimo inglese con un forte accento. Militare di
formazione, racconta di essersi unito a un
gruppo ribelle ugandese poco dopo aver inito il liceo, di aver fatto carriera e di aver
passato un breve periodo nella scuola di
Fort  Leavenworth,  una  base  militare
dell’esercito  statunitense  in  Kansas,
nell’ambito di un’iniziativa del Pentagono
per rendere più professionali gli eserciti
africani.
Ma Kagame abbandonò il programma
per diventare uno dei comandanti di una
forza ribelle tutsi che nel 1990 invase il
Ruanda. Ben presto sarebbe diventato il capo dell’Esercito patriottico ruandese, impegnato  a  rovesciare  il  governo  hutu.
Nell’aprile del 1994, quando fu abbattuto
un aereo che trasportava il presidente ruandese di etnia hutu, gli estremisti hutu esortarono i loro seguaci, soprattutto attraverso
le radio, ad annientare i tutsi. Le squadre
della morte imperversarono in tutto il paese
ino a quando l’esercito ribelle di Kagame
prese d’assalto la capitale mettendo ine al
genocidio e conquistando il potere. Kagame diventò ministro della difesa, vicepresidente e inine presidente. In base alla costituzione  ruandese,  che  prevede  due  soli
mandati settennali, dovrebbe lasciare l’incarico nel 2017. Ma a Kigali si dice che probabilmente  chiederà  al  parlamento  di
emendare la costituzione per candidarsi
una terza volta.
La bomba demograica
Nonostante i grandi passi avanti, il Ruanda
è ancora una bomba a orologeria dal punto
di vista demograico. È uno dei paesi più
densamente popolati dell’Africa e, malgrado un recente programma di vasectomia
gratuita, ha ancora un tasso di natalità pericolosamente  alto.  La  maggior  parte  dei
ruandesi è composta da contadini e la loro
vita è inesorabilmente legata alla terra. Ma
ogni centimetro di quella terra, dalle paludi
alle vette delle montagne, è già occupato.
Quando chiedo a Kagame come pensa di
afrontare il problema, spiega che una delle
sue priorità è incoraggiare le donne ad avere meno igli. “Abbiamo insegnato alle donne a dire di no. Diciamo loro: ‘Non ti accontentare. Meriti di meglio’”. Cambiare atteggiamenti radicati richiede tempo, aggiunge,
“però funziona”.
Perino i critici più severi di Kagame riconoscono che sotto la sua guida molte cos  sono migliorate. La speranza media di vita,
per esempio, è passata a 56 anni rispetto ai
36 del 1994. La malaria era una delle principali cause di morte, ma il governo ha lanciato una campagna di disinfestazione su larga
scala e ha distribuito milioni di zanzariere.
In questo modo le morti dovute alla malaria
sono diminuite dell’85 per cento tra il 2005
e il 2011.
Kagame ha fatto costruire centinaia di
nuove scuole e installare chilometri di cavi
in ibra ottica, investendo in progetti infrastrutturali, tra cui un impianto per l’energia
geotermica. L’economia del Ruanda è tra le
più dinamiche del continente, sebbene il
paese non possa contare su risorse minerarie signiicative e non abbia uno sbocco sul  mare. Kagame spera di fare soldi anche con
il cafè,  il tè e i gorilla. “Il Ruanda ha superato le aspettative di tutti e continua a stupire”, dice Jendayi Frazer, ex sottosegretario
di stato per gli afari africani, che ha contribuito a indirizzare decine di milioni di dollari di aiuti statunitensi verso il Ruanda.
Il paese riceve parecchi inanziamenti
perché Kagame è un leader stimato. È un
uomo attivo e pragmatico, più interessato a
far funzionare le cose che all’ideologia.
Ama le nuove tecnologie – ha un proilo su
Twitter – ed è molto bravo a suddividere
progetti vasti e ambiziosi in progetti più piccoli e più facili da gestire. Nel 2012 il Ruanda
è salito al 52° posto, rispetto al 158° del 2005,
nella classiica Doing business della Banca
mondiale perché Kagame ha creato un’unità speciale del governo che esamina attentamente il sistema di classiicazione della
Banca mondiale per cercare di capire come
migliorare il punteggio del Ruanda sotto
ogni aspetto.
La corruzione, mi spiega Kagame, è “un
parassita” che scava nella carne di un paese
e “uccide la nazione”. Un’innovazione introdotta da Kagame per tenere sotto controllo i vari livelli della sua amministrazione
è pretendere che i funzionari irmino degli
imihigo, obiettivi. Gli  imihigofunzionano
come i contratti di rendimento delle aziende e sono lunghi documenti che indicano
obiettivi specifici, dal numero di segnali
stradali da piantare in un anno alle tonnellate di ananas da raccogliere. Lo staf di Kagame mi ha stampato un paio di imihigo,
ciascuno irmato personalmente da Kagame. Sono rimasto colpito dall’attenzione
ossessiva per i dettagli, dal numero di adulti di un particolare distretto rurale che devono imparare a leggere (1.500) al numero
di mucche da fecondare (3.000).
Il Ruanda è piccolissimo, e per questo
realizzare progetti ambiziosi è più facile che
in altri paesi dove esistono grandi territori
isolati dalla capitale. Molti storici spiegano
che il Ruanda ha una storia anomala per
l’Africa perché è sempre stato rigidamente
controllato. Prima che gli europei colonizzassero il continente, nell’ottocento c’erano
pochi stati forti e centralizzati. Due ecce  zioni erano il Ruanda e l’Etiopia, dove altipiani insolitamente fertili e densamente
popolati avevano fatto nascere dei regni e
degli eserciti disciplinati che avevano inito
per dominare i popoli più deboli. Ancora
oggi il Ruanda e l’Etiopia vengono spesso
paragonati: due società emerse da conlitti
con una forte leadership tecnocratica, ma
anche con una tradizione di autoritarismo e
spietatezza.
Squadra di killer
Fuori il sole picchia, ma le tende pesanti
fermano la luce e confondono il senso dello
scorrere del tempo. Kagame porta avanti la
sua ofensiva di charme, parlando dei miglioramenti dell’agricoltura e del fatto che i
contadini ruandesi usano più fertilizzanti
rispetto al passato. Ma quando sollevo l’argomento della sua fama di tiranno tra i dissidenti ruandesi, Kagame s’irrigidisce.
A  detta  di  molti,  Faustin  Kayumba
Nyamwasa è l’oppositore più temuto da Kagame. I due erano amici quando vivevano
in Uganda trent’anni fa. Nyamwasa è entrato molto presto nelle ile dei ribelli tutsi e in
seguito è diventato capo di stato maggiore
dell’esercito ruandese. Quando sono andato a trovarlo in Sudafrica, nella primavera
del 2012, ha espresso con sincerità il suo
odio verso Kagame.
“Kagame è diventato stupidamente arrogante”, mi ha detto Nyamwasa, elencando quelli che considera i più gravi errori del
presidente, tra cui la sua ingerenza nella
Repubblica Democratica del Congo e il fatto di aver allontanato da sé chiunque non
fosse d’accordo con lui. Nel 2010, dopo aver
contestato alcune decisioni del presidente
e  sentendo  voci  di  un  possibile  arresto,
Nyamwasa è fuggito dal Ruanda attraversando un iume a nuoto e ha raggiunto Johannesburg, dove pensava di essere al sicuro. Qualche mese dopo, mentre tornava a
casa, ha visto un uomo armato di pistola
correre verso la sua auto. L’uomo gli ha sparato allo stomaco e poi ha cercato di dargli
un colpo di grazia, ma la pistola si è inceppata. “Kagame stava cercando di uccidermi”, mi ha rivelato Nyamwasa. “Non ci sono dubbi”. A Johannesburg sei persone sono state processate in relazione all’attentato: tre di loro sono ruandesi.
Molti dissidenti sostengono che il Ruanda dispone di un servizio di intelligence letale, con assassini in grado di operare ovunque. René Claudel Mugenzi, un attivista
ruandese per i diritti umani che vive nel Regno Unito, mi ha raccontato che nel marzo
del 2011 Kagame aveva partecipato a un
programma della Bbc e che lui aveva telefonato per fargli una domanda provocatoria
– se in Ruanda poteva scoppiare una rivolta
simile a quelle della primavera araba. Qualche settimana dopo due poliziotti di Scotland Yard hanno bussato alla sua porta per
consegnargli una lettera. “Secondo informazioni aidabili il governo ruandese pone
una minaccia imminente alla sua vita”, diceva. Mugenzi era sbalordito. “Non avevo
mai pensato che potessero cercare di uccidermi nel Regno Unito”, spiega (il governo
ruandese ha negato di aver ordito un complotto per uccidere Mugenzi).
Guardando l’uomo seduto di fronte a
me è diicile credere alle accuse secondo
cui Kagame comanda una squadra internazionale di killer. In risposta alle mie domande sull’opposizione politica, fa vaghe allusioni ai dissidenti come Nyamwasa deinendoli dei “ladri”, pronti a sfruttare l’idea
“che in Africa non succeda niente di buono
e che ogni leader sia un dittatore e un oppressore.”
David Himbara, un altro ex consigliere
di  Kagame,  fuggito  a  Johannesburg  nel
2010,  mi  ha  raccontato  una  storia  sugli
scoppi d’ira di Kagame. Nel 2009 il presidente aveva convocato nel suo uicio due
impiegati, aveva sbattuto violentemente la
porta e aveva cominciato a urlare chiedendo dove avevano comprato le tende della
sala. Poi aveva fatto entrare due guardie armate di bastoni. Kagame aveva ordinato ai
due impiegati di sdraiarsi con la faccia a terra e aveva cominciato a picchiarli. Dopo
cinque minuti si era stancato e le guardie gli
avevano dato il cambio. Himbara dice che
la scena dava il voltastomaco. Quasi tutti i
conoscenti di Kagame con cui ho parlato mi
hanno raccontato storie simili. Noble Marara, un suo ex autista che vive in esilio nel
Regno Unito, osserva: “Se dovessi fare una
diagnosi, direi che sofre di disturbi della
personalità”.
Himbara è convinto che sebbene sia riuscito a conquistare il potere, Kagame è ancora una persona molto insicura. “È riuscito
appena a inire il liceo”, spiega l’ex consigliere, che ha conseguito un dottorato in
Canada, ed è stato uno dei principali collaboratori del presidente. “Era diicile lavorare con lui perché dovevamo sempre trovare il modo di far sembrare che fosse lui la
mente dietro ogni iniziativa. Una volta gli
scrissi un discorso e lui mi disse: ‘Credi di
essere più intelligente di me perché hai preso un dottorato in Canada? Sei un contadino. Vacci tu a leggere questo stupido discorso!’”. Himbara aveva dovuto rispondergli:
“No signore, lei è il presidente e nelle mie
mani il discorso è solo il prodotto di uno stupido contadino. Ma nelle sue è qualcosa di
speciale”.
Quando chiedo conferma della storia
del pestaggio, Kagame si china verso di me.
“È la mia natura. Posso essere molto duro e
fare errori di questo tipo”. Ma quando lo incalzo su altri episodi di violenza che mi sono
stati riferiti, mi risponde stizzito: “Dobbiamo metterci a elencare ogni nome, ogni incidente?”.
Si irrita ancora di più quando gli chiedo
di un suo costoso viaggio a New York nel
2011. All’epoca avevo sentito dire che aveva
speso 15mila dollari a notte per una suite. Fa
quasi spavento vedere con quanta rapidità
abbandona il suo atteggiamento cordiale
per diventare autoritario. Evidentemente
non è abituato alle domande provocatorie,
soprattutto se arrivano da un giornalista.
Kagame è accusato di aver sofocato gran
parte dei mezzi d’informazione indipendenti del Ruanda. Nel 2012 la giornalista
Agnès Uwimana Nkusi è stata condannata
a quattro anni di carcere con l’accusa di aver
insultato il presidente e messo in pericolo la
sicurezza nazionale pubblicando una serie
di articoli che lo criticavano. Un altro, JeanLéonard Rugambage, è stato ucciso dopo
aver pubblicato un articolo sui sospetti che
il governo di Kigali fosse implicato nell’at  tentato  a  Faustin  Kayumba  Nyamwasa.
Quindi passiamo a un altro argomento: i
suoi sforzi per neutralizzare le tensioni etniche adottando leggi contro il “settarismo” e
“l’ideologia genocida”. Queste norme sono
state criticate perché impediscono qualunque dibattito sull’etnia e il governo di Kagame le sta rivedendo.
Quando cerco di afrontare la questione
etnica con gli abitanti di Kigali non vado
troppo lontano. La maggior parte si riiuta
di dirmi se è hutu o tutsi, e dichiara di essere
semplicemente ruandese. Un giorno mi dirigo  verso  il  distretto  di  Nyamasheke,
nell’ovest del paese, sperando che la distanza dalla capitale possa permettere alla gente di parlare più apertamente. Mentre percorro circa 150 chilometri sulle colline, vedo
uomini che trasportano cataste di legna appena tagliata, donne che trascinano taniche
di acqua torbida e bambini che tirano calci
a palloni di stracci. C’è gente dappertutto.
Le colline sono animate e ritagliate in un’ininità di piccoli campi coltivati a cafè, mais,
canna da zucchero e banane.
Passo la notte a casa di Alfred, un maestro di scuola che ho incontrato lungo la
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strada.  Vive in una casetta con il pavimento
umido e una presina appesa al muro che dice “Gesù mi ama”. Davanti a una cena di
banane cotte e una scatola di sardine aperta
in mio onore, Alfred dice che con Kagame
la vita della sua famiglia è migliorata. “I
miei igli mangiano più di quanto facevo
io”, dice. “Tutto è migliorato: sicurezza,
istruzione, salute”. Penso che forse Alfred
sta lodando Kagame perché anche lui è tutsi. Ma lui scoppia a ridere quando gli chiedo
la sua etnia: “Oggi non lo diciamo. Però in
passato ero un hutu”.
Non è un segreto
Il mattino dopo incontro un altro hutu, molto più critico. Sostiene che i tutsi sono favoriti dal governo in tutto, dalle borse di studio per l’università alle cariche più importanti, con il pretesto di un programma di
airmative actiondestinato ai “sopravvissuto al genocidio” che, per deinizione, sono
tutsi. Tutto il sistema è truccato in modo da
tenere in alto i tutsi e in basso gli hutu, dice,
e “durante le elezioni gli emissari del partito ti strappavano la scheda se non votavi per
Kagame”. Durante le ultime consultazioni,
nel 2010, Kagame ha ottenuto il 93 per cento dei consensi, dopo che il suo governo
aveva di fatto impedito la partecipazione ai
principali partiti di opposizione.
Alcuni  ruandesi  dicono  che  Kagame
cerca di sminuire l’importanza del fattore
etnico solo per nascondere il fatto che i tutsi, circa il 15 per cento della popolazione,
controllano praticamente tutto. Se nessuno
può parlare del problema etnico, allora è
diicile parlare di un dominio tutsi. Quando afronto la questione con Kagame, cerca
di convincermi che in realtà i tutsi non controllano la politica e l’economia. Poi, quando gli sottopongo fatti speciici – i ministri
della difesa, della salute, degli esteri e delle
inanze sono tutsi, insieme ad alcuni degli
uomini più ricchi del paese – ammette che i
tutsi potrebbero godere di qualche vantaggio, ma questo avviene “in automatico, non
di proposito”.
Quello che tanti critici di Kagame trovano frustrante è che la repressione non è affatto un segreto. Human rights watch e Amnesty international hanno pubblicato rapporti dettagliati sui metodi usati dal governo per tenere sotto stretto controllo la so  cietà ruandese. Dopo le presidenziali del
2010 alcuni funzionari hanno denunciato la
“mancanza di spazio politico” ma il lusso
degli aiuti non si è fermato. Il sostegno degli
Stati Uniti è rimasto più o meno lo stesso,
circa 200 milioni di dollari all’anno in aiuti
diretti bilaterali. Accusato di molti crimini
nel corso degli anni, Kagame ha fatto tesoro
dei suoi contatti e dei suoi successi per sottrarsi alle critiche. E cerca di sfruttare anche
il senso di colpa occidentale, ricordando
spesso che durante il genocidio tutti i governi abbandonarono il Ruanda. Il messaggio
è chiaro: nessuno all’esterno può vantare
una superiorità morale, e nessuno dovrebbe dire a Kagame cosa è giusto e cosa è sbagliato.
“Il Ruanda non è un paese facile”, dice
un funzionario occidentale che ha collaborato con il governo a progetti di sviluppo.
“Kagame  è  oppressivo?  Sicuramente  sì.
Gliel’abbiamo fatto notare, chiedendogli
un’apertura? In continuazione”. Ma poi il
funzionario  aggiunge:  “Non  sappiamo
quanto sia delicata la situazione. Non abbiamo accesso alle informazioni di cui dispone il presidente”. È possibile, spiega, che
combattenti hutu in Ruanda o nella Repubblica Democratica del Congo stiano ancora
cercando di rovesciare Kagame, “perciò gli
concediamo il beneicio del dubbio”.
Dalle trincee al palazzo
Kagame non è l’unico leader africano a essere allo stesso tempo eicace e oppressivo,
anche se forse è il più eicace e tra i più oppressivi. L’ugandese Yoweri Museveni ha
portato la stabilità nel suo paese e pavimentato moltissime strade nei suoi 27 anni di
presidenza, ma ha anche perseguitato giornalisti e oppositori. L’etiope Meles Zenawi,
che ha governato per 21 anni prima di morire nell’estate del 2012, ha favorito il boom
economico del suo paese ma ha anche annientato ogni forma di dissenso. Isaias Afewerki, il presidente dell’Eritrea, a un certo
punto della sua carriera era un leader afascinante e progressista, ma poi ha riiutato
gli aiuti occidentali, incarcerato i dissidenti
in container sotterranei e trasformato il suo
paese nella Corea del Nord africana. È significativo che tutti questi uomini siano
stati, in un primo tempo, dei leader ribelli e
si siano fatti strada con le armi dalle trincee
al palazzo presidenziale.
Molti diplomatici e analisti con cui ho
parlato non sono eccessivamente preoccupati per l’atteggiamento autoritario di Kagame. Alcuni mi hanno perino detto che è
proprio quello di cui il continente ha bisogno: più Kagame, più uomini forti e abili,
capaci di paciicare società caotiche e conlittuali, di trovare medicine per gli ospedali, di schierare una forza di polizia e di togliere i sacchetti di plastica dagli alberi. Le
libertà non sono così importanti da queste
parti, sostengono, perché chi può godersi la
libertà di parola o di stampa quando tutti si
scannano? Quello che conta è preservare la
stabilità e minimizzare le soferenze isiche
e salvare vite umane dalle malattie.
Tuttavia i paesi donatori, come gli Stati
Uniti, non sono rimasti impassibili di fronte
al coinvolgimento di Kagame nella Repubblica Democratica del Congo. Nel 2012 un
rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che
le truppe ruandesi avevano varcato la frontiera per combattere al ianco di un gruppo
ribelle, l’M23, che massacrava i civili e si era
macchiato di vari crimini, come gli stupri di
massa, provocando caos e distruzione in
vaste aree dell’est della Rdc. La storia della
Repubblica Democratica del Congo è forse
una delle più grandi tragedie del mondo,
perché  un  paese  benedetto  da
ogni tipo di risorsa naturale è stato devastato da una serie di guerre connesse tra loro che hanno
causato milioni di morti. Un precedente  rapporto  dell’Onu  del
2002 accusava l’esercito di Kagame di saccheggiare i minerali dell’Rdc ed esportarli
attraverso il Ruanda, ottenendo proitti da
capogiro, e presumibilmente ricorrendo
all’aiuto di uno dei più famigerati mercanti
di armi del mondo, Viktor Bout.
Kagame ha sempre negato ogni coinvolgimento nella Rdc, respingendo le accuse
secondo cui il suo governo l’anno scorso
avrebbe introdotto delle truppe nel paese.
Gli Stati Uniti, però, hanno subito tagliato
200mila dollari di aiuti militari al Ruanda:
una cifra irrisoria, ma in ogni caso un segnale di forte condanna. Altri paesi hanno a
loro volta ridotto o sospeso gli aiuti. Era la
prima volta che Kagame perdeva un’importante battaglia di pubbliche relazioni.
Quando gli parlo del problema della Repubblica Democratica del Congo, il presidente annuisce con aria pensierosa, ben
sapendo dove voglio arrivare con le mie domande. Poi mi invita a ripercorrere con lui
la complessa storia recente dei due paesi, a
partire dai primi anni novanta, quando il
governo congolese si schierò con il governo
hutu ruandese per respingere gli attacchi
dei ribelli di Ka game. Dopo che Kagame
riuscì a sconiggere l’esercito hutu, molti
comandanti che avevano orchestrato il genocidio fuggirono nello Zaire (oggi Rdc) e
continuarono ad attaccare il Ruanda dai
campi profughi oltre il conine. Convinto
che il governo congolese appoggiasse i ribelli hutu, Kagame invase il paese vicino e
le violenze continuano ancora oggi.
Un  problema  storico  è  che  l’esercito
ruandese ha segretamente sostenuto varie
forze congolesi per potersi ritagliare una
zona cuscinetto controllata dai tutsi lungo
la frontiera, che da decenni è una specie di
membrana porosa attraversata da un iume
di uomini, animali e merci. A detta di Kagame, molti tutsi ruandesi temono che senza
la protezione del Ruanda i loro fratelli che
vivono nella Rdc possano essere massacrati. Ammette inoltre che alcune chiese ruandesi mandano denaro ai ribelli congolesi
per sostenere una campagna di autodifesa.
Ma i critici del presidente ribattono che è
solo un pretesto per interferire in un paese
ricco di risorse facili da conquistare.
Il presidente ammette che alcuni soldati
ruandesi combattono nella Rdc, ma precisa
che si tratta di disertori. “A un certo punto
alcuni soldati sono scappati. Se ne vanno e
basta”, sostiene. È un modo astuto per spiegare come mai nella
Repubblica  Democratica  del
Congo  siano  stati  avvistati  dei
soldati ruandesi, ma non ha molto senso. In un paese sorvegliato
come il Ruanda, com’è possibile che i soldati “se ne vadano e basta” senza che qualcuno lo ordini o chiuda deliberatamente un
occhio? Quando glielo chiedo, Kagame si
difende. “Parla sul serio?”, mi chiede. “Perché gli Stati Uniti, con tutta la loro potenza,
non sono riusciti a chiudere la frontiera con
il Messico alla droga e a tutto quello che la
attraversa? Forse non s’impegnano abbastanza? Anche questo è un problema complesso”.
Il sole iltra a poco a poco tra le tende e il
volto di Kagame comincia a mostrare i segni delle quattro o cinque ore di sonno notturno. Le sue risposte diventano più brevi,
le pause più lunghe. Quando il mio tempo
sta per esaurirsi, diventa quasi malinconico. Si alza lentamente dalla sedia, si liscia i
pantaloni e mi saluta. “Di tutti questi soprannomi che mi sono stati aibbiati”, dice,
“alcuni li accetto, altri non sono giusti”. E
mentre vado via aggiunge, quasi con un
sussurro: “Dio mi ha fatto in modo molto
strano”.  u  gc
52 Internazionale 1033 | 10 gennaio 2014

1033 - Edilizia impo polare Claudia Bellante, The Caravan, India. Foto di Mirko Cecchi Nel 2009 il governo brasiliano ha lanciato un programma per dare un alloggio alle famiglie povere. Oggi, però, la gestione degli ediici è inita nelle mani di milizie private che ricattano i nuovi arrivati. Il caso di Rio de Janeiro

U
n  pomeriggio  d’agosto
del 2012 i vicini hanno
chiamato Maria Neuma
al lavoro per avvertirla di
non tornare a casa. Maria,  47  anni,  abitava  a
Rio de Janeiro da due mesi nel comprensorio Coimbra, un complesso residenziale
nella zona ovest della città costruito dal governo nel quadro del programma Minha
casa, minha vida (La mia casa, la mia vita),
varato per fornire un alloggio a milioni di
brasiliani poveri. Fin dal suo avvio, però, il
programma ha incontrato molti ostacoli.
Nelle intenzioni doveva afrontare i numerosi problemi d’igiene, sovrappopolazione
e criminalità che aliggono le favelas delle
metropoli brasiliane, ma a Rio molti dei
nuovi complessi residenziali, a causa della
loro posizione isolata, si sono trasformati
subito in ghetti controllati da milizie informali armate. E dal momento che la milizia
che  controllava  il  condominio  Coimbra
aveva minacciato la famiglia di Maria Neuma, i vicini hanno pensato di chiamarla per
consigliarle di stare alla larga da casa. “È
meglio se non rientri, gira voce che ti vogliono ammazzare”. Sono queste le parole
dei vicini che Maria ricorda ancora quando
la incontro nell’agosto del 2013. “Ero terr  rizzata. Ho avvertito immediatamente il
mio compagno e i miei igli di lasciare tutto
com’era e di uscire senza dare nell’occhio”.
Quando  la  famiglia  si  è  rivolta  in  cerca
d’aiuto alla prefettura di Rio, le è stato oferto alloggio in un centro per senzatetto. Hanno riiutato l’oferta e sono tornati nella favela di Caju, dove vivevano prima.
Il programma Minha casa, minha vida è
stato lanciato nel 2009 dall’allora presidente Luiz Inácio “Lula” da Silva. All’epoca sono stati stanziati 34 miliardi di real, cioè più
di dieci miliardi di dollari, per costruire entro il 2011 un milione di unità abitative in
tutto il paese. Oggi il piano è entrato nella
sua seconda fase, che prevede la
costruzione di un altro milione di
alloggi entro la ine del 2014. Secondo la segretaria municipale
all’edilizia, dal 2009 sono stati
consegnati  agli  abitanti  di  Rio
13.677 alloggi, di cui 12.167, cioè il 90 per
cento, nella zona ovest della città, dove si
trova anche il condominio Coimbra. “È stata un’operazione importante e lungimirante, che ha cercato non solo di dare risposta
al deicit abitativo, ma ha anche stimolato
l’economia, visto che ha dato lavoro a centinaia di aziende, evitando che il Brasile fosse
soprafatto dalla crisi internazionale”, spiega Adauto Cardoso, docente dell’Osservatorio delle metropoli, un centro di ricerca
urbanistica dell’università federale di Rio
de Janeiro. “Ma il guaio, specie a Rio, è che
molti di questi complessi residenziali sono
stati costruiti in zone periferiche, dove i terreni costano meno, ma dove spesso i servizi
di base non esistono. Insomma, invece di
essere una soluzione sono diventati un nuovo problema”.
Portavoce degli occupanti
Maria Neuma aveva lasciato la sua abitazione di Caju quattro anni prima per fuggire
dal marito violento. A causa dell’illegalità
che imperversava nella favela, poteva fare
ben poco contro di lui. “Anche se l’avessi
denunciato  alla  polizia”,  mi  dice,  “non
l’avrebbero arrestato, perché a Caju la legge
la fanno i traicanti di droga, la polizia non
ci mette piede”. All’inizio Maria Neuma si
era stabilita in un palazzo di sei piani nel
quartiere di Estácio, vicino alla stazione
centrale. L’immobile, di proprietà del Banco do Brasil, era occupato da 140 famiglie.
Con il passare del tempo Maria era diventata  leader  e  portavoce  degli  occupanti.
Quando sono arrivate le minacce di sfratto,
nel giugno del 2012, aveva raggiunto un accordo con l’amministrazione comunale,
ottenendo per molti un alloggio nei nuovi
condomini del programma Minha casa,
minha vida.
Neuma era inita al comprensorio Coimbra, sull’avenida Palmares, una strada di
campagna nel bel mezzo del nulla, nel sobborgo di Santa Cruz, un’area isolata e mal
collegata al centro, che dista quasi due ore
dalle zone ricche di negozi e attività culturali. È abitata da 1.400 persone, distribuite
in 28 palazzi di quattro piani ciascuno. Gli
appartamenti sono tutti uguali: ingresso,
cucina, bagno e due camere da letto, per un
totale di circa 42 metri quadrati.
“Al mio arrivo mi sono resa conto subito
che la situazione era diicile”, ricorda Maria. “C’era gente che proveniva
da favelas dominate da bande criminali rivali e che covava ancora
vecchi rancori”. Visto che laggiù
le istituzioni faticano ad arrivare,
l’intero quartiere era inito sotto il
controllo della milizia formata da ex poliziotti corrotti, pompieri e perfino delinquenti con condanne alle spalle. Al Coimbra la legge la facevano loro, e agivano impunemente, ricorrendo a minacce e alla
violenza per mantenere l’ordine.
Neuma si è resa conto che tra i componenti della società di gestione c’era scarso
coordinamento e che i nuovi inquilini non
erano disposti ad assumersi responsabilità
amministrative. “C’erano molti problemi.
Le scuole della zona erano insuicienti per
le esigenze della popolazione. Quando l’ho
denunciato al comune, è stata avviata in
tutta fretta la costruzione di un complesso
scolastico, ma nei due mesi che ci sono voluti per inirlo molti hanno perso il diritto ai
sussidi che il governo brasiliano concede
alle famiglie povere per far studiare i bambini”. Al Coimbra, inoltre, c’erano poche
opportunità di lavoro: Santa Cruz è un centro industriale importante, ma i suoi nuovi
abitanti, poco istruiti, non erano abbastanza qualiicati per i posti di lavoro oferti.
Alla ine Neuma si è convinta che il progetto del Coimbra fosse un tentativo del
sindaco di Rio, Eduardo Paes, di ingraziarsi
gli elettori in vista del voto dello scorso ottobre: ha sfruttato il sogno dei poveri di diventare “proprietari della casa in cui vivono”
ma senza creare le infrastrutture necessarie
a una società sana. “Altro che Minha casa,
minha vida”, dice Maria, “io lo chiamo Minha casa, minho inferno”.
Altri sostengono che il governo non aveva l’obiettivo di ofrire una vita migliore ai
cittadini. “Il comune inge di occuparsi della gente, ma in realtà vuole solo ripulire certe zone della città”, mi ha detto Renato Cosentino, portavoce del comitato popolare
contro la Coppa e le Olimpiadi, un’organizzazione che contrasta il progetto governativo di riqualiicare alcuni quartieri in vista
dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016. “I poveri vengono allontanati e nascosti nell’estrema periferia, come la
zona ovest”. Molte favelas, che il governo
ha dichiarato “a rischio” per poterle sgomberare e trasferire gli abitanti, si trovano “in
posizioni  strategiche  per  i  futuri  eventi
sportivi”, fa osservare Cosentino. “Sarebbe
più facile risistemarle e dare una vita dignitosa a quelli che ci abitano. Invece il governo preferisce allontanarli e vendere i terreni
alle società immobiliari”.
Un mese dopo essersi trasferita al Coimbra, Maria Neuma è stata eletta amministratrice del condominio e la milizia non ha
tardato a farsi viva. “Sono venuti a darmi il
benvenuto”, dice. “Il capo era un ex poliziotto, lo chiamavano Barack Obama. È
stato ucciso di recente”. Ma la visita aveva
uno scopo sinistro: “Volevano che pagassimo il pizzo per la protezione del quartiere”,
racconta Neuma. “Io sapevo che andava
fatto per stare tranquilli, ma a quel tempo il
Coimbra era abitato solo in parte, quindi
era impossibile racimolare tutti i soldi che
chiedevano”.
Maria racconta che la milizia ricorreva a
metodi brutali per punire chi non stava alle
regole. “Ho abitato lì solo da giugno ad agosto, e in quel breve periodo quattro persone
sono sparite e sette sono state cacciate. Tutte avevano qualcosa a che fare con la droga:
erano spacciatori o tossici, che la milizia
non tollera”. Dopo un po’ hanno cominciato
a minacciarla perché non pagava la cifra richiesta. A quel punto Neuma si è rivolta alla
Commissione per i diritti umani di Rio e al
dipartimento per la repressione della criminalità organizzata (Draco). “Ma le intimi  dazioni si facevano sempre più insistenti e
così ho  dovuto mollare e andare via”.
Quando ho visitato il Coimbra, ad agosto, gli abitanti non volevano parlare della
milizia e delle violenze. Solo uno studente
universitario, Gabriel Augusto, mi ha confermato quello che ha detto Maria. “Costringono ogni famiglia a versare un tanto al
mese, di solito fra i venti e i trenta real (6-9
euro)”, mi ha detto. “Sono come dei vigilantes privati, ma se non paghiamo ci minacciano di morte. Le regole sono: niente droga, niente violenze domestiche e niente
furti. Se vogliamo le bombole per il gas, internet o la tv via cavo, dobbiamo chiedere a
loro, e per spostarci siamo costretti a prendere gli autobus di loro proprietà. Alternative non ce ne sono, perché i trasporti pubblici qui non arrivano, e la strada principale si
trova a più di mezz’ora di cammino”. Secondo i calcoli di Gabriel Augusto, circa la
metà delle persone arrivate al Coimbra ha
inito per subaittare gli appartamenti o li
ha svenduti ed è tornata alla favela.
Il nuovo amministratore del Coimbra è
Leandro Ferreira, 31 anni, sposato e padre
di sei igli. Prima Ferreira abitava in una favela chiamata Cidade de Deus. “La nostra
baracca si trovava nella parte della favela
che chiamavamo ‘il cimitero’, perché i traficanti ci gettavano i cadaveri delle loro vittime”, racconta. Lui stesso ha commesso
violenze e ha usato droghe quando abitava
lì. Ora che è arrivato al Coimbra è cambiato
e vuole darsi da fare per la sua nuova comunità. “Secondo me, il governo ha fatto una
buona cosa per noi, ma non basta”. Da mesi
Ferreira sta cercando di spingere il comune
a inire un nuovo pronto soccorso e ad av  viare un centro di formazione “per dare a
noi adulti la possibilità di inire gli studi e
trovarsi un lavoro dignitoso”. Nel suo ruolo
di amministratore, Ferreira ha il difficile
compito di mediare tra le esigenze degli
abitanti e le regole imposte dalla milizia
senza denunciarla apertamente. “Ogni posto”, dice, “ha il suo scerifo”. E anche per
lui l’argomento è chiuso  u

1033 - I giochi sporchi di Putin - McKenzie Funk, Outside, Stati Uniti Foto di Simon Roberts - Le Olimpiadi di Soči cominciano il 7 febbraio e saranno una vetrina per la Russia di Vladimir Putin. Ma dietro i progetti grandiosi voluti dal presidente ci sono danni ambientali gravissimi e costi enormi

N
el  2010  in  Russia  si  è
svolto un concorso per
scegliere  la  mascotte
per le Olimpiadi invernali del 2014 a Soči. In
tre  mesi  sono  arrivati
24mila disegni di orsi, tigri, iocchi di neve,
streghe e lupi. Una miriade di proposte:
sembrava il trionfo della democrazia. Fino
a quel momento i giochi olimpici erano stati a cuore soprattutto a Vladimir Putin. Il
presidente avrebbe avuto l’opportunità di
mettere in mostra la nuova Russia grazie
agli impianti costruiti dai suoi oligarchi nella città costiera del mar Nero e sulle montagne del Caucaso.
“Soči è un posto unico”, aveva dichiarato Putin al Comitato olimpico internazionale nel 2007, quando il suo intervento personale aveva permesso alla Russia di battere la concorrenza di Austria e Corea del
Sud. “Sulla costa c’è un clima primaverile,
mentre sulle montagne è inverno”. Putin
era andato alla riunione in Guatemala per
sostenere la candidatura russa e aveva perino parlato in inglese in pubblico, un fatto
rarissimo. Più tardi, per accendere la passione olimpica tra i russi, il suo governo
aveva indetto il concorso per la mascotte.
Chiunque poteva fare proposte e votare il
disegno preferito. Il vincitore avrebbe ricevuto in premio due biglietti per i giochi.
Appena quaranta minuti dopo essere
stata messa online, una rana psichedelica
azzurra con una racchetta da sci in bocca è
arrivata in cima alla classiica. I motivi del
suo successo erano diversi. Innanzitutto, la
democrazia – anche se gestita dall’alto, come in Russia – è sempre imprevedibile. E
poi, come ho potuto constatare di persona
durante la mia visita a Soči nel febbraio del
2013, le Olimpiadi sono la Russia di Putin in
miniatura.
La rana aveva in testa una corona zarista, un riferimento “al nostro nazionalismo
e alla nostra spiritualità”, ha spiegato con
sarcasmo il suo creatore, il disegnatore moscovita Egor Zhgun. Negli occhi, al posto
delle pupille, ruotavano gli anelli olimpici.
La rana era coperta di pelo – dopotutto si
trattava di Olimpiadi invernali – e non aveva le braccia, il che aveva spinto molti a
chiedersi quale fosse la possibile metafora
dietro questa scelta (in realtà Zhgun ha
spiegato che si era semplicemente dimenticato di disegnarle). Il nome era Zoich, una
parola che in cirillico (ZOIǬ) somiglia molto a 2014: la z è simile al 2 mentre l’ultima
lettera, la  ȫ (la c dolce), sembra un 4. Dopo
qualche bicchierino di vodka, 2014 si può
facilmente leggere Zoich.
Marketing e proteste
Il video difuso su YouTube per sostenere la
candidatura della mascotte, mostra la rana
mentre sorseggia un martini in discoteca,
si lancia sulla città in paracadute attaccata
a una ila di palloncini, prende a calci un altro candidato (un delino con gli sci) e beve
in compagnia di una delle altre mascotte
candidate più irriverenti, Pila, un nome che
in russo evoca la corruzione che tutti si
aspettavano avrebbe caratterizzato i lavori
delle  Olimpiadi.  Il  filmato  è  stato  visto
700mila volte. Perino i giornali e le tv si
sono innamorati di Zoich. Anche se nessuno sapeva cosa signiicasse quella rana, la
sua popolarità sembrava pericolosa. Era  diicile non vederla come una mascotte di
protesta.
Nel febbraio del 2013 incontro Zhgun in
un cafè di Mosca durante una sosta del mio
viaggio verso Soči. Ventisette anni, alto e
allampanato, non sembra particolarmente
interessato alle Olimpiadi. “Mentre disegnavo Zoich”, mi dice, “non mi sono reso
conto che sarebbe diventato un simbolo
dell’opposizione, ma la cosa non mi è dispiaciuta”.
Al momento del concorso, Putin, allora
primo ministro, stava organizzando il suo
ritorno al Cremlino. E l’opposizione – rappresentata soprattutto da persone della
classe media urbana, come Zhgun – cominciava a mobilitarsi. Quando nel 2012 Putin
ha conquistato di nuovo la presidenza, con
il 64 per cento dei voti, molti osservatori
hanno afermato che, nonostante le numerose accuse di irregolarità, il vero problema
non erano stati i brogli. Il punto era che il
potere aveva stabilito chi poteva partecipare alle elezioni e chi no. L’opposizione non
aveva potuto presentare i suoi candidati.
Una cosa simile è successa a Zoich. Poco prima del Natale 2010, una giuria di
esperti e persone famose nominata dal governo ha selezionato le mascotte, riducendone il numero da 24mila a undici. Il delino con gli sci è rientrato nella rosa dei prescelti. C’erano anche due orsi, uno polare e
uno bruno, e un leopardo delle nevi, secondo Zhgun disegnato molto male. Ma Zoich
non c’era. Dopo l’esclusione della rana l’intera faccenda è diventata ancora più strana.
Zhgun ha confessato di aver partecipato al
concorso solo perché il Comitato olimpico
russo lo aveva pagato nella speranza di
stuzzicare la curiosità del pubblico. “Può
disegnare quello che vuole”, gli avevano
detto, “ma non deve parlarne con nessuno”. Perino il candidato di protesta era stato un’idea del marketing, messa da parte
appena aveva cominciato a creare problemi.
L’ultimo round, la votazione trasmessa
in tv dal Primo canale russo, è stato seguito
da più di un milione di spettatori. L’orso polare era decisamente il preferito del pubblico, ma quella mattina qualcuno ha chiesto
a Putin, che stava visitando una scuola a
Soči, qual era la sua mascotte preferita. Si
dà il caso che in un parco alle porte della città il Wwf avesse avviato un programma per
l’allevamento di leopardi delle nevi, che
Putin aveva già visitato un paio di volte. Il
nuovo recinto era stato costruito con i soldi
delle Olimpiadi. Nel frattempo il leopardo
mascotte era stato ritoccato da un professionista e ribattezzato Barsik. Secondo l  sua biograia uiciale, era la personiicazione di un leader intrepido e solitario. “Il leopardo è un animale forte, bello e veloce”, ha
detto Putin ai bambini. La sera sono state
svelate le tre mascotte più votate: un coniglio, l’orso polare e, come era prevedibile, il
leopardo delle nevi.
La città fantasma
Mentre con il fotografo Simon Roberts saliamo verso i monti del Caucaso dall’aeroporto internazionale di Soči, il recinto del
leopardo del Wwf dev’essere da qualche
parte in un bosco alla nostra sinistra. Le
nuove strutture olimpiche ospitano una serie di gare di prova: competizioni di slittino,
ski  cross  e  snowboard  cross,  halfpipe  e
snowboard. Squadre provenienti da tutto il
mondo stanno convergendo verso l’unica
città subtropicale della Russia, un tempo
famosa per i sanatori in cui andavano a curarsi i lavoratori sovietici.
La cerimonia di apertura e metà degli
eventi dei giochi del 2014 – le gare di pattinaggio sul ghiaccio, di hockey, di curling e
di tutte le altre discipline che richiedono
uno stadio coperto – si terranno in quella
che gli organizzatori chiamano la Zona costiera, sulle sponde del mar Nero a una
trentina di chilometri a sud del centro di
Soči, un disordinato insediamento urbano
con circa 400mila abitanti che si estende
per decine di chilometri.
Lo stadio principale, chiamato Fish  capace di accogliere 40mila spettatori, è
avvolto in un guscio trasparente a forma di
uovo, e lascia aperta la vista verso le montagne. Ma per assistere alla gare che si svolgeranno in pista bisogna raggiungere la Zona
montuosa, risalendo per più di un’ora le gole del fiume Mzymta, fino al villaggio di
Krasnaja Poljana.
A causa del traico arriviamo nella cittadina giusto in tempo per la festa di benvenuto: danzatori cosacchi con i tamburi, ragazze che fanno piroette, e decine di sciatori e snowboarder stranieri che applaudono
e bevono.
È più o meno a questo punto che il mondo comincia a preoccuparsi per una serie di
motivi: la vicinanza di Soči alla Cecenia, le
minacce dei jihadisti del Caucaso, le rivendicazioni dei circassi, che nel 2014 ricordano  il  centocinquantesimo  anniversario
della cacciata dal Caucaso e del “genocidio
circasso”, le nuove leggi russe contro gli
omosessuali, il ruolo di Mosca nella crisi
siriana, la corruzione e il costo astronomico
dei giochi (51 miliardi di dollari, otto in più
rispetto alle Olimpiadi cinesi del 2008, inora le più costose di sempre). Ma a Krasnaja Poljana tutti questi problemi sembrano lontanissimi. Una cosa è certa: il vincitore è Putin. E gli sconitti sono i russi di Soči,
che vedono le loro montagne, le coste e la
loro città trasformate nel più grande cantiere europeo.
Siamo in pieno inverno, ma a Krasnaja
Poljana non c’è neve. Anche di giorno la città quasi non ha colore: ci sono solo le diverse tonalità di grigio degli ediici in costruzione. Il rumore dei martelli pneumatici,
degli autocarri e dei mezzi che trasportano
gli operai comincia all’alba. Gruppi di lavoratori uzbechi e kirghisi camminano a testa
bassa, fumando e schivando le pozzanghere. In lontananza si vedono le scintille delle
saldatrici. In un singolo cantiere contiamo
tredici gru. Sulle iancate di molti ediici
sono appesi i cartelloni con le immagini dei
lussuosi condomini e alberghi che saranno
completati per l’inizio dei giochi. A febbraio
la temperatura media a Krasnaja Poljana è
di 6 gradi, ma sulle foto tutto è coperto di
neve. Qualche giorno prima del nostro arrivo, Putin ha deciso di mettere ine ai ritardi
e alla lievitazione dei costi con un gesto
esemplare. Parlando da un trampolino da
sci ancora non completato davanti alle telecamere della tv nazionale, ha messo alla
gogna pubblicamente il vicepresidente del
comitato olimpico russo, Akhmed Bilalov,
accusandolo di corruzione. Ventiquattr’ore
dopo Bilalov è stato licenziato.
Dall’unica parte del villaggio che se  bra quasi completata – due ile di alberghi e
passaggi pedonali accanto al iume Mzymta – partiamo con la funivia per raggiungere
il luogo dove si svolgono le gare di prova. Se
non fosse per la vernice fresca e l’ininita
confusione dei cantieri, sembrerebbe di
essere sulle montagne del Colorado. Ma
l’impressione dura solo ino a quando non
scorgiamo un gruppo di soldati con armi
automatiche. Sono qui a ricordarci cosa c’è
poco più a est: le instabili repubbliche autonome di Cecenia, Daghestan e Inguscezia.
I soldati hanno un metal detector. Controllano i miei stivali, ma non gli sci e le racchette. Secondo gli atleti, sui pendii circostanti ci sono perfino cecchini vestiti di
bianco, anche se non riusciamo a vederli.
Alcune prove sono state annullate per
mancanza di neve, e i concorrenti delusi
stanno già tornando verso l’aeroporto. Non
riesco a capire perché a Putin piaccia tanto
Krasnaja Poljana, né perché l’abbia scelta
per i giochi, inché non salgo a 2.300 metri
d’altezza. Allora tutto si chiarisce. Appena
superato uno strato di nuvole, all’orizzonte
appare una distesa di cime altissime.
In Russia ci sono anche altre montagne,   ma solo il Caucaso ha la bellezza delle Alpi.
La brulla e frastagliata catena montuosa
dell’Aibga si estende per chilometri alla mia
destra e alla mia sinistra. E le sue pareti
scendono a valle quasi a picco .
Dissidenti per caso
Le vittime abituali dei progetti faraonici come quello che ha cambiato il volto di Soči – i
lavoratori stranieri sottopagati o non pagati
afatto, gli abitanti sfrattati con la forza per
fare spazio alle nuove costruzioni – nel 2013
sono state protagoniste di un rapporto di
Human rights watch sulla città che ospiterà
i giochi, insieme a un gruppo di vittime più
improbabili: i 226 membri della sezione locale della Società geograica russa (Sgr). Il
rapporto è stato pubblicato poco prima della mia partenza per la Russia, e gli studiosi
della Sgr – dissidenti per caso, ormai in rotta con l’intero stato russo – mi aiuteranno a
capire cosa sta succedendo nella zona.
Fondata  nel  1845,  la  Sgr  è  la  società
scientiica più antica del paese, lontana dal
mondo per la politica e universalmente rispettata, come la National geographic society negli Stati Uniti. Durante l’era sovietica, le sue sezioni erano luoghi d’incontro
per esploratori e scienziati, e punti di partenza per spedizioni. L’associazione organizzava un’assemblea nazionale ogni cinque anni a San Pietroburgo (all’epoca Leningrado), ma per il resto del tempo le sezioni operavano in modo indipendente. Pur
essendo una città piuttosto piccola, nel 1957
Soči era diventata una delle sedi dell’organizzazione grazie alla straordinaria varietà
geograica e biologica della regione.
La Sgr occupa oggi l’ex residenza di un
generale che aveva avuto il compito di proteggere il leader sovietico Josif Stalin, la cui
dacia era nascosta nel itto bosco in cima
alla collina. La casa si afaccia sulle placide
onde del mar Nero e su una serie di binari
dove arrivano treni carichi di materiali da
costruzione che ripartono pieni di detriti e
calcinacci. All’interno, la segretaria scientifica Maria Reneva, un’affabile geologa
sulla  quarantina,  e  Julia  Naberežnaja,
un’ambientalista di 37 anni responsabile
della sezione, mi raccontano come sono inite nel mirino di Putin. Il marito, il padre e
la madre di Maria sono geologi, e la madre
è stata segretaria dell’Sgr di Soči prima d  lei.  Maria è entrata nell’associazione nel
1989, a 16 anni, proprio mentre l’Unione
Sovietica si stava sfaldando. Con la ine del
comunismo, la Sgr di Soči è diventata legalmente indipendente. Dopo che altre istituzioni scientiiche locali sono crollate insieme allo stato sovietico, i loro archivi hanno
trovato rifugio nella sua biblioteca.
Quando gli oligarchi di Putin hanno cominciato a costruire l’autostrada e la ferrovia per dimezzare il tempo necessario a
raggiungere Krasnaja Poljana dalla costa,
la principale impresa di costruzioni si è imbattuta in un blocco di grotte calcaree proprio dove intendeva scavare un tunnel. I
funzionari della compagnia hanno chiesto
informazioni sugli speleologi locali e sono
stati indirizzati alla sede della Sgr, la cui biblioteca  ospitava  alcuni  studi  su  quelle
grotte risalenti al periodo sovietico. In questo modo i soci dell’Sgr hanno potuto farsi
un’idea in anticipo di quello che sarebbe
successo di lì a poco a Soči. E si sono subito
schierati contro la nuova strada, i giochi e
tutto il resto. “Non abbiamo dovuto votare
per  decidere  che  eravamo  contrari  alle
Olimpiadi”, dice Julia. “Era chiaro a tutti
che  sarebbero  state  un  disastro”.  Sulle
montagne ci sarebbero stati più skilift, nelle valli più strade, sarebbero stati scavati
tunnel nelle grotte, costruite barriere sulle
spiagge e stadi nella zona umida.
Le ville degli zar
I membri dell’Sgr di Soči si sono uniti alle
associazioni ambientaliste locali per dar
voce a queste preoccupazioni, hanno pubblicato articoli su riviste e sul sito web
dell’organizzazione, e hanno concesso interviste a tv e giornali, attirando così l’attenzione di Mosca. Alla ine del 2009, la
direzione nazionale dell’associazione ha
indetto una riunione straordinaria durante
la quale è stato deciso che l’Sgr aveva biso gno di un nuovo statuto. Secondo la proposta avanzata, le sezioni locali non sarebbero più state indipendenti. Avrebbero ricevuto inanziamenti, e ordini, da quelle regionali, che a loro volta li avrebbero presi
da una nuova direzione con sede a Mosca.
In pratica, la sezione di Soči sarebbe stata
messa a tacere. Con una votazione separata, Sergeij Shoigu, esponente di spicco del
partito Russia unita e allora ministro delle
situazioni di emergenza, è stato eletto presidente.
“Oggi siamo l’unica sezione che non fa
ancora parte del nuovo sistema”, ci spiega
Maria, sottolineando che entro breve Mosca avvierà un’azione legale e che le autorità  locali  stanno  già  facendo  pressioni  “Hanno detto che se non ci uniamo a loro,
avremo dei ‘problemi’”, aggiunge. Problemi con documenti e permessi, problemi
con le tasse, o qualsiasi cosa possa venire in
mente alle autorità.
In cima alla collina, lungo la strada che
porta alla dacia di Stalin sono in costruzione alcuni palazzi con le pareti di vetro. Si
dice che appartengano al governatore della
regione, un altro esponente di spicco di
Russia unita, che li ha costruiti per alloggiare i suoi ospiti durante i giochi. Maria e Julia
stanno cercando di tirare avanti come al
solito in attesa della causa. Ci spiegano che
la riunione mensile della sezione, durante
la quale i membri presentano rapporti sulle
loro spedizioni e mostrano foto e diapositive, è prevista per la domenica successiva. E
aggiungono che se vogliamo fare un giro
delle sedi delle Olimpiadi senza limiti e
censure,  potranno  accompagnarci  due
giorni dopo.
Quello stesso pomeriggio, prima di ritirarci nel into lusso del nostro albergo di
Soči, io e Simon saliamo a vedere la dacia di
Stalin, che può essere visitata. Fu costruita
nel 1937, e ogni dettaglio venne studiato per
garantire la salute e la sicurezza del dittatore. L’esterno è dipinto di verde scuro, colore
che  rende  il  complesso  quasi  invisibile
dall’alto. I buchi delle serrature erano ermeticamente sigillati, ainché eventuali
attentatori non potessero pompare gas tossici all’interno. Gli scalini sono alti 13 centimetri, calibrati esattamente sul passo di
Stalin. In ogni stanza ci sono una inestra e
un balcone, perché, come ci spiega la guardiana, “Stalin potesse respirare l’aria fresca
di cui i suoi polmoni avevano bisogno”. Pochi russi erano a conoscenza dei suoi problemi di salute, ma era proprio questo il
vero motivo delle sue visite a Soči. Aveva
problemi ai polmoni e alla schiena. E il suo
braccio sinistro era rimasto compromesso
da un incidente avuto da bambino. “La seconda parte della sua vita fu una tortura”,
dice la guida in tono ironico. “Ma qui l’aria
di mare si mescola con quella di montagna.
E fa bene ai polmoni”.
Stalin trovava toniicanti anche le nuotate quotidiane, e aveva deciso che Soči
sarebbe stato un posto ideale per la salute
non solo sua ma di tutti i lavoratori sovietici. Insomma Stalin amava Soči come la ama
Putin.  “Ma  cosa  avrebbe  pensato  delle
Olimpiadi?”, chiede Simon.
“Stalin non avrebbe permesso che suc  cedesse tutto questo”, risponde la guida.
“Stanno rovinando la città”.
Anche Vladimir Putin ha una dacia a
Soči. Anzi tre, se si vuol credere alle voci
che circolano. Voci che sono confermate
dai registri immobiliari, da indiscrezioni
varie, dalle guardie federali davanti ai cancelli, e dalle foto scattate da attivisti e lavoratori e poi messe online. Tutti a Soči sembrano saperlo. Una delle dacie, una villa in
stile italiano da 350 milioni di dollari che
qui chiamano il Palazzo di Putin, è sulla costa a nord della città. Un’altra è nei boschi
alle spalle di Krasnaja Poljana, vicino alla
pista dove si svolgeranno le gare di discesa
libera. Ma quella che vorrei visitare è a più
di duemila metri d’altezza, sui pendii nevosi della cima più alta del Caucaso occidentale, il monte Fisht, che raggiunge i 3.868
metri e dà il nome al principale stadio olimpico di Soči. Il posto si chiama Lunnaja Poljana (campo della luna) e, a seconda delle
mappe, è all’interno o al conine con una
zona protetta dall’Unesco, “una delle poche regioni montuose europee che non sono state modiicate in modo signiicativo
dall’uomo”, ha sottolineato l’organizzazione quando nel 1999 ha dichiarato il Caucaso occidentale patrimonio dell’umanità.
Quando è cominciata la costruzione del
corpo centrale della villa, nel 2002, il sito è
stato deinito uicialmente una stazione
meteorologica o un “centro scientiico” e
battezzato Biosfera. Ma poi sono arrivati gli
skilift, le piattaforme di atterraggio per gli
elicotteri, gli chalet in stile svizzero, decine
di stanze per gli ospiti e quattro gatti delle
nevi. A tutti è apparso chiaro che si trattava
d’altro: una stazione sciistica privata all’interno di quella che un tempo era una zona
protetta.
Gli escursionisti sono stati i primi a notare la strana costruzione. Alcuni hanno
raccontato  di  essere  stati  cacciati  dalle
guardie, che li hanno costretti a cancellare
le foto. Qualche immagine però è trapelata,
grazie soprattutto a un gruppo ambientalista locale che si fa chiamare Guardia ambientale del Caucaso settentrionale e che
nel 2007 ha iniziato a fare ispezioni annuali al sito. Sono cominciati a circolare video e
fotograie. Secondo un rapporto pubblicato
dai gruppi di opposizione, Lunnaja Poljana
sarebbe uno dei venti tra palazzi e chalet di
campagna  di  cui  dispone  Putin,  oltre  a
quattro yacht, 15 elicotteri e 43 aerei.
A far saltare il mio piano di visitare di
persona Lunnaja Poljana sono le stesse
piogge che hanno mandato a monte diverse
prove olimpiche. Le strade sterrate son  impraticabili a causa del fango, non c’è abbastanza neve per spostarsi con gli sci, e le
guide che contatto mi spiegano che mi ci
vorrebbe più di una settimana per salire
sulla montagna e riscendere a piedi. Perciò
decido di limitarmi a prendere un treno che
costeggia il mar Nero in direzione nordovest per incontrare il fondatore della Guardia ambientale del Caucaso settentrionale,
Andrej Rudomakha, un attivista leggendario che è probabilmente la più fastidiosa
spina nel ianco di Putin in tutta la regione.
Alla stazione di Krasnodar, la capitale
della regione, un gruppo di giovani mi accoglie con un cartello con la scritta “State
department”.  Uno  di  loro  mi  spiega  lo
scherzo: “Pensano tutti che siamo inanziati dagli Stati Uniti”. In efetti in Russia le
autorità ormai bollano ogni tipo di dissenso
come frutto di complotti stranieri. Io e i
miei ospiti ci stringiamo in una vecchia Lada in cui manca un sedile e ci dirigiamo verso la sede locale del partito liberale Yabloko. Cercare sponde in politica è l’ultimo
esperimento di Rudomakha, il tentativo di
capire se c’è un modo di lottare per la tutela
del Caucaso che vada oltre i picchetti e i comunicati stampa.
Nella sede di Yabloko, Rudomakha – che
da giovane è stato un chitarrista rock, un
ammiratore di Che Guevara e il fondatore
di una comune – scrive silenziosamente al
computer. Le Olimpiadi, dice, sono una catastrofe per l’ambiente. La villa di Lunnaja
Poljana è una minaccia all’ecosistema altrettanto grave, ma è anche stata l’oggetto
di una delle principali vittorie della sua organizzazione. Qualche anno fa, dopo che le
autorità avevano cominciato a costruire
una strada per raggiungere la villa attraverso la foresta, la Guardia ha avviato un’azione legale, ha mandato i loro attivisti a bloccare le ruspe e i taglialegna, e ha lanciato un
appello all’Unesco. La minaccia di aggiungere il Caucaso occidentale alla lista di siti
patrimonio dell’umanità a rischio è stata
suiciente a convincere il governo a fare
marcia indietro. Ma la villa è ancora lì, e
all’orizzonte c’è un nuovo progetto: un’altra
strada che dovrà sorgere sulla parte opposta della montagna. “In Russia la legge non
esiste”,  commenta  Rudomakha.  “È  per
questo che siamo destinati a perdere quasi
tutte le nostre battaglie. Ma in questo caso
c’è di mezzo l’Unesco, e forse abbiamo
qualche possibilità”.
Vietato inquinare
“Hai solo una iglia, vero?”, chiedo a Julia in
una mattinata piovosa mentre lei e Maria si
preparano ad accompagnarci a fare il giro
dei siti olimpici. È una semplice curiosità.
Ma lei si gira verso di me, che sono seduto
sul sedile posteriore della macchina, e mi
lancia un’occhiata carica d’odio. “Come fai
a saperlo?”, mi chiede. Si calma solo quando le ricordo che ho visto la bambina qualche giorno prima nella sede della società
geograica. In quel momento capisco l’atmosfera di terrore che ormai pervade tutto.
Qualche tempo dopo trapelerà la notizia
che a Soči il governo ha istituito un sistema
per sorvegliare tutti i tweet, le email e le telefonate fatte durante i giochi.
Julia, scopro, da tempo fa anche parte
della Guardia. Negli anni novanta ha perino vissuto nella comune di Rudomakha, il
quale, a sua volta, è socio della Società geograica. Tuttavia è importante distinguere
tra i due gruppi, sottolinea Maria. L’opposizione dell’Sgr di Soči ai giochi non è di tipo
politico:  è  motivata  esclusivamente  da
quello che vedremo tra poco. La nostra destinazione è un’importante zona umida che
un tempo ospitava duecento specie di uccelli  migratori  e  numerose  piante  rare.
“Questo territorio doveva diventare una
riserva”, spiega Julia. “Avevamo preparato
tutti i documenti. Doveva rientrare nella
convenzione di Ramsar sulle zone umide.
Ma non è stato possibile”.
Lasciamo la strada principale e seguiamo una ila di enormi ribaltabili arancioni
ino alla Zona costiera dei giochi. Il Fisht e
altri stadi in costruzione emergono dal fango circondati da strade di ghiaia e da una
foresta di grattacieli destinati a ospitare
atleti, giornalisti e spettatori. Il rumore dei
lavori si sente attraverso i inestrini chiusi
della macchina. Quando arriviamo a quel
che resta della palude, Maria e Julia non dicono nulla. Non è necessario. Una serie di
piccoli stagni privi di vegetazione segna
l’incrocio tra due strade fangose percorse
da un lusso continuo di camion. Le sponde
sono disseminate di bottiglie di plastica,
calcinacci e cataste di legna. Accanto a un
bagno chimico ci sono due cartelli, uno in
russo  e  uno  in  inglese,  che  definiscono
quella scena apocalittica “Parco ornitologico naturale della palude di Imeretinskaja”.
“Su tutto il territorio del parco”, dicono i
cartelli, “è vietato svolgere attività che possano  modificare  il  paesaggio  naturale”.
Vietato cacciare, danneggiare i terreni di
riproduzione  degli  uccelli,  raccogliere
piante selvatiche, inquinare l’acqua o danneggiare “la qualità ambientale, estetica e
ricreativa del parco”.
Dalla  palude  ci  spostiamo  verso  un
quartiere residenziale afacciato sulla Zona
costiera. Cerchiamo una strada chiamata
Bakinskaja. Un intero isolato di case quasi
tutte ancora occupate è inclinato con una
strana angolazione. Un po’ più giù, la posizione di due palazzi ricorda quella della
torre di Pisa: sono appoggiati l’uno all’altro
e si sostengono come due ubriachi. Da un
paio d’anni gli abitanti della zona vedono i
camion arrampicarsi pieni in cima alla collina per scenderne vuoti. Trentamila tonnellate di detriti olimpici, provenienti quasi
tutti dalla costruzione della ferrovia, sono
initi in una discarica illegale. Un giorno,
dopo un temporale, il ianco della collina è
improvvisamente scivolato, insieme alle
fondamenta delle case. Dieci mesi prima
della nostra visita, il governo ha annunciato
che avrebbe trasferito altrove gli abitanti
della strada. Ma passati i dieci mesi i camion continuano a scaricare materiale e la
gente è ancora nelle vecchie case. La nostra
ultima meta è un campo di attivisti sulla riva nord del fiume Kudepsta, sorvegliato
ventiquattr’ore al giorno dai residenti della
zona e da membri della Guardia. Hanno
occupato la postazione nove mesi prima,
quando un’impresa edile ci ha costruito un
ponte temporaneo. Sulla riva opposta doveva sorgere una centrale elettrica a gas
destinata a fornire elettricità ai giochi.
L’ultimo giorno a Soči assisto alla riunione domenicale della Società geograica:
per qualche ora nessuno parla delle Olimpiadi. Tre soci intrattengono gli ospiti, uno
dopo l’altro, nella sala conferenze. Una
trentina di persone, tra vecchi e giovani, è
arrivata per assistere alle loro presentazioni. Il primo a parlare è un tizio che ha fatto
una normale gita turistica in Crimea e proietta una serie di diapositive. Poi c’è il video
di un trekking attraverso il Caucaso accompagnato da una piacevole musichetta. Le
montagne sopra Krasnaja Poljana sono di
una bellezza mozzaiato anche d’estate.
L’ultima presentazione è una sorpresa:
nell’estate del 2012 uno degli iscritti di no  me Andrej ha chiesto 19 passaggi, è saltato
su un numero imprecisato di treni merci e si
è costruito una zattera di tronchi per raggiungere la parte più settentrionale della
Siberia. Il suo viaggio è durato 58 giorni.
“Adesso vi mostrerò le mie 269 foto”, dice.
L’intera stanza scoppia a ridere, applaude e
comincia a cantare con lui le canzoni che ha
scritto lungo la strada. È una manifestazione di quello spirito russo che tanto sorprende gli stranieri. Questa è la Russia che Putin
dovrebbe  orgogliosamente  mostrare  al
mondo ai giochi di Soči.
Dopo la festa
Qualche giorno dopo il mio ritorno negli
Stati Uniti ho ricevuto un’email da Julia.
Erano stati scoperti dei taglialegna e dei
bulldozer al lavoro per costruire una nuova
strada per Lunnaja Poljana. Julia era subito
andata sul posto con gli attivisti della Guardia ed era riuscita a conservare la scheda di
memoria della sua macchina fotograica.
Le immagini sono inite su internet. Poco
più di un mese dopo, gli agenti dell’Fsb, i
servizi di sicurezza russi, e del Centro per la
lotta all’estremismo hanno fatto irruzione
nella sede della Guardia a Majkop. Hanno
costretto gli attivisti ad aprire le loro caselle
di posta elettronica e hanno letto tutti i
messaggi. Alla ine hanno “consigliato” di
non pubblicare il rapporto sulle Olimpiadi
per non “danneggiare la Russia”.
Qualche mese dopo, Andrej Rudomakha è stato invitato a incontrarsi con un presunto informatore a un capolinea degli autobus di Krasnodar. L’uomo aveva detto di
chiamarsi Aleksej e di essere un “cittadino
preoccupato” che aveva informazioni su
una discarica illegale. In realtà era un agente del Centro per la lotta all’estremismo e
aveva con sé la lettera di un procuratore.
Rudomakha è stato costretto a leggerla a
voce alta mentre l’agente lo ilmava. Confessate che la Guardia è “un’agenzia straniera”, diceva, altrimenti saranno guai. Alla
ine di aprile, alcuni pesanti macchinari e
sette guardie private sono arrivati al campo
di attivisti sulla riva del Kudepsta. Gli attivisti si sono arrampicati sul ponte per bloccare il passaggio. Poi sono arrivati una settantina di poliziotti, li hanno trascinati via e le
macchine hanno raggiunto l’altra sponda.
Il progetto della centrale elettrica, tuttavia,
è stato abbandonato a giugno per ritardi
nella costruzione. Per quanto riguarda la
Società geograica di Soči, l’ingiunzione di
Mosca è arrivata all’inizio di marzo, come
preannunciato. Ma un mese dopo, mentre i
manifestanti venivano allontanati dal iume Kudepsta, è successo qualcosa di sorprendente. “Può congratularsi con noi”,
diceva un messaggio di Maria e Julia. “Ieri
abbiamo vinto la causa”. Mosca ha deciso
che la sezione di Soči potrà continuare a
esistere. Maria e Julia erano sorprese. E
anch’io. Poi mi sono ricordato una cosa che
Maria mi aveva detto quando ero a Soči.
“Qualunque cosa vogliano farci, aspetteranno dopo le Olimpiadi, quando nessuno
presterà più attenzione a quello che succede qui”. u  bt
L’AUTORE
McKenzie Funkè un giornalista
statunitense. Si occupa di ambiente e ha
collaborato con Harper’s, National
Geographic e il New York Times. Ha
scritto Windfall: The booming business of
global warming (Penguin Press 2014).




Qualcosa si è rotto
Gazeta, Russia  


S
e non ci fossero stati gli attentati
di Volgograd (dove il 29 e il 30 dicembre un attentato suicida e
un’autobomba hanno causato 34 morti)
il 2013 sarebbe stato un anno di pace e
perino di slancio spirituale: l’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij, in carcere
dal 2003, ha ricevuto la grazia, mentre
le Pussy riot e gli attivisti di Greenpeace sono stati amnistiati. E alle Olimpiadi di Soči potrà partecipare senza timori di conseguenze perino chi non condivide i valori tradizionali russi. Alla ine, però, qualcosa si è rotto proprio dove il tessuto del paese è più fragile.
All’inizio del 2013 la Russia sembrava essere sprofondata in un vortice di
oscurantismo. Il parlamento aveva vietato agli statunitensi di adottare gli orfani russi e si preparava a vietare la
“propaganda” dell’omosessualità. I dodici incriminati per le proteste di piazza
Bolotnaja contro Putin erano in attesa
di un processo. In estate, poi, c’è stato il
processo ad Aleksej Navalnij, uno dei
leader dell’opposizione, che prima è
stato condannato a cinque anni di carcere, poi inaspettatamente scarcerato.
In autunno si è fatta sentire una delle
Pussy riot, Nadežda Tolokonnikova,
che è riuscita a far pubblicare una lettera aperta sulle violazioni dei diritti dei
detenuti ed è stata poi trasferita in un
luogo di reclusione in Siberia. Negli
stessi giorni si apriva il processo agli attivisti di Greenpeace accusati di avere
assaltato una piattaforma petrolifera
nell’Artico. Il 2013, insomma, è stato un
anno di repressione: processi, carcere,
esilio per chi si era macchiato di colpe
nei confronti dello stato e del sistema.
Alla ine dell’anno, però, il sistema
stesso ha inaspettatamente mostrato
un volto nuovo. In realtà non è corretto
parlare di sistema, visto che si tratta di
un uomo solo e della sua benevolenza.
Navalnij? Non è pericoloso, dice l’uomo al comando, altrimenti non gli avrei
permesso di candidarsi alle elezioni
per il sindaco di Mosca. Le Pussy riot?
Solo delle innocue teppiste. E Khodorkovskij? Ma è stato lui a chiedermi la
grazia, io l’ho solo irmata. Certo, il
processo per le proteste di piazza Bolotnaja continua, ma lontano dai rilettori, ora che l’oligarca può inalmente riabbracciare la mamma malata e le Pussy riot rilasciano interviste in tv. La
Russia è diventata così un quadro da
esposizione, una terra promessa. Le
Olimpiadi? È tutto pronto. Mosca? Una
città piena di mercatini natalizi e con
elezioni trasparenti. I prigionieri politici? Tutti liberi.
I tribunali russi non sono più uno
strumento per risolvere i problemi di
politica interna. Insieme alla polizia,
ora svolgono il ruolo di ligi esecutori
della volontà suprema dello stato. E poco importa che, tra un’amnistia e una
grazia, nella sostanza le cose non siano
cambiate: l’importante è che il clima
per gli investimenti sia migliorato.
L’importante è il messaggio simbolico
inviato alla vigilia delle Olimpiadi e del
summit dei G8, in programma a giugno, sempre a Soči. L’importante è la
benevolenza del sovrano e la sensazione che ci troviamo in un momento in
cui non ci sono pericoli incombenti.
Che il pubblico accorra pure in Russia
per il grande spettacolo, ovunque regna la stabilità...
Ma l’illusione della stabilità è stata
infranta dalle bombe di Volgograd. E
ora c’è il rischio che il 2014 sia segnato
da un inasprirsi della repressione. I politici nazionalisti sembrano fare a gara
a chi è più assetato di sangue. Alcuni
hanno chiesto di annullare la moratoria
sulla pena di morte, altri vogliono che
la polizia possa intercettare ogni tipo di
conversazione. E così, nonostante le
sorprese dell’anno appena inito, l’inizio del 2014 ha la stessa tetra atmosfera
che aveva l’inizio del 2013. u  af

1033 -- La censura su internet con la scusa dei bambini

I
mmaginate la scena. Siete su internet per passare il tempo, magari cercando ricette di torte
o video di cuccioli che imparano a ululare.
Squilla il telefono. È il vostro provider. In realtà, è la gentile dipendente di un call center,
chiamiamola Linda. Linda vi chiama perché,
grazie al  porn ilterdel primo ministro David Cameron,
adesso siete “costretti a scegliere”, come altri 20 milioni di famiglie britanniche con una connessione a
banda larga, se vedere o meno certi contenuti. In pratica vuole sapere se intendete vedere siti pornograici.
E informazioni sulle droghe illegali? Sul
sesso tra gay? Sull’aborto? “La chiamata
può essere registrata ai ini di formazione e monitoraggio del personale”. E materiale osceno e volgare? Volete vederlo?
Parlate più forte, Linda non vi sente.
Il iltro ideato dal governo britannico, che entrerà in vigore questo mese
dopo un anno di pressioni, bloccherà
molto più che le immagini oscene. L’intenzione è sempre stata questa, e ora
appare chiaro che c’era un subdolo piano per censurare internet. Con la scusa
di proteggere i bambini da una marea di robaccia volgare, si stabilisce un grave precedente di controllo dello stato sui contenuti digitali.
Il lodevole intento di proteggere gli innocenti viene
sempre  usato  per  mantenere  l’opinione  pubblica
nell’ignoranza. Quando è cominciata l’introduzione
del iltro, si è scoperto che British Telecom (Bt) avrebbe bloccato anche i siti “gay e lesbici” non pornograici e i contenuti di “educazione sessuale”. Appena sono
scoppiate le proteste, l’azienda ha rapidamente cambiato il testo sul suo sito, ma non sappiamo se ha modiicato anche qualcos’altro.
Il presidente di TalkTalk, uno dei più grandi fornitori di servizi internet britannici, ha afermato che la
rete non ha nessuna “norma sociale o morale”. Be’,
non ce l’ha neanche una biblioteca. Nessuno si sognerebbe di chiedere a una biblioteca di impiegare robot
guardiani della moralità per impedire ai bambini di
scoprire qualcosa che secondo i loro genitori non dovrebbero vedere. Online sta succedendo questo, con
la sola diferenza che chiunque usi internet è trattato
come se fosse un bambino.
Ogni argomento usato dai politici a favore di questo iltro riguarda la pornograia e i suoi efetti dannosi
sui giovani. È curioso, poi, che tante delle categorie
incluse nella lista dei contenuti bloccati dalla Bt non
sembrino né pornograiche né direttamente collegate
ai bambini. La categoria dei “contenuti osceni”, per
esempio, si estende a “siti con informazioni sulla manipolazione di dispositivi elettronici e la distribuzione
illegale di software”, cioè al ilesharing e al download
di musica, sui quali in parlamento la discussione va
avanti da anni. Qualunque sia il vostro giudizio su chi
scarica gratuitamente musica e cartoni animati, resta
il fatto che non fa nulla di osceno né di pornograico.
Più che un tentativo di proteggere i bambini, il  porn
ilterdi Cameron sembra un tentativo del governo britannico di tenere lontani i suoi cittadini da certi contenuti. La cosa peggiore, però, non è il fatto che blocca
una gran quantità di informazioni utili,
ma il blocco in sé. Con una giustiicazione inconsistente, un governo conservatore ha dato alle aziende private il permesso di decidere a quali siti possiamo o
meno accedere. È un precedente per
una censura su vasta scala.
Ancora più preoccupante è l’inclusione nelle liste di materiale considerato
“estremista”, comunque il governo e le
aziende autorizzate decidano di deinire
questo concetto. L’opinione pubblica
non ha alcuna voce in capitolo su quali
contenuti politici saranno bloccati, come non ne ha
avuta sul fatto che dovessero essere bloccati.
La registrazione delle scelte, inoltre, renderà più
facile alle agenzie di sorveglianza nazionali e internazionali sapere chi vede cosa. Sette mesi di rivelazioni
sulla capacità di acquisire dati da parte di organizzazioni come la National security agency statunitense
(Nsa), comprese le informazioni sulle abitudini sessuali dei politici, raccolte per screditarli, sollevano
ragionevoli sospetti. Vi sentite ancora a vostro agio
mettendo una crocetta sul riquadro “contenuti osceni
e volgari”? Siete sicuri?
La domanda su chi dovrebbe poter accedere a queste informazioni è diventata oggetto di un dibattito
pubblico che deinisce la nostra epoca. Dopo le rivelazioni di Edward Snowden, nel 2014 quella domanda
sarà rivolta a tutti noi, e dobbiamo interpretare il tentativo di qualsiasi stato di bloccare e iltrare i contenuti online in questo contesto.
Gli strumenti per controllare gli adulti sono usati
da tempo con la scusa di proteggere i bambini, ma se
vogliamo davvero aiutare i bambini possiamo cominciare negando alle aziende private e ai politici conservatori il diritto di stabilire ciò che possono o non possono sapere. Il libero accesso a secoli di informazioni
e di cultura è un’impareggiabile conquista della civiltà
umana. Dobbiamo difenderla, per il bene delle generazioni future.  u

1033 - I motivi della crisi che scuote la Turchia - Il sostegno del movimento islamico di Fethullah Gülen è stato cruciale per il governo di Recep Tayyip Erdoğan. Ora la ine di quest’alleanza minaccia la stabilità del paese Mustafa Akyol, Al Monitor, Stati Uniti KIYOSHI OTA (BLOOMBERG VIA G

L
o scandalo di corruzione che a
dicembre ha provocato le dimissioni di tre ministri continua ad
allargarsi.  Il  governo  dell’Akp
(Partito per la giustizia e lo sviluppo, conservatore) accusa i suoi ex alleati del movimento guidato da Fethullah Gülen di manipolare la giustizia per rovesciare l’esecutivo. La tensione tra l’Akp e il movimento è
costantemente aumentata negli ultimi due
anni.  Il  primo  ministro  Recep  Tayyip
Erdoğan, lo studioso dell’islam Fethullah
Gülen e i loro rispettivi sostenitori sono tutti musulmani provenienti dalla corrente
sunnita maggioritaria in Turchia (hanai).
In passato Erdoğan e Gülen si sono alleati
contro l’autoritarismo laico e hanno usato
riferimenti religiosi per sostenere le loro
argomentazioni. Nonostante questo ci sono alcune diferenze di rilievo. Il nucleo
dell’Akp proviene dalla tradizione del Millî
görüş (Visione nazionale), la versione turca
dell’islam politico caratterizzata da toni
antioccidentali e panislamici. Anche se
l’Akp ha esplicitamente abbandonato questa ideologia in dalla sua fondazione, più
di dieci anni fa, la maggior parte degli osservatori  ritiene  che  negli  ultimi  anni
Erdoğan si sia gradualmente riavvicinato
al Millî görüş.
Il movimento di Gülen invece si rifà alle
idee del teologo islamico Said Nursî (1878-1960), che predicava la supremazia della
fede e dell’etica sulla politica. Di solito i
suoi sostenitori riiutano le derive politiche
dell’islamismo. Anche per questo i seguaci
di Gülen non hanno mai votato per i partiti
legati al Millî görüş, preferendo le formazioni politiche di centrodestra. Alcuni studenti islamici hanno deinito il movimento  di Gülen come un’espressione dell’“islam
culturale” in opposizione all’islam politico.
I motivi dello scontroSe il movimento di
Gülen si fosse limitato alla cultura islamica, però, non si sarebbe mai arrivati alle
attuali tensioni. Secondo molti osservatori
invece il movimento ha una sua concezione di impegno politico: ottenere per i suoi
esponenti incarichi di rilievo all’interno del
sistema giudiziario e delle forze dell’ordine. Questa strategia è cominciata negli anni settanta per modiicare uno stato ostile
– il draconiano regime laico turco – iniltrandosi gradualmente nei suoi ranghi.
L’impegno politico del movimento è stato
sempre portato avanti di nascosto, alimentando speculazioni e teorie del complotto.
Quando l’Akp è salito al potere nel 2002
ed è stato subito preso di mira dalla vecchia
guardia  secolare,  i  sostenitori  di  Gülen
all’interno della polizia e del sistema giudiziario sono emersi come un alleato naturale del governo. Così Erdoğan avrebbe deciso di sostenerli a scapito dei loro rivali laici.
Tuttavia, dopo la deinitiva sconitta del
vecchio establishment tra il 2010 e il 2011,
sono emerse alcune divergenze tra l’Akp e
il movimento. Il primo momento critico è
arrivato con la crisi del Mit, il servizio segreto turco.
Nel febbraio del 2012 il capo del Mit Hakan Fidan, uomo di iducia di Erdoğan, è
stato chiamato a testimoniare da un giudice di Istanbul nell’ambito di un’indagine
sul  Partito  dei  lavoratori  del  Kurdistan
(Pkk). Secondo il New York Times era “l’ultimo atto di una lotta di potere tra le forze
di sicurezza e i servizi segreti”, ma l’episodio è stato interpretato anche come uno
scontro tra l’Akp e gli esponenti della polizia e del sistema giudiziario vicini a Gülen.
Da allora i sostenitori di Erdoğan hanno
denunciato l’esistenza di uno “stato nello
stato” che agirebbe in base alla sua personale gerarchia e userebbe il potere per proteggere i propri interessi.
L’escalationDopo la crisi del Mit del febbraio 2012 tra l’Akp e il movimento i rapporti sono stati ostili ma tranquilli, ino a
quando, a metà dello scorso novembre, la
decisione di Erdoğan di chiudere le “scuole
preparatorie” (i corsi del ine settimana che
preparano gli studenti liceali agli esami
universitari) ha fatto precipitare la situazione. Il movimento, che gestisce un quarto delle scuole e le considera una fonte di
inanziamento e reclutamento, ha interpretato la mossa del primo ministro come
un attacco. I mezzi d’informazione vicini a
Gülen  hanno  parlato  di  un  “attentato
all’impresa privata” da parte del governo.
L’esecutivo ha risposto con dichiarazioni
durissime, e presto lo scontro verbale è degenerato in guerra aperta.
La battaglia tra “una leadership politica
sempre più autoritaria e il suo rivale sempre più nervoso”, come l’ha deinita Yasemin Çongar su Al Monitor, ha avuto una
nuova svolta il 16 dicembre, quando Hakan
Şükür, ex stella del calcio diventato parlamentare, si è dimesso dall’Akp. Şükür, che
al momento delle dimissioni ha duramente
criticato il governo, è un seguace di Gülen,
e se il suo ingresso in parlamento nel 2011
era apparso come un sigillo al matrimonio
tra il movimento e il partito, la sua uscita ne
ha sancito il divorzio.
La vera bomba però è esplosa il giorno
successivo. Il giudice Zekeriya Öz, considerato un esponente del movimento di
Gülen, ha ordinato una retata contro deci  ne di persone, inclusi i igli di tre ministri,
un sindaco dell’Akp e alcuni uomini d’afari e funzionari statali. Milioni di dollari ammassati in scatole di scarpe sono stati mostrati ai giornalisti, rivelando quello che è
senza dubbio il più grave scandalo di corruzione nella storia recente della Turchia.
Nel giro di otto giorni i quattro ministri
coinvolti hanno rassegnato le dimissioni.
Uno di loro, Erdoğan Bayraktar, ha dichiarato che anche il premier avrebbe dovuto
dimettersi.
Dall’inizio dell’inchiesta sulla corruzione sono emerse due versioni in contrasto
tra  loro.  Secondo  i  sostenitori  dell’Akp
l’obiettivo del movimento di Gülen, o per
lo meno del suo “stato nello stato”, è sabotare il governo cercando di portare a termine un “colpo di stato” per vie legali. I mezzi
d’informazione vicini a Gülen accusano
invece l’esecutivo di voler nascondere la
corruzione ricorrendo a teorie del complotto e ostacolando il corso della giustizia.
Il ruolo di Iran e IsraeleAl centro dello
scandalo c’è l’accordo “petrolio in cambio
di oro” con l’Iran. Ankara avrebbe usato
l’accordo per aggirare le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea contro Teheran, mentre la Halkbank, controllata dallo
stato turco, avrebbe gestito il trasferimento
di denaro utilizzando una complessa rete.
Non c’è da stupirsi se tra gli arrestati c’è anche l’amministratore delegato della Halkbank, Süleyman Aslan, nella cui abitazione
sarebbero state trovate le famose scatole
da scarpe piene di dollari. Un altro sospettato illustre è Riza Sarraf, ricco commerciante d’oro iraniano, conosciuto in precedenza come Reza Zarrab e accusato di aver
corrotto politici di spicco.
I mezzi d’informazione vicini all’Akp
sostengono  che  l’accordo  segreto  con
l’Iran fosse nell’interesse del paese, e che il
denaro trovato nelle abitazioni sarebbe
stato usato per inanziare progetti di beneicenza come la costruzione di scuole. Inoltre dietro questa manovra si nascondereb be Israele. In base a questa teoria lo stato
ebraico e le sue lobby americane, principali nemici dell’Iran e del legame tra Teheran
e Ankara, sono all’origine dell’inchiesta
sulla corruzione. Il fatto che il movimento
di Gülen abbia accuratamente evitato di
alimentare il sentimento antiisraeliano
all’interno dei circoli islamici turchi viene
presentato come una prova a sostegno del
coinvolgimento di Israele nella vicenda. I
quotidiani vicini al governo sono pieni di
articoli che dipingono il movimento come
la quinta colonna o il cavallo di Troia del
sionismo.
Sulla vicenda i liberali sono divisi. Molti di loro si sono allontanati dall’Akp ancora
prima delle proteste contro la ristrutturazione del parco Gezi dell’estate scorsa, e
dunque sostengono l’inchiesta sulla corruzione e sembrano appoggiare Gülen. Tuttavia altri esponenti progressisti continuano a sostenere l’Akp perché sperano in un
esito positivo del processo di pace con il
Pkk. Questo secondo gruppo inoltre continua a temere lo “stato nello stato” e le posizioni da falco di Gülen riguardo alla questione curda.
Nel frattempo la maggior parte degli
altri gruppi islamici (nessuno dei quali paragonabile al movimento di Gülen in termini di notorietà e forza politica) è fedele a
Erdoğan, mentre i laici accusano i due
principali schieramenti islamici di aver distrutto la repubblica.
Chi vincerà?A questo punto il concetto di
vittoria appare relativo. Il movimento di
Gülen non è un partito politico, e non c’è
nessun altro partito con cui potrebbe andare d’accordo. Per questo molti pensano che
il movimento non voglia colpire l’Akp ma
solo Erdoğan, nella speranza che l’uscita di
scena del leader possa smussare l’autoritarismo del partito al potere.
Comunque vada a inire, sarà una vittoria di Pirro. Se Erdoğan riuscirà a schiacciare il movimento, come prevedono diversi osservatori, inirà col perdere molti
voti e indebolire le sue credenziali democratiche. Se prevarrà Gülen, sarà la prova
che il movimento dispone di un grande potere all’interno dello stato, e questo comprometterà la sua posizione come espressione  moderata  dell’islam  culturale.  In
entrambi i casi a farne le spese sarà la stabilità politica ed economica della Turchia,
per non parlare dello stato di diritto e della
pace sociale. In Turchia, insomma, è in
corso una guerra che non avrà vincitori.
Proprio il genere di guerra che si combatte
con più passione. u as
Mustafa Akyol  è un giornalista turco.
Scrive regolarmente per i quotidiani turchi
Star e Hürriyet e collabora con il New York
Times.

lunedì 20 gennaio 2014

1029 - La stagnazione secolare Secondo l’economista Larry Summers, l’occidente è destinato ad anni di crescita piatta come il Giappone. Il suo intervento fa discutere gli esperti e i politici Mark Schieritz, Die Zeit, Germania

N
ei primi mesi della presidenza
di Bill  Clinton un gruppo di economisti statunitensi ricevette
l’incarico di esaminare attentamente la situazione del Giappone. In quel
periodo, all’inizio degli anni novanta, il
pae se asiatico era precipitato in una grave
crisi dopo anni di rapido sviluppo. Uno degli
esperti era Larry Summers, un ambizioso
studioso di economia che era stato nominato professore a Harvard ad appena 29 anni .
Summers e i suoi colleghi si misero al lavoro
e  pronosticarono  una  rapida  ripresa
dell’economia giapponese. La loro previsione, però, si è rivelata completamente
sbagliata: oggi il pil del Giappone corrisponde a circa la metà di quello contenuto nello
studio per l’amministrazione Clinton.
Summers, che in seguito è stato ministro
delle inanze e poi è tornato a insegnare a
Harvard, ha raccontato questo aneddoto a
novembre, in occasione di un convegno del
Fondo monetario internazionale. Il suo intervento, che è durato sedici minuti, ha avuto  un  grande  risalto  online,  gettando  lo
scompiglio tra gli economisti e i politici di
tutto il mondo. Summers, infatti, ritiene
che l’occidente si trovi di fronte allo stesso
destino del Giappone, cioè lo attendono anni di stagnazione.
Per comprendere lo scalpore provocato
dal discorso, bisogna considerare che il modello  economico  occidentale  è  basato
sull’idea di una crescita ininterrotta. Una
crescita che serve a creare nuovi posti di lavoro per le persone che restano disoccupate
a causa del progresso tecnologico. Una crescita che fa in modo che ci sia bisogno di
sempre meno giovani per pagare la pensione a un numero crescente di anziani. Una
crescita, inine, che permette di far salire le  entrate dello stato, che così può rimborsare
i suoi debiti. Insomma, senza la crescita il
mondo così com’è organizzato si trova di
fronte a gravi diicoltà.
Secondo Summers, invece, questo problema esiste già: a uno sguardo attento, infatti, si può notare che l’economia dei grandi paesi industrializzati è praticamente immobile  da  più  di  vent’anni.  Prima  dello
scoppio della crisi, nel 2008, negli Stati Uniti era stato registrato un notevole sviluppo
in alcuni settori, ma questo era dovuto soprattutto al fatto che l’economia era stata
ravvivata grazie agli eccessi del mercato
immobiliare. Qualche anno prima era avvenuta la stessa cosa quando gli statunitensi si
erano rovinati speculando sulle azioni delle
aziende high-tech.
Troppi risparmi
In questa prospettiva, la storia economica
recente può essere descritta come una sequenza ininterrotta di bolle speculative.
Diversamente da altre fasi di crescita, durante le bolle le paghe dei lavoratori non
hanno registrato quasi nessun aumento, e
anche la produzione industriale è rimasta
indietro rispetto alle sue possibilità. I tempi
della crescita sana, ha detto Summers, sono
“initi da un pezzo”.
Secondo l’economista, il motivo è che si
risparmia troppo e si investe troppo poco.
Normalmente gli interessi fanno sì che i risparmi e gli investimenti siano in equilibrio.
Se per esempio durante una crisi si risparmia molto, in un primo momento i consumi  ne risentono. Ma dato che tutti i soldi risparmiati iniscono prima o poi sul mercato, si
ottiene una riduzione del costo del denaro,
cioè dei tassi d’interesse, e le imprese possono ottenere finanziamenti più convenienti. In questo modo diventano realizzabili  quei  progetti  d’investimento  che  in
presenza di tassi d’interesse più alti non sarebbero stati redditizi. Così l’economia torna a crescere a ritmi più sostenuti.
Ma i tassi d’interesse hanno un limite:
non possono scendere in modo signiicativo al di sotto dello zero (un tasso d’interesse
è negativo quando il suo valore nominale è
inferiore all’inlazione, cioè la perdita di
potere d’acquisto dei soldi depositati supera la loro remunerazione). Se, con i tassi
negativi, le banche tentassero di sottrarre
una certa somma ogni mese dai risparmi   dei loro correntisti, i clienti si limiterebbero
a conservare più denaro a casa.
Nel  suo  discorso  Summers  ha  citato
l’economista Alvin Hansen, che già negli
anni trenta aveva previsto una pericolosa
“stagnazione secolare” dell’economia: nello scenario delineato da Hansen, le imprese
investono meno perché vendono meno prodotti a causa della diminuzione della popolazione e perché si è esaurita la spinta causata dalle grandi innovazioni tecnologiche.
Le aziende potrebbero decidere di lanciare
nuovi progetti, in modo da riequilibrare i
risparmi e gli investimenti, solo se i tassi
d’interesse scendessero molto al di sotto
dello zero. Dal momento che questo è impossibile, i risparmi restano inutilizzati e
quindi l’economia ristagna.
Negli ultimi anni, in efetti, gli investimenti nei paesi industrializzati sono calati.
Le imprese accumulano liquidità invece di
comprare nuovi macchinari. La Apple detiene quasi centocinquanta miliardi di dollari in riserve di liquidità, e perino in Germania, dove l’economia è relativamente
lorida, la quota di investimenti che ha contribuito al pil è scesa dal 30 per cento circa
del 1980 all’attuale 17 per cento. A cinque
anni dall’inizio della crisi, inoltre, in quasi
tutti i paesi la crescita è nettamente sotto i
livelli precedenti al 2008.
Secondo i profeti della stagnazione, gli
eccessi dei mercati inanziari non sono un  efetto collaterale ma, per citare il premio
Nobel per l’economia Paul Krugman, il tentativo disperato di continuare anche in un
contesto del genere a raggiungere “qualcosa di simile alla piena occupazione”. Quando si cade nella trappola della stagnazione
non valgono più le regole di una sana amministrazione economica e qualunque tipo di
spesa garantisce la creazione di posti di lavoro anche se, in base ai criteri economici
tradizionali, si tratta di uno spreco.
I moderni critici della crescita possono
contare su una lunga tradizione. Già nell’ottocento, studiosi come l’inglese Thomas
Malthus sostenevano che la limitatezza
delle risorse frena la crescita. Nel 1972, inoltre, il Club di Roma pubblicò un famoso
studio secondo cui le riserve di materie prime si sarebbero esaurite già prima del 2100.
John Maynard Keynes, inine, ipotizzava
che a un certo punto la crescita avrebbe cominciato  autonomamente  a  ridursi,  dal
momento che i bisogni materiali dell’umanità erano già ampiamente soddisfatti. Il
problema di queste previsioni è che inora
hanno sempre sottovalutato il progresso
tecnico, che permette alle aziende di produrre risparmiando risorse e fa nascere
nuovi bisogni tra i consumatori.
Summers, però, si discosta dai suoi predecessori su un punto importante: l’economista è convinto che la crisi della crescita si
possa quantomeno attenuare attraverso
delle misure politiche, ma a condizione che
si riesca a trasformare nuovamente i risparmi in investimenti. Le vie d’uscita da questa
situazione, però, sono tutte drastiche. Una
consisterebbe nell’abolizione del denaro
contante. In questo modo si dovrebbero depositare in banca almeno i risparmi necessari per soddisfare il fabbisogno quotidiano
(e i pagamenti dovrebbero avvenire attraverso la carta di credito), e le banche centrali potrebbero tranquillamente ridurre i tassi
d’interesse al di sotto dello zero. Così si risparmierebbe di meno e si investirebbe di
più. Si potrebbe pure immaginare che sia lo
stato a spendere il denaro in eccedenza, come propose negli anni cinquanta l’economista Paul Samuelson, un allievo di Hansen. La sua idea era la seguente: anche se i  tempi normali è diicile che lo stato prenda
in prestito troppi soldi da investire, perché
poi ne resterebbero pochi per le imprese,
nei momenti di crisi le aziende non hanno
comunque intenzione di investire, perciò lo
stato potrebbe usare i capitali che altrimenti resterebbero immobilizzati nei conti bancari, e in questo modo sventerebbe il rischio
della stagnazione.
Samuelson era convinto che la società
avrebbe tratto proitto dagli investimenti
pubblici. E poiché, data l’oferta eccessiva
di risparmi, sarebbe sceso il costo del denaro, per lo stato sarebbe diventato conveniente indebitarsi a quello scopo. L’economista proponeva di spianare le montagne
in modo che i treni andassero più veloci.
Nella situazione attuale si potrebbe pensare, per esempio, al inanziamento di una
svolta energetica generalizzata per afrontare il cambiamento climatico.
Rilevanza politica
La tesi della stagnazione permanente giustiica quindi l’elaborazione di programmi
d’investimento inanziati con il debito pubblico, e in questo risiede la sua rilevanza
politica: a causa delle loro limitate risorse
inanziarie, infatti, molti paesi stanno ridimensionando gli investimenti. Il governo
tedesco sta perino cercando di limitare la
richiesta di crediti sia a livello europeo sia a
livello internazionale, sostenendo che la
crescita riprenderà solo se saranno attuate
delle riforme strutturali.
Secondo il punto di vista della Germania, in seguito allo scoppio della bolla immobiliare paesi come la Spagna non sono
economicamente produttivi come in passato: troppa manodopera formata per lavorare nel settore edile deve imparare un altro
mestiere e trovare un altro impiego. Ci vuole tempo perché questo succeda, e il compito sarebbe più facile se il mercato del lavoro
fosse lessibile. Non stupisce quindi che a
Berlino molti sospettino che la crisi sia solo
un nuovo stratagemma degli Stati Uniti per
costringere i tedeschi a spendere di più. Il
dibattito sulla stagnazione si soferma anche sul modo più corretto di analizzare la
crisi: Summers vorrebbe soprattutto rilanciare la domanda, mentre i suoi avversari
puntano alle riforme.
Nel Giappone degli anni novanta infuriava una dibattito simile, ma alla ine nessuna delle due posizioni ha dato risultati
degni di nota. Forse è questo il rischio peggiore per l’economia globale. u  f