sabato 30 novembre 2013

1027 - INCHIESTA - LA RIVINCIA TA DI MARX - BEST

Michael Schuman, Time, Stati Uniti
Foto di Mathias Braschler e Monika Fischer
Milioni di lavoratori sono stati licenziati o si sono
impoveriti a causa della crisi. Per il settimanale
statunitense Time è la conferma che le critiche di
Karl Marx al capitalismo erano giuste



T
utti  pensavano  che  Karl
Marx fosse morto e sepol-to. Dopo il crollo dell’Unio-ne  Sovietica  e  il  grande
balzo in avanti della Cina
verso il capitalismo, il co-munismo era diventato una specie di sfon-do  pittoresco,  buono  per  i  film  di  James
Bond o per gli slogan deliranti di Kim Jong-un. Il conlitto di classe, che secondo la dot-trina di Marx determina il corso della sto-ria, sembrava essersi dissolto di fronte al
benessere prodotto dal libero scambio e
dalla libera impresa. La forza onnipresente
della globalizzazione, capace di collegare
gli angoli più remoti del pianeta attraverso
lucrosi rapporti inanziari, esternalizzazio-ni e imprese senza conini, ofriva a chiun-que l’opportunità di diventare ricco: dai
guru della Silicon valley alle contadine ci-nesi. Negli ultimi vent’anni del novecento
l’Asia ha assistito a quello che forse è il più
grande fenomeno di superamento della po-vertà nella storia umana. Tutto questo è
stato possibile grazie agli strumenti capita-listici del commercio, dell’imprenditoriali-tà e degli investimenti esteri. Il capitalismo
sembrava aver mantenuto la promessa di
portare tutti a un livello più alto di ricchez-za e benessere.
O almeno così pensavamo. Con l’eco-nomia globale in crisi prolungata e i lavora-tori di tutto il mondo alle prese con la disoc-cupazione,  i  debiti  e  la  stagnazione  dei
redditi, la feroce critica di Marx sulla natu-ra intrinsecamente ingiusta e autodistrut-tiva del capitalismo non può più essere li-quidata facilmente. Marx teorizzò che il si-stema capitalistico avrebbe inevitabilmen-te impoverito le masse e concentrato tutta
la ricchezza nelle avide mani di pochi, pro-vocando crisi a catena e un’esasperazione
del conlitto tra i ricchi e la classe operaia.
“L’accumulazione di ricchezza all’uno dei
poli è dunque al tempo stesso accumulazio-ne di miseria, tormento di lavoro, schiavitù,
ignoranza, brutalizzazione e degradazione
mentale al polo opposto”, scriveva Marx.
Un dossier sempre più nutrito di prove
empiriche alimenta il sospetto che avesse
ragione. È tristemente facile imbattersi in
statistiche secondo cui i ricchi stanno di-ventando sempre più ricchi mentre la clas-se media e i poveri stanno a guardare. Se-condo  uno  studio  pubblicato  nel  2012
dall’Economic policy institute, nel 2011 il
reddito mediano annuo di un lavoratore
maschio a tempo pieno negli Stati Uniti era
di 48.202 dollari, meno che nel 1973. Tra il
1983 e il 2010 il 74 per cento dell’aumento
di ricchezza negli Stati Uniti è inito nelle
mani del 5 per cento più ricco della popola-zione, mentre i redditi della fascia più bas-sa,  che  comprende  il  60  per  cento  della
popolazione, sono diminuiti. Non c’è da
stupirsi, quindi, che qualcuno abbia rispol-verato il ilosofo tedesco. In Cina, il paese
marxista che ha voltato le spalle a Marx, Yu
Rongjun ha scritto un musical basato su Il
capitale, ispirandosi ai recenti avvenimenti
mondiali. “È evidente che la realtà coinci-de con le descrizioni fatte nel libro”, osser-va il commediografo.
Sempre più arrabbiati
Non che Marx le avesse azzeccate tutte. La
sua “dittatura del proletariato” non ha fun-zionato secondo i piani. Ma le conseguenze
di questa crescente disuguaglianza sono
esattamente quelle previste da Marx: la lot-ta di classe è tornata. I lavoratori di tutto il
mondo sono sempre più arrabbiati e pre-tendono la loro fetta dell’economia globale.
Dal congresso statunitense alle piazze di
Atene ino alle catene di montaggio in Ci-na, i fatti della politica e dell’economia so-no sempre più inluenzati dalle tensioni tra
capitale e lavoro. L’esito di questo scontro
inluenzerà la politica economica globale,
il futuro del welfare, la stabilità politica in
Cina e i governi, da Washington a Roma.
Cosa direbbe oggi Marx? “Più o meno ‘ve
l’avevo detto’”, aferma Richard Wolf, eco-nomista marxista della New school a New
York. “La disparità di reddito sta producen-do un livello di tensione che non avevo mai
visto in tutta la mia vita”.
Negli Stati Uniti le tensioni sociali sono  in aumento. C’è la percezione diffusa di
una società divisa tra il 99 per cento (la gen-te comune che fatica ad arrivare alla ine
del mese) e l’1 per cento (i super-ricchi che
diventano sempre più ricchi). In un son-daggio realizzato nel 2012 dal Pew research
center, due terzi degli interpellati (il 19 per
cento in più rispetto al 2009) hanno rispo-sto  che  negli  Stati  Uniti  c’è  un  conflitto
“forte” o “molto forte” tra ricchi e poveri.
L’inasprimento del conlitto ha domina-to la politica statunitense. Lo scontro tra i
partiti sul problema del deicit di bilancio è
stato, in larga misura, uno scontro di classe.
Ogni volta che il presidente Barack Obama
parla di aumentare le tasse ai più ricchi per
risanare il bilancio, i conservatori gridano
alla “guerra di classe” contro i ricchi. Ma
anche loro stanno facendo una lotta di clas-se. Il piano di risanamento iscale dell’am-ministrazione colpisce la classe media e i
poveri con i tagli ai servizi sociali.
Ci sono segnali che questo nuovo classi-smo stia spostando il dibattito sulla politica
economica statunitense. Nel centro del mi-rino c’è la teoria del trickle down, secondo
cui il successo dell’1 per cento porta dei be-neici anche al 99 per cento. Secondo David
Madland, direttore della commissione di
esperti Center for american progress, la
campagna per le presidenziali del 2012 ha
riportato all’attenzione la necessità di rico-struire la classe media secondo una nuova
scala di priorità politiche. “Il modo di pen-sare  l’economia  è  stato  stravolto”,  dice
Mad land. “Ma sembra che stia avvenendo
un cambiamento radicale”.
La campagna di Hollande
La ferocia di questa nuova lotta di classe è
ancora più evidente in Francia. Nel maggio
del 2012 il divario tra ricchi e poveri, accen-tuato dalla crisi, è apparso sempre più intol-lerabile ai cittadini, che hanno eletto presi-dente il socialista François Hollande, fa-moso per la frase “i ricchi non mi piaccio-no”. La chiave della sua vittoria in campa-gna elettorale è stata la promessa di au-mentare le tasse ai più ricchi per mantenere
il welfare. Per evitare i drastici tagli alla
spesa pubblica introdotti in altri paesi euro-pei, Hollande ha proposto di aumentare
l’aliquota massima dell’imposta sui redditi
addirittura al 75 per cento. La proposta è
stata bocciata dalla corte costituzionale,
ma il presidente sta cercando il sistema per
introdurre una misura equivalente. Ribal-tando una decisione particolarmente im-popolare del suo predecessore, Hollande
ha riportato l’età pensionabile a sessant’an-ni per alcune categorie di lavoratori. Molti
in Francia vorrebbero che si spingesse ad-dirittura  oltre.  “La  proposta  sulle  tasse
dev’essere il primo passo di una presa d’at-to da parte del governo che il capitalismo,
nella sua forma attuale, è diventato così ini-quo e malato che senza riforme profonde
rischia di implodere”, dice Charlotte Bou-langer, esperta che si occupa di ong.
Le mosse di Hollande hanno scatenato
la controfensiva dei capitalisti. “Il potere
politico nasce dalla canna del fucile”, dice-va Mao Zedong, ma in un mondo dove das
Kapital è sempre più mobile le armi della  lotta di classe sono cambiate. Piuttosto che
darla vinta a Hollande, molti ricchi francesi
si stanno spostando all’estero, portando
con sé preziosi posti di lavoro e investimen-ti. Jean-Émile Rosenblum, fondatore del
sito di ecommerce Pixmania, si è trasferito
negli Stati Uniti, dove spera di trovare un
clima più accogliente per gli imprenditori.
“Il conlitto di classe è una normale conse-guenza della crisi, ma la strumentalizzazio-ne politica che se n’è fatta è demagogica e
discriminatoria”, dice Rosenblum. “Invece
di aidarsi agli imprenditori per creare le
imprese e i posti di lavoro di cui abbiamo
bisogno, la Francia li caccia via”.
Il divario tra ricchi e poveri rischia di di-ventare esplosivo anche in Cina. Nei mer-cati emergenti lo scontro tra ricchi e poveri
sta diventando un motivo di preoccupazio-ne per la politica. Contrariamente a quanto
pensano molti statunitensi ed europei, la
Cina non è il paradiso dei lavoratori. La
“ciotola di ferro per il riso” – un’espressione
dell’epoca di Mao che indicava un posto di
lavoro per tutta la vita – è scomparsa insie-me al maoismo, e le riforme hanno lasciato
ai lavoratori pochi diritti. Anche se i salari
nelle città cinesi stanno crescendo in modo
signiicativo, il divario tra ricchi e poveri è
ancora molto ampio. Un altro sondaggio
del Pew center ha rivelato che quasi la metà
dei cinesi considera la distanza tra ricchi e
poveri un problema molto grave, mentre
l’80 per cento concorda con l’afermazione
che in Cina “i ricchi si arricchiscono e i po-veri stanno sempre peggio”.
Nelle città industriali cinesi il risenti-mento sta arrivando al punto di ebollizione.
“La gente pensa che facciamo la bella vita,
ma la realtà della fabbrica è molto diversa”,
dice Peng Ming, operaio nell’enclave indu-striale di Shenzhen, nel sud della Cina. Alle
prese con orari interminabili, costi sempre
più alti, manager indiferenti e frequenti
ritardi nei pagamenti, i lavoratori comin-ciano davvero a somigliare al proletariato.
“Il modo in cui i ricchi fanno i soldi è sfrut-tare i lavoratori”, dice Guan Guohau, un
altro operaio di Shenzhen. “Il comunismo
è la nostra speranza”. Se il governo non in-terverrà per migliorare le loro condizioni,
dicono gli operai, i lavoratori saranno sem-pre più motivati a prendere in mano la si-tuazione. “I lavoratori si organizzeranno”,
prevede Peng. “I lavoratori devono essere
uniti”.
Probabilmente sta già succedendo. Mi-surare il malcontento dei lavoratori in Cina
è diicile, ma secondo gli esperti è in au-mento. Una nuova generazione di operai
delle fabbriche – più informati dei genitori
grazie a internet – è diventata più esplicita
nel richiedere migliori condizioni salariali
e lavorative. Per il momento la risposta è
stata contraddittoria. Il governo ha alzato i
salari minimi per sostenere i redditi, ha ina-sprito le leggi sul lavoro per dare maggiori
tutele ai lavoratori. In alcuni casi ha conces-so il diritto di sciopero. Ma le iniziative di
mobilitazione da parte dei lavoratori sono
ancora fortemente scoraggiate, spesso con
la forza. Ecco perché il proletariato cinese
crede poco alla sua “dittatura”. “Il governo
pensa più alle aziende che a noi”, aferma
Guan. Se Xi Jinping non riformerà l’econo-mia ridistribuendo una parte dei frutti della
crescita alla gente comune, si rischia di ali-mentare il malcontento sociale.
È proprio quello che avrebbe previsto
Marx. Una volta che il proletariato avesse
preso coscienza dei suoi interessi di classe,
avrebbe rovesciato l’iniquo sistema capita-listico rimpiazzandolo con un nuovo para-diso  socialista.  I  comunisti  “dichiarano
apertamente che i loro ini possono essere
raggiunti solo con il rovesciamento violen-to di tutto l’ordinamento sociale inora esi-stente. I proletari non hanno da perdervi
che le loro catene”, scriveva Marx.
Sistemi da rivedere
In tutto il mondo l’insoferenza dei lavora-tori sta crescendo. Decine di migliaia di
persone sono scese in piazza in città come
Madrid e Atene, protestando contro la pau-rosa disoccupazione e contro le misure di
austerità che stanno ulteriormente peggio-rando la situazione. Per ora, però, la rivolu-zione marxista non si è ancora materializ-zata. I lavoratori avranno anche problemi
comuni, ma non si coalizzano tra di loro per
risolverli. Negli Stati Uniti, per esempio,
durante la crisi le iscrizioni al sindacato
hanno continuato a diminuire, mentre il
movimento Occupy Wall street ha esaurito
la sua spinta. Chi protesta, spiega Jacques
Rancière, esperto di marxismo dell’univer-sità di Parigi, non punta a scalzare il capita-lismo, come aveva previsto Marx, ma sem-plicemente a riformarlo. “Tra i manifestan-ti non si sente invocare il rovesciamento o
la distruzione dei sistemi socioeconomici
esistenti”, dice Rancière. “Oggi il conlitto
di classe chiede una revisione di questi si-stemi per far sì che diventino più praticabili
e sostenibili nel lungo termine attraverso
una ridistribuzione della ricchezza”.
Nonostante le rivendicazioni, le politi-che economiche attuali continuano ad ali-mentare le tensioni di classe. In Cina i ver-tici del partito hanno promesso di ridurre le
disparità di reddito, ma in pratica hanno
evitato di fare tutte quelle riforme (lotta al-la corruzione, liberalizzazione del settore
inanziario) che servirebbero a raggiungere
l’obiettivo. I governi europei, oppressi dai
debiti, hanno tagliato i programmi di wel-fare nonostante la disoccupazione in au-mento e la crescita stagnante. Nella mag-gior parte dei casi la soluzione scelta per
rimediare al capitalismo è stata introdurre
ancora più capitalismo. I creditori di Roma,
Madrid e Atene spingono per smantellare
le tutele dei lavoratori e per deregolamen-tare i mercati interni. Lo scrittore britanni-co Owen Jones, autore di Chavs: the demo-nization of the working class (Coatti: la de-monizzazione  della  classe  operaia)  l’ha
deinita “una guerra di classe dall’alto”.
Sono rimasti in pochi a contrastarla. Il
formarsi di un mercato del lavoro globale
ha spuntato le armi dei sindacati in tutto il
mondo industrializzato. La sinistra, trasci-nata a destra dall’ofensiva liberista di Mar-garet Thatcher e Ronald Reagan, non è riu-scita  a  trovare  un’alternativa  credibile.
“Praticamente tutti i partiti progressisti o
di sinistra, chi prima e chi dopo, hanno con-tribuito  all’ascesa  e  all’allargamento  dei
mercati inanziari e allo smantellamento
dei sistemi di welfare per dimostrare di es-sere capaci di fare le riforme”, osserva Ran-cière. “Direi che la possibilità che un partito
o un governo laburista o socialista, in qual-siasi paese del mondo, possa ripensare in
modo signiicativo – iguriamoci rivoluzio-nare  –  il  sistema  economico  esistente  è
molto esile”. Questo lascia aperta una pos-sibilità inquietante: che Marx abbia dia-gnosticato non solo le imperfezioni del ca-pitalismo, ma anche gli esiti di queste im-perfezioni. Se la politica non troverà il mo-do di concedere più opportunità a tutti, i
lavoratori  di  tutto  il  mondo  potrebbero
unirsi davvero. E Marx si prenderebbe la
sua rivincita. u fas



Il capitale si arricchisce
a spese del lavoro
The Economist, Regno Unito



La quota di reddito destinata
ai lavoratori è in calo da anni.
Colpa dell’automazione e
della globalizzazione



I
n un’enorme fabbrica di Shen-zhen, il cuore produttivo della Ci-na, 250mila lavoratori assembla-no dispositivi elettronici destinati
ai mercati occidentali. L’impianto è so-lo uno dei tanti gestiti dalla Foxconn,
un’azienda con più di 1,5 milioni di di-pendenti che sforna prodotti per la Ap-ple e altri marchi famosi. Negli Stati
Uniti la Foxconn incarna la minaccia
della manodopera straniera a basso co-sto. Ma in realtà gli operai cinesi e quel-li statunitensi si somigliano molto, per-ché hanno un problema in comune: la
crescita dei proitti degli ultimi decenni
non ha fatto aumentare i loro salari.
Dal 1980 la quota di reddito desti-nata ai lavoratori è diminuita costante-mente. Secondo l’Organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economi-ci (Ocse), la forza lavoro ha ricevuto so-lo il 62 per cento dei guadagni realizzati
negli anni duemila, contro il 66 per
cento dei primi anni novanta. Per de-cenni gli economisti hanno considerato
le quote di reddito divise tra la forza la-voro e il capitale come dei dati issi. Ma
a questo punto molti esperti si chiedo-no se la teoria sia ancora valida.
Una quota minore di reddito per i
lavoratori signiica che i proitti non si
traducono più in aumenti salariali. Al
contrario, ad aumentare è la quota in
mano ai possessori del capitale e ai la-voratori più ricchi: dagli anni novanta
la quota di reddito dall’1 per cento dei
lavoratori più ricchi è aumentata co-stantemente, in netto contrasto con la
diminuzione di ricchezza di tutti gli
operai. Negli Stati Uniti, per esempio,
dagli anni novanta alla metà dei due-mila, escludendo l’1 per cento dei lavo-ratori più ricchi, c’è stato un calo del 4,5
per cento. I lavoratori statunitensi attribu-iscono la responsabilità di questa tenden-za negativa alla manodopera a basso costo
dei paesi più poveri. In parte hanno ragio-ne, almeno stando alle ricerche di Michael
Elsby, dell’università di Edimburgo, Bart
Hobijn, della Federal reserve bank of San
Francisco, e Aysegul Sahin, della Federal
reserve bank of New York. Questi studiosi
hanno calcolato quanto sono esposti i di-versi settori dell’industria statunitense al-la concorrenza dei prodotti importati, e
poi hanno confrontato i dati con la dimi-nuzione della quota di reddito dei lavora-tori. Secondo loro, una maggiore dipen-denza dalle importazioni va di pari passo
con la diminuzione dei guadagni dei lavo-ratori.
Un milione di robot
Comunque, negli Stati Uniti e altrove, il
mercato non può farsi interamente carico
del malcontento dei lavoratori. Negli ulti-mi vent’anni i lavoratori dei paesi emer-genti, dalla Cina al Messico, hanno lottato
per ottenere più beneici dalla crescita de-gli ultimi vent’anni. Probabilmente il vero
colpevole è la tecnologia che, secondo le
stime dell’Ocse, sarebbe responsabile
all’80 per cento dell’abbassamento della
quota di reddito dei lavoratori. La Fox-conn, per esempio, vuole “assumere” un
milione di robot nelle sue fabbriche entro
l’anno prossimo.
Strumenti più economici e potenti
hanno permesso alle aziende di automa-tizzare molte mansioni. Una nuova ricerca
di Loukas Karabarbounis e Brent Neiman,
dell’università di Chicago, spiega che ne-gli ultimi 35 anni il costo dei beni d’investi-mento è precipitato di oltre il 25 per cento
rispetto a quello dei beni di consumo.
Questo calo ha incoraggiato le aziende a
sostituire la manodopera con i software,
avviando il declino della quota di reddito
dei lavoratori. La loro tesi è avvalorata da
altri studi. Elsby, Hobijn e Sahin notano
che negli anni ottanta e novanta, prima
dell’esponenziale aumento delle im-portazioni, la produttività della forza
lavoro statunitense è cresciuta più rapi-damente dei salari. Gli studi sulla cre-scente disuguaglianza tra i lavoratori
raccontano una storia simile. Negli ul-timi anni sono diminuite le mansioni
che richiedono competenze medie,
mentre sono aumentate sia quelle che
richiedono competenze molto specii-che sia quelle che non ne richiedono af-fatto. Una ricerca di David Autor, del
Massachusetts institute of technology,
David Dorn, del Centre for monetary
and inancial studies, e Gordon Han-son, dell’Università della California a
San Diego, mostra come negli anni no-vanta l’informatizzazione e l’automa-zione abbiano inciso sui lavori di livello
medio. Negli anni duemila, invece, il
grande arteice della disparità dei salari
è stato il mercato.
In alcuni casi il tributo pagato dai
salari al commercio e alla tecnologia è
stato aggravato dalle nuove leggi sul la-voro. Alla ine degli anni settanta, gra-zie alle rigide regolamentazioni sul
mercato del lavoro, gli operai europei
potevano contare su un’ottima quota di
reddito (in Spagna toccava il 75 per
cento e in Francia l’80 per cento).
All’inizio degli anni ottanta, quando in
Europa, anche a causa dell’alto tasso di
disoccupazione, esplose la liberalizza-zione del mercato del lavoro e della
produzione, la quota crollò. Poi ci han-no pensato le privatizzazioni a indebo-lire ulteriormente la ricchezza dei lavo-ratori.
Queste tendenze potrebbero spin-gere i governi ad adottare nuove forme
di protezione per i lavoratori, in modo
da sostenere la loro quota di reddito.
Nuove regole, però, potrebbero far cre-scere la disoccupazione o accelerare il
processo verso l’automazione. In futu-ro si dovrebbe tentare di rendere più
innocuo l’impatto del mercato, aumen-tando i salari nei paesi emergenti. Ma
forse anche questa soluzione, come nel
caso della Foxconn, potrebbe stimolare
il passaggio all’automazione. Il rapido
sviluppo tecnologico e l’aumento della
produttività pongono le basi per una
qualità della vita migliore. Ma se l’au-mento dei proitti non porterà beneici
anche ai lavoratori, diicilmente que-sta promessa sarà realizzata. u lp

Nessun commento:

Posta un commento