martedì 3 dicembre 2013

1028 - Vi presento la famiglia King Susan Dominus, The New York Times Magazine, Stati Uniti

A casa di Stephen King tutti
devono saper raccontare belle
storie. Perché la narrazione è
una questione di geni, sostiene 
il maestro del thriller



V
ivere nel Maine, dove Ste­
phen  King  ha  trascorso
gran parte dei suoi anni
da  adulto,  significa  abi­
tuarsi  a  lunghi  viaggi  in
auto attraverso la campa­
gna. King, che ha la mente sempre in movi­
mento, ama passare questo tempo ascol­
tando audiolibri. Negli anni ottanta, però,
non riusciva sempre a trovare le registrazio­
ni dei libri che voleva – o forse non si preoc­
cupava neanche troppo di cercarle. Aveva
tre igli: Naomi, Joe e Owen. Tutti e tre sa­
pevano leggere, no? A lui bastava premere il
tasto “registra”. E così, nel corso degli anni,
i suoi bambini gli hanno fatto una piccola
biblioteca di audiolibri.
Una piovosa mattina di luglio Stephen
King, sua moglie e i loro tre igli sono riuniti
nella guesthouse con vista sul lago dove al­
loggia Joe Hill – il iglio di 41 anni – poco di­
stante dalla residenza estiva della famiglia.
Seduti  al  tavolo  della  cucina,  parlano  di
quella che in casa King è considerata ordi­
naria amministrazione.
“Io  ti  ho  letto  quello  stupido  libro  di
Dean Koontz”, dice Owen King, 36 anni, il
più giovane dei tre.
“Attento a come parli!”, lo interrompe il
padre. Ma Owen prosegue: “Quello in cui il
cane è un genio e comunica con il padrone
indicando con il muso le lettere dello Scrab­
ble”.
“Ehi, a me è piaciuto quel libro”, ribatte
Joe.
“Io l’ho adorato”, conferma il padre.
“Ricordo di aver letto L’uomo che non sa-peva amare”, interviene Joe. “E ricordo an­
che di aver avuto la sensazione che fosse un
romanzo molto lungo”.
Tabitha King, la madre, salta sulla sedia:
“Ma  è  un  libro  sconcio!  Non  sapevo  che
vi avesse chiesto di leggerlo. Quanti anni
avevi?”.
“Non lo so”, risponde Joe, coprendo suo
padre. “Ero innocente quando ho comin­
ciato, e depravato quando ho inito”.
La moglie di Owen, Kelly Brafet, è se­
duta vicino al marito. Conosce già alcuni di
questi racconti: tra gli aneddoti entrati a far
parte del folclore familiare, c’è anche quello
in cui Naomi – che oggi ha 43 anni – ha dovu­
to leggere e registrare Raven, una cronaca
del massacro di Jonestown, quando aveva
solo 12 anni.
“È stato orribile”, commenta Naomi.
A quel punto Stephen interviene per giu­
stiicarsi. “Ma mi hai letto anche tutti quei
Wilbur Smith!”, dice rivolto alla iglia. “E
Anna Karenina”.
Per i piccoli King intrattenere i genitori è
stato per metà un lavoro e per metà una for­
ma di arricchimento. Quando era l’ora di
andare a dormire, toccava a loro raccontare
una  storia  ai  genitori,  e  non  il  contrario.
Quali che fossero i loro metodi o le loro in­
tenzioni, Stephen e Tabitha, con la comune
inclinazione per la scrittura e il loro approc­
cio educativo, hanno cresciuto un buon nu­
mero di scrittori di successo. Tabitha è una
scrittrice afermata, con otto libri pubblica­
ti. Due dei tre igli, Joe e Owen, sono ro­
manzieri (Naomi è una ministra di culto
della chiesa unitariana). Il romanzo di Joe
Nos4a2,  uscito  nell’aprile  del  2013,  è
un’eclettica mescolanza di horror e fantasy.
È il suo terzo best seller ed è stato apprezza­
to dalla critica. La seconda opera di narrati­
va di Owen, un romanzo umoristico intito­
lato Double feature, è uscita a marzo e ha
avuto buone recensioni. Com’era forse ine­
vitabile, Owen ha sposato una scrittrice,
Kelly Brafet, che a luglio ha pubblicato il
suo terzo romanzo, Save yourself. Stephen
ha pubblicato a ottobre l’atteso sequel di
Shining, intitolato Doctor Sleep.
Acrobati circensi, musicisti klezmer: so­
no questi gli artisti che tendiamo ad asso­
ciare a un’attività di famiglia, non gli scrit­
tori. Esistono, però, alcune eccezioni. Tra i
igli di scrittori di successo che hanno co­
raggiosamente seguito le orme dei genitori,
l’esempio più noto è forse Martin Amis (i­
glio di Kingsley), ma ci sono anche Rebecca
Miller (iglia di Arthur) e Ted Heller (iglio
di Joseph), che hanno pubblicato con meno  clamore, ma ottenendo buone recensioni.
Tuttavia per quantità di libri, impatto cultu-rale e numero di lettori, nessuna famiglia
raggiunge il livello dei King. Il paragone più
vicino potrebbero essere i Brontë, ma anche
loro non superano un misero totale di tre
scrittrici e un poeta dissoluto.
Nella casa dei King la lettura era una for-ma di evasione ma era anche un’attività di
gruppo. Non solo si leggeva davanti al regi-stratore, ma dopo cena genitori e igli face-vano a turno per leggere a voce alta Lo Hob-bit o Le cronache di Narnia. Anche la scrittu-ra è diventata un’attività da condividere.
Stephen e Tabitha non si ritiravano a scrive-re in capanni silenziosi o in uicio: scriveva-no in casa, al piano di sopra, mentre i ragaz-zi, al piano di sotto, si chiedevano quali pa-role stessero prendendo forma sulla carta e
inventavano elaborati giochi di ruolo.
Mentre si alzano per uscire in giardino a
fare una foto di gruppo, i King continuano a
chiacchierare di libri e cultura pop. Il cane
di Joe, McMurtry (dal nome dello scrittore
Larry  McMurtry)  è  sempre  presente.  Se
qualcuno  da  lontano  cogliesse  solo  dei
frammenti dei discorsi della famiglia senti-rebbe qualcosa del genere: “Neil Gaiman…
Spielberg… McMurtry! McMurtry!... Cro-nenberg… Matt Groening… McMurtry!”.
“Avete visto quella foto di John Irving a
torso nudo in cui salta fuori da una specie di
palude?”,  chiede  Owen.  “Sembrava  un
ninja”.
Poi il gruppo si riunisce e posa per la foto
di quella che potrebbe essere considerata la
prima famiglia di letterati statunitense.
“L’ultimo fotografo con cui ho fatto un
servizio  continuava  a  ripetere:  ‘Amami!
Amami!’”, racconta Stephen.
“Fa  molto Zoolander”,  commenta
Kelly.
Poi, il lampo del lash.
Kelly
Nel 1990, quando Kelly Brafet frequentava
il primo anno di liceo in Pennsylvania, i suoi
genitori le regalarono per Natale un abbo-namento al club del libro di Stephen King,
che prevedeva come omaggio uno schele-tro di gomma lungo una quindicina di cen-timetri. “Davvero raccapricciante”, ricorda
Brafet. Era proprio il regalo che voleva. Era
in  piena  fase  “collezionista  di  Stephen
King” ed era alla ricerca delle edizioni rile-gate dei romanzi meno noti dello scrittore.
Questa fase si è conclusa uicialmente di-ciassette anni dopo, quando Brafet ha spo-sato Owen, che aveva conosciuto a un corso
di scrittura alla Columbia university. Il gior-no in cui si sono conosciuti Brafet aveva in
mano un libro di John D. MacDonald, un
giallista che non era in programma nel cor-so ma era considerato un mito a casa dei
King. Brafet era la ragazza ideale: studen-tessa amante della lettura e della scrittura,
che stava bene con gli occhiali e aveva una
sana passione per la letteratura di consumo.
Owen era un idanzato accomodante e pre-muroso. I due si sono scambiati i relativi
manoscritti per essere sicuri di non detesta-re l’uno la scrittura dell’altro, dopodiché il
loro rapporto si è rapidamente evoluto.
Brafet, però, aveva paura di incontrare i
futuri suoceri, aveva paura perino della vo-ce di Stephen King sulla segreteria telefoni-ca di casa. “Mi ci sono voluti due anni prima
di riuscire ad aprire bocca davanti a Steve e
a Tabby”, confessa.
Il padre di Brafet è un pilota di eliambu-lanza e sua madre è una programmatrice di
computer che si è laureata da adulta. Brafet
ha lavorato per due estati in un magazzino
dove “staccavo adesivi da un pezzo di carta
e li appiccicavo su un altro”, un’anticipazio-ne del suo possibile futuro se non avesse
ottenuto una borsa di studio per il Sarah
Lawrence college. La sua prima visita alla    casa dei King, a Bangor, è stata faticosa: pie-na di stanze e di corridoi ininiti, sembrava
una versione reale dell’albergo di Shining. E 
poi c’era la famosa e inquietante recinzione
con i pipistrelli e le ragnatele in ferro battu-to. “La loro biblioteca sotterranea”, raccon-ta Brafet, “era più grande di quella del pae-se dove sono cresciuta. Era enorme”.
Nel 2004, mentre aspettavano di trasfe-rirsi a Brooklyn, Kelly e Owen hanno vissu-to per sei mesi nel Maine vicino ai genitori
di  lui,  incontrandoli  praticamente  tutti  i
giorni. Un po’ alla volta Brafet si è abituata.
Durante l’intervista siede tranquillamente
vicino a uno degli idoli della sua giovinezza,
che intanto è incollato all’iPad, tutto preso
dal video gioco Jetpack joyride.
Tra Kelly e Stephen c’è quel rapporto
disteso che può esserci tra due parenti ac-quisiti che hanno scoperto di apprezzare la
reciproca compagnia. La loro conversazio-ne non riguarda tanto il misterioso processo
della scrittura quanto piuttosto il prodotto
inito: il libro di qualcun altro o uno dei loro.
L’entusiasmo dei King per i romanzi di Braf-fet non è solo una forma di cortesia: Ste-phen e Tabitha fanno a gara di complimenti
ogni volta che qualcuno cita Save yourself.
“È come se David Cronenberg avesse
adattato un romanzo di S. E. Hinton per Da-vid Lynch”, dice Joe.
Non fa in tempo a inire la frase che il pa-dre interviene per descrivere meglio il tono
del libro: “È più come se James Cain”, un
altro dei giallisti adorati da Stephen, “aves-se adattato S. E. Hinton per David Lynch”.
Quello che non dicono, o forse non han-no neppure notato, è che il libro di Kelly è
una versione letteraria e aggiornata ai tem-pi di internet di Carrie: una storia di spietato
bullismo liceale che culmina in un’esplosio-ne di violenza.
Quando le chiedo un parere, Brafet ri-sponde che non ci aveva mai pensato. Car-rie non l’ha inluenzata più di “tante altre
storie horror ambientate al liceo che cova-no nel subconscio”. Scrivere un libro pieno
di suspense, di quelli che si leggono tutti
d’un iato, signiica correre il rischio di so-vrapporsi al lavoro di King: sono ben pochi
gli scenari drammatici che, in quarant’anni
di lavoro, lui non abbia esplorato con la sua
immaginazione.
In passato Brafet ci teneva a non far leg-gere ai suoceri neanche una pagina prima
di pubblicare, per evitare che qualcuno po-tesse insinuare che nei suoi libri c’era lo
zampino di Stephen. Ma per Save yourself è
stato diverso: quando ha temuto di essere
arrivata a un punto morto, ha chiesto aiuto
ai King. “Non ho avuto scelta”, dichiara.
“Avevo già rotto le scatole a tutti gli altri”.
Tabitha le ha dato indicazioni sulla struttu-ra. Stephen è intervenuto con alcune osser-vazioni sul linguaggio. Ma soprattutto en-trambi l’hanno incoraggiata a proseguire. E
sembra che Braffet non fosse particolar-mente intimorita dal loro giudizio. “Per me
la cosa più importante è che il mio lavoro
piaccia a Owen”, spiega.
Joe
Joe  e  Owen  King  andavano  abbastanza
d’accordo: due fratelli, con cinque anni di
diferenza tra loro, che si divertivano a gio-care con i pupazzetti di Star Wars e con gio-chi di ruolo come Dungeons & Dragons o il
meno noto Il richiamo di Cthulhu. Ma Joe
aveva un brutto vizio che infastidiva Owen.
“Avevo otto anni e ricordo che a un certo
punto, qualsiasi cosa stessimo facendo, Joe
si fermava perché doveva scrivere per due
ore”, racconta Owen. Sul più bello, quando
magari Owen stava per uccidere un mostro
immaginario,  suo  fratello  mollava  tutto:
“Devo prendermi due ore”.
Joe era un ragazzino di undici anni inna-morato del suo cappello alla Sherlock Hol-mes, quando ha cominciato a scrivere tutti
i giorni. Seguendo l’esempio, altrettanto
compulsivo, del padre, non faceva eccezio-ni neanche per i giorni di festa o le vacanze.
Al liceo era così preso dalle sue ambizioni
letterarie che già cercava il modo di uscire
dall’ombra del padre. Si era inventato lo
pseudonimo di Jay Stevenson (un gioco di
parole da “J., Stephen’s son”) e aveva co-minciato a chiedere ai genitori cosa biso-gnava fare per cambiare legalmente nome.
Ha frequentato il Vassar college e poi si
è trasferito nel New Hampshire, dove ha
cominciato a scrivere a tempo pieno, con lo
pseudonimo di Joe Hill. “Ero molto insicuro
e non volevo vendere il mio libro solo per-ché qualcuno aveva pensato di poterci fare
un sacco di soldi e poi, una volta pubblicato,
sentirmi  dire  che  faceva  schifo”,  spiega
Hill.
Ha irmato un contratto con un agente
newyorchese, al quale ha tenuto nascosta la
sua identità per otto anni (in quel periodo
non si sono mai incontrati di persona). Se
durante un reading un blogger notava una
strana somiglianza con Stephen King da
giovane, lui gli scriveva in privato chieden-dogli di cancellare il post. Ha lavorato per
anni a un romanzo che è stato respinto da
tutti. Sono passati altri anni. Il suo secondo
romanzo non è andato molto lontano. I ge-nitori l’hanno sostenuto inanziariamente,
visto che aveva moglie e due figli, senza
suggerirgli mai di cambiare strada (oggi lui
e la moglie sono divorziati).
Poi inalmente, nel 2007, a 35 anni, Hill
ha pubblicato La scatola a forma di cuore,
una storia di fantasmi che ha per protagoni-sta un attempato mito del rock: un romanzo
meno schematico di molti libri di suo padre,
e più visionario. Saldamente inquadrato in
un ambiente con il culto della celebrità, im-prevedibile nella forma e nella trama, il li-bro è diventato subito un best seller.
In alcuni periodi della sua vita Hill ha
pensato addirittura di assumere un attore
che lo sostituisse alle presentazioni, vista la
somiglianza con il padre da giovane. Ma nel
frattempo gli incontri erano andati avanti e
quando La scatola a forma di cuore è uscito
in libreria la sua vera identità era stata sve-lata. Il successo, alla ine, ha risolto il pro-blema: oggi Joe non teme di cimentarsi con
lo stesso genere in cui eccelle suo padre. “A
volte ho l’impressione che chi dice ‘non sa-rò mai come mio padre!’ sia meno indipen-dente di quanto creda”, osserva.
Il successo, però, ha signiicato per lui
un nuovo tipo di stress. “Le ansie sono au-mentate”,  dichiara  Hill.  Nel  periodo  più
critico, circa cinque anni fa, mentre scrive-va il suo secondo romanzo, La vendetta del
diavolo, Hill era in preda a un’angoscia che
sconinava nella paranoia. “Facevo cose ti-po arrivare in una stanza d’albergo e mette-re tutto a soqquadro per trovare videoca-mere nascoste. Una volta ho smontato per-ino la mia auto”. Ha sviluppato anche altre
compulsioni: non poteva smettere di scri-vere se una frase iniva con un numero di-spari di lettere. Oppure arrivava tardi a un
appuntamento perché dopo essere uscito
doveva tornare varie volte a casa per con-trollare di avere spento il forno.
Hill sospetta di avere ereditato queste
tendenze da suo padre, insieme all’osses-sione per la scrittura e alla passione per il
macabro. Stephen King ha paura del nume-ro 13, e non è una storiella inventata per ac-cattivarsi le simpatie della stampa: quando
nel 2009 gli hanno chiesto di donare tredi-cimila dollari per permettere ad alcuni sol-dati di tornare a casa in licenza, ha irmato
un assegno da 12.999 dollari. È ossessiona-to dai numeri. Ha escogitato un gioco ma-niacale che consiste nell’azzerare continua-mente il contachilometri dell’auto mentre   depenna una serie di numeri su un taccui-no. E poi “è terrorizzato dai corvi, un po’
meno dalle cornacchie”, racconta Joe. “Se-condo lui sono messaggeri di morte. In fa-miglia è mia madre quella con i piedi per
terra. La faccenda del forno l’ho presa da
lui ”.
L’ultimo libro di Hill, Nos4a2 (da pro-nunciare “Nos-fer-a-tu”) parla di un cattivo
immortale che rapisce i bambini e li porta a
Christmasland, un “paese del Natale” per-versamente allegro. Il libro è pieno di ele-menti inquietanti al limite del ripugnante:
allusioni  a  violenze  sessuali,  un  disabile
mentale depravato, disperati messaggeri di
sciagura. Meravigliarsi dell’abilità con cui
Hill riesce a turbare il lettore signiica chie-dersi in che modo il talento – e questo parti-colare talento – si tramandi di padre in i-glio.
King e Hill riescono a trasformare qual-siasi domanda sulle radici del loro macabro
immaginario in un’occasione per apparire
più sani e normali della media. In una re-cente intervista, King ha scherzato su come
i giornalisti iniscano inevitabilmente per
trasformarsi nel “dottor Freud e mettermi
sul lettino”. Poi ha confessato di aver avuto
un’infanzia felice. Anche Hill è d’accordo
sul fatto che si tratta di questioni inutili. “Mi
domando perché nessuno guardi un inge-gnere e si chieda: ‘Cosa gli sarà successo
durante l’infanzia per spingerlo a diventare
ingegnere?’”. Ma alla ine ha dovuto am-mettere che il suo caso autorizza a porsi la
domanda. Del resto, sembra che lui stesso
ci abbia rilettuto a lungo. “Mi è capitato
spesso di raccontare scenari paranoici nei
miei libri, il che signiica che ho una certa
pratica di paranoie nella mia vita rea le”, di-ce. “È un po’ la storia dell’uovo e della galli-na. Cosa è venuto prima? Scrivere storie
paranoiche è un modo per placare l’ansia?
O scriverle mi ha reso più vulnerabile?”.
Con una piccola dose di Paxil, Hill riesce
a tenere sotto controllo la paranoia, come
ha scritto sul suo Tumblr in un post intitola-to “Ho rimesso le rotelle a posto”. La sua
scrittura non ne sofre e lui si gode il succes-so. A diferenza di suo padre, aggiunge, “il
numero 13 non mi fa nessun efetto”.
Tabby
Nel 2003 Stephen King ha vinto la Medal
for distinguished contribution to american
letters ed è stato invitato a parlare ai Natio-nal book awards. King ha dedicato quasi
metà del discorso a sua moglie, ringrazian-dola per aver sempre creduto in lui e per
averlo incoraggiato a scrivere anche quan-do tiravano avanti in una roulotte con due
bambini, mentre lei lavorava in un fast food
e lui in una lavanderia. Sulle prime si po-trebbe pensare che Tabitha, detta Tabby,
sia quel tipo di moglie che si sacriica per
permettere al marito di realizzare i propri
sogni. Ma dopo averla incontrata ho pensa-to che se Tabitha ha incoraggiato King ad
andare avanti lo ha fatto perché aveva gli
strumenti per riconoscere uno scrittore di
razza.  Entrambi  avevano  frequentato  la
University of Maine. Nel 1969 King le diede
da leggere un racconto. “Ricordo di aver
pensato: ‘Questo ragazzo potrebbe pubbli-care anche subito!’”, dice Tabitha.
Su una delle magliette preferite di Tabby
c’è scritto: “Quando parlo dovresti prende-re appunti”, cosa che i suoi familiari fanno
spesso. “Inizialmente avevo scritto un ina-le molto cupo per Nos4a2, una scelta artisti-ca che ero pronto a difendere ino in fondo.
Ma poi l’ha letto mamma”, racconta Joe,
seduto al tavolo con la famiglia. “Mi ha det-to: ‘Sai, Joe, quel inale non funziona’. E io:
‘Ok, d’accordo’. Al telefono con mia madre
la  mia  integrità  di  artista  è  durata  circa
quindici secondi”.
Ma il meccanismo funziona nei due sen-si. “Mentre scrivevi Survivor ci siamo schie-rati tutti contro il tuo inale”, ricorda Ste-phen rivolgendosi a Tabby.
“Già. E con i cambiamenti il libro è di-ventato un best seller”, scherza Tabby con-  cludendo la frase con una pernacchia. Il li­
bro non ha avuto successo, anche se il Li­
brary Journal l’ha deinito “un avvincente
dramma  psicologico”,  un  libro  “che  non
può mancare nelle migliori raccolte di nar­
rativa”. Tabby, che è al lavoro sul suo nono
libro, si è sentita penalizzata dall’industria
editoriale, tanto che è stata lei a suggerire a
Joe di usare uno pseudonimo. “È diicile
far cambiare idea a chi pensa che io sia arri­
vata a pubblicare solo grazie al successo di
Steve”, spiega. Supposizione legittima, ma
infondata: la sua trilogia ambientata nel
Maine – Pearl, The book of Reuben e One on
one – è pura gioia letteraria (la scrittrice Jen­
nifer Weiner ha dichiarato che Pearl è uno
dei suoi libri preferiti). Può darsi che l’om­
bra del marito l’abbia intralciata o che abbia
incontrato gli stessi problemi che aliggono
tanti scrittori di media notorietà, autori di
generi diversi, dal comico al letterario. Il
fatto che i suoi libri siano poco conosciuti
addolora i igli, che considerano la sua in­
luenza letteraria forte quanto quella del
padre. “Spero di aver preso qualcosa da lei”,
commenta Owen. “Ha un forte senso del
contesto e del personaggio”.
Se in famiglia Tabby è considerata quasi
una santa, non è solo perché è rimasta al
ianco del marito quando era giovane e di­
sperato, ma perché ha minacciato di andar­
sene molti anni dopo, quando era famoso e
dipendente dall’alcol e dalla cocaina. Nel
1987 Tabby convocò una riunione di fami­
glia con i tre igli: Naomi, che aveva 17 anni,
Joe di 15 e Owen di 10. Fino a quel momento
Owen sapeva solo che suo padre “consu­
mava alcol in grandi quantità, ma avrei po­
tuto pensare che lo facessero anche gli altri
padri”. Tabby spiegò a tutti e tre che se il pa­
dre non avesse accettato di disintossicarsi,
lei gli avrebbe chiesto di andarsene. “Non
volevo mentire ai miei igli”, spiega. “Non
ho mai capito che senso abbia mentire visto
che serve solo a rimandare il momento in
cui ti rivelerai un bugiardo”. Mentre parla­
no di quella riunione, la conversazione si
spegne quasi. “È stato terribile”, commenta
Naomi. “Ci chiedevamo se avremmo anco­
ra avuto un padre”.
Ci  sono  voluti  due  anni,  ma  alla  fine
King si è disintossicato. Poi c’è stato un pe­
riodo di calma, ino al 1999, quando a King
è capitata una serie di eventi quasi tragici.
Mentre  passeggiava  lungo  una  strada  di
campagna vicino a casa è stato investito da
un furgone che lo ha scaraventato a cinque
metri di distanza e ha ridotto le ossa della
gamba sinistra “a una manciata di biglie in
un sacchetto”, come ha detto il medico. Af­
litto da dolori cronici nei lunghi mesi di
convalescenza, ha sviluppato (e poi sconit­
to) una dipendenza dagli antidoloriici. Si è
preso una polmonite ed è inito in ospedale
il giorno dopo il discorso ai National book
awards.  “Lo  pneumologo  non  sapeva  se
avrebbe superato la notte, ma lui ce l’ha fat­
ta”, racconta Tabby. “È stato molto dii­
cile”.
Mentre uno dei figli parla di un libro,
Stephen si gira verso la moglie e le prende la
mano.  Gliela  stringe  forte  ed  entrambi
chiudono gli occhi, chinati l’uno verso l’al­
tra, come in preghiera. Più tardi, quando gli
chiedo di quel momento, Stephen non ri­
corda più cosa lo avesse ispirato. “A volte le
prendo la mano e basta”, dice. “Siamo sem­
pre stati molto uniti, io e Tab. La amo”.
Naomi
Per uno strano scherzo del destino la prima
iglia dei King, Naomi, è nata con un deicit
cronico dell’ormone dell’adrenalina. Cre­
scendo  è  diventata  un’avida  lettrice,  ma
senza poter cogliere la forza dei libri del pa­
dre perché – come spiega lei stessa – non è in
grado di provare terrore. Quando era anco­
ra bambina, suo padre le chiese cosa le pia­
cesse. Lei gli rispose che amava i draghi e
suo padre scrisse Gli occhi del drago, un ro­
manzo fantastico con tanto di mago subdo­
lo e malvagio nel castello del re, e glielo de­
dicò.
Seduta al tavolo della cucina, Brafet ri­
corda che da piccola, molto prima di cono­
scere i King, guardava quella dedica e pen­
sava: “Wow, Naomi King deve avere una
vita fantastica!”. “Come no!”, ribatte Nao­
mi con lo stesso tono sarcastico usato spes­
so da sua madre.
I vantaggi di essere una King sono co­
munque tanti e la famiglia è molto unita.
Ma ci sono stati anche gli anni diicili della
dipendenza di Stephen, che Naomi ha vis­
suto con soferenza. E poi ci sono i pregiudi­
zi della gente su di lei in quanto iglia di suo
padre. “Tutti si aspettano che adori gli hor­
ror o che mi interessino i mostri”, spiega. “E
naturalmente m’interessano i mostri, m’in­
teressano le interpretazioni teologiche su
come facciamo amicizia con i nostri mostri.
Se creiamo mostri demonizzandoci a vi­
cenda, se facciamo cose mostruose – e tutti
ne siamo capaci – come possiamo, poi, non
diventare mostri a nostra volta?”.
Naomi parla come forse avrebbe potuto
parlare Stephen se, in qualche universo pa­
rallelo, si fosse iscritto a una scuola di teolo­
gia per diventare ministro di culto, come ha
fatto Naomi nel 1999. Era un territorio ine­
splorato in casa King. “Non riesco a imma­
ginare una casa più laica della nostra”, os­
serva Owen. Naomi, invece, sostiene che la
religione c’è sempre stata: la famiglia di Ta­
bitha era cattolica, Stephen è cresciuto in
una famiglia di cristiani devoti e da piccolo
vinceva premi alla scuola domenicale reci­
tando i versi della Bibbia a memoria. “Non
vedo come si possa crescere con una storia
del genere alle spalle senza subirne l’in­
luenza, anche nel linguaggio”, dice Naomi.
E poi, naturalmente, in casa c’è stato il con­
dizionamento  esercitato  dalla  presenza
degli Alcolisti anonimi, non propriamente
religioso, ma pur sempre spirituale.
Benché Naomi sia soddisfatta della sua
scelta, il resto della famiglia sembra ancora
chiedersi  perché  non  si  sia  dedicata  alla
narrativa. “Forse Naomi era più intimidita
dalla scrittura rispetto a voi due”, fa notare
Tabitha, riferendosi a Joe e Owen. “Ha pre­
ferito trovare la sua strada”.
“Ma tu sai che sei sempre stata brava”, le
dice Stephen, che poi aggiunge: “È sempre
stata brava. Scriveva fantasy da piccola, e
da adolescente. Tutta roba forte. Aveva solo
bisogno di maturare un po’”.
Naomi sospira. L’incoraggiamento è af­
fettuoso, ma fuori luogo: “Anch’io racconto
storie, anche se sono diverse. Cambia solo
il genere”. Ci sono le storie che racconta ai
lettori esercitando il suo ministero religioso
online. Ci sono le storie che crea con le sue
scimmie di pezza vestite da pirata, di cui
mette le foto su Flickr. “È un gioco, ma è an­
che coerente con il mio impegno religioso”,
spiega. “È un modo di vedere le cose diver­
so da quello che ci è stato insegnato”. Come
tutti gli altri componenti della famiglia, an­
che lei ha le sue storie a sostenerla.
Anche se ogni giorno Naomi scrive pre­
ghiere che pubblica su Facebook e sul suo
blog, le attuali condizioni di salute non le
permettono di esercitare pienamente il suo
ministero religioso. Oggi lavora al Pietree
orchard,  un’azienda  agricola  che  i  King
hanno comprato nel 2007 perché non di­
ventasse un complesso immobiliare.
Naomi ama il suo lavoro e, anche se leg­
ge molto, non ha mai coltivato la speranza
segreta di partorire un romanzo di seicento
pagine sugli zombi. Le piace raccontare una
vecchia storia chassidica che ha per prota­
gonista un anziano rabbino di nome Zusya.
Uno dopo l’altro i suoi studenti si rivolgono   a lui perché sono preoccupati di non essere
all’altezza  dei  grandi.  Perché,  gli  chiede
uno, non posso essere come Giacobbe? Per-ché, chiede un altro, non sono come Mosè?
Raccontando  la  fine,  Naomi  sorride.
“Quando morirò non mi chiederanno per-ché non sono stato come Mosè”, risponde
Zusya. “Mi chiederanno perché non sono
stato Zusya”.
È una bella storiella. E lei la racconta
bene.
Owen
Il primo romanzo di Owen, Double feature,
si apre con un ragazzo che si risveglia bru-scamente da un sogno: “Un’ombra cresce-va sempre di più, le sue enormi spalle inva-devano la cornice di luce bianca”. Il giova-ne  protagonista  è  in  preda  al  panico.  Il
cuore gli batteva “nelle dita delle mani e
dei piedi, dietro le orbite, sotto la lingua.
Aveva paura”. Poi l’ombra parla: è il padre
del ragazzo. Ha letto la sceneggiatura del
iglio e vuole parlarne con lui.
Quella pagina – con la sua allusione far-sesca all’“angoscia dell’autorità” e all’om-bra letteraria che i lettori avranno già iden-tiicato – è il massimo dell’horror a cui pos-sa arrivare Owen. Non è un patito del gene-re. A forza di vedere cadaveri infestati di
vermi e teste mozzate nei ilm tratti dai libri
di suo padre, a dieci anni era già diventato
“abbastanza impressionabile”. Double fea-ture ricorda più Nick Hornby che Stephen
King, e racconta la storia di un ambizioso
regista indipendente – iglio di un noto at-tore di B-movie – e del suo ilm che diventa
un classico di culto, ma per i motivi sba-gliati.
Qualsiasi somiglianza tra i personaggi
del libro e persone reali, vive o morte, è pu-ramente casuale – sostiene Owen – con la
sola eccezione di Orson Welles. Ma l’archi-tettura emotiva sembra ricalcare un mo-dello familiare conosciuto. “I dettagli sono
completamente  diversi”,  osserva  il  suo
amico Tim Bissell, critico letterario, “ma si
parla comunque di un’inluenza, e del sen-tirsene prigionieri. Secondo me il libro è un
modo per sfuggirle e Owen ce l’ha fatta”.
Tabby comprende il bisogno dei suoi
igli di trovare il loro spazio, ma crede an-che che la loro condizione sia tutt’altro che
insolita. “Tutti hanno dei genitori con cui
devono fare i conti”, dice. “I igli di un me-dico possono chiedersi perché il padre non
è mai a casa o se non sia troppo esigente.
Oppure puoi essere il iglio dell’ubriacone
del  paese  o  del  pastore  della  chiesa.  Sei
sempre  il  figlio  di  qualcuno  che  getta
un’ombra sulla tua vita, qualcuno da cui
devi distinguerti”.
Prima di scrivere il romanzo Owen si è
documentato guardando B-movie per an-ni, ed è famoso tra gli amici perché li ricor-da tutti e può citare a memoria anche i tito-li degli altri ilm interpretati dagli attori.
Una dote che condivide con il padre e il fra-tello. “I maschi della famiglia King non so-lo sembrano in grado di leggere, scrivere e
citare più velocemente di noi, ma anche di
guardare la televisione e di ascoltare la mu-sica più velocemente. Sidano la isica del
consumo”, commenta lo scrittore Joshua
Ferris, grande amico di Owen. Tra i due
fratelli, Joe è il “fan entusiasta”, quello che
indossa senza troppa ironia la sua magliet-ta preferita dello Squalo perché è uno dei
suoi quattro ilm preferiti. Sulla maglietta
preferita di Owen, invece, c’è una citazione
da una vecchia rivista femminile: “Jane: il
bello di essere donna”. La indossava anche
la prima volta che ha incontrato i genitori di
Kelly.
Come Joe, da bambino Owen si sedeva
spesso con suo padre a parlare di libri: ma-gari per smontare un racconto di Flannery
O’Connor e capire cosa lo facesse funzio-nare, o per trovare un modo per rendere
più eicace la sua scrittura. Gli piacevano
queste sedute, ma non perché avesse già in
mente di diventare uno scrittore. “Lo face-va con mio fratello, e non volevo sentirmi   escluso”, spiega. Un po’ per una questione
di carattere, un po’ per i temi che tratta,
Owen ha un rapporto con il padre meno
intenso e collaborativo rispetto a Joe, che
fa leggere le bozze a entrambi i genitori e
spesso li chiama per parlare di lavoro. “Ho
un rapporto più tradizionale con i miei ge­
nitori”, precisa Owen. “Voglio il loro amo­
re incondizionato, non il loro giudizio cri­
tico”.
In un’occasione pubblica, però, il giudi­
zio critico l’ha ricevuto lo stesso. Intervista­
to nel 2000, King ha parlato dei primi lavo­
ri  di  Owen  definendoli  con  disinvoltura
“storielle trendy per newyorchesi”. All’epo­
ca Owen non l’ha presa bene, ma oggi ha
un rapporto sereno con il padre, perino
protettivo.  “Sì,  non  è  stato  il  massimo”,
confessa. “Mio padre era molto dispiaciu­
to. Ma è successo tanto tempo fa e oggi per
i miei genitori è più facile capire quel che
faccio”. Suo padre si è scusato e Owen, che
in quel periodo studiava alla Columbia uni­
versity, ha continuato a scrivere. In due oc­
casioni i professori della Columbia hanno
stroncato i libri di suo padre davanti a lui.
Così Owen ha imparato che se davvero vo­
leva scrivere doveva cercare uno stile per­
sonale, senza preoccuparsi di quello che
pensavano gli altri. Quando Owen è stato
pubblicato, Stephen ha scritto entusiasta
sul suo sito un annuncio: se avete voglia di
scompisciarvi dalle risate, diceva nel suo
linguaggio tipico, “Double feature è la cura
che fa per voi. Ed è indolore”.
Owen non si preoccupa di vendere me­
no libri del padre e del fratello, che sono al
di sopra dei normali standard. “Credo che
per mio padre e mio fratello il successo sia
molto più importante che per me”, afer­
ma. “Voglio vendere abbastanza libri per
poter giustificare il fatto di continuare a
scrivere”. Essendo il più piccolo dei fratelli,
quello che è rimasto a casa invece di inire
in collegio, ha vissuto più da vicino la cele­
brità del padre: le macchine fotograiche
sempre pronte a scattare, gli estranei che li
avvicinavano  in  continuazione.  “Vorrei
avere successo, ma non così tanto da dover
rinunciare alla vita privata”, spiega. “Un
desiderio che limita un bel po’ la mia ambi­
zione”.
Suo fratello, al contrario, adora essere al
centro dell’attenzione. Di recente ha posa­
to per alcune foto in cui mima se stesso
mentre viene strangolato e pugnalato dai
fan, poi le ha postate su Twitter. Owen ha
ammirato l’idea del fratello, senza capire
cosa l’abbia spinto a farlo. “Non ho voglia
di farmi strozzare da un estraneo”, com­
menta, “neanche per inta”.
Stephen
Il 4 luglio la famiglia si riunisce al Pietree
orchard e mangia la pizza sulle panche da
picnic fuori dal negozio. Alcuni nipoti van­
no a raccogliere fragole nel campo. Più tardi
ci saranno i fuochi d’artiicio. Stephen King,
seduto su una delle panche, dice al nipote di
dieci anni: “Allora, se mi venisse un ictus
cosa dovrei fare? Dovrei farmi ricoverare in
una casa di cura? Sarebbe la cosa migliore?”.
Le sue domande sono pragmatiche e allo
stesso tempo macabre: una versione senile
di quello che la famiglia chiama “il gioco
della scrittura”, in cui ognuno ha a disposi­
zione cinque minuti per cercare di salvare
da un pericolo il protagonista di una storia,
per poi immaginare un nuovo pericolo da
afrontare e passare la sida a un altro. Ecco
il tipo di pericolo che angoscia King oggi:
malattia,  demenza,  perdere  l’uso  di  una
mente così straordinariamente attiva.
Qualche minuto dopo mi mostra un’im­
magine  sull’iPad.  Sfoglia  alcune  vecchie
foto – nipoti, alberi e, ops!, c’è anche Meg
Ryan – inché non si ferma su una foto in
bianco e nero: una donna sorridente seduta
sulle ginocchia di un capitano della marina
mercantile. “Questi erano i miei genitori”,
dice.  Suo  padre  abbandonò  la  famiglia
quando King, il più piccolo dei due igli, ave­
va due anni. A dieci anni Stephen trovò una
pila di vecchi romanzi pulp di suo padre. Il
suo primo incontro con l’horror: tra quei li­
bri c’era un Lovecraft con un mostro in co­
pertina che strisciava fuori da una tomba.
Forse perché era il iglio di suo padre o per­
ché era un iglio alla ricerca del padre, ne è
rimasto subito stregato. Dopo aver letto tut­
ti i libri della collezione, ha cominciato a
cercarne altri. Suo padre, gli raccontava la
madre, scriveva racconti, anche belli, ma
dopo un po’ aveva abbandonato la scrittura
benché i direttori di alcune riviste l’avessero
incoraggiato a continuare. Il sottotesto del­
la  storia  personale  di  King  sembrerebbe
quello  di  un  bambino  che  fa  di  tutto  per
compiacere un padre assente. Secondo lui,
invece, è tutta questione di geni. Il fatto che
anche i suoi igli siano diventati scrittori, e
che uno dei due scriva addirittura libri hor­
ror, per lui è del tutto normale. “Credo che
sia ereditario”, commenta. “A volte qualcu­
no mi chiede: ‘Perché scrivi cose così spa­
ventose?’.  Di  solito  rispondo:  ‘Cosa  ti  fa
credere che io possa scegliere?’”.
Dopo l’ultima foto di gruppo i compo­
nenti della famiglia si separano. “Davvero
pensi che il libro di Neil Gaiman sia ‘un ca­
polavoro impareggiabile’?”, chiede Owen a
Joe,  riferendosi  a  un  post  del  blog  di  Joe
sull’ultimo romanzo di Gaiman. “Quando
scrivi su Twitter, ti piace qualsiasi cosa…
Come fa a piacerti sempre tutto?”.
Joe scrolla le spalle: “Sono un tipo posi­
tivo, io”.
Joe propone di passare la serata giocan­
do a un vecchio gioco da tavola, Ex Libris. In
questo gioco ogni concorrente deve scrive­
re la prima riga di un romanzo già esistente
scelto a caso: vince chi scrive quella più con­
vincente.  Qualcuno  chiede:  quanti  anni
avrà questo gioco?
“Esiste da quando esistono le storie e chi
le racconta”, proclama Stephen.
“Sì, ci giocavano anche i primissimi tro­
vatori irlandesi”, commenta Owen. A que­
sta  battuta  suo  padre  scoppia  a  ridere,  e
Owen prosegue: “Ci giocava anche un certo
Gilgamesh”.
Joe, che inora ha cercato di spostare il
discorso sulle regole del gioco, si unisce alla
conversazione: “Ci giocavano anche alla
biblioteca  di  Alessandria.  Mentre  bru­
ciava”.
Vanno  avanti  così  per  alcuni  minuti.
Nao mi cita un oscuro manoscritto antico in
cui si descrive la birra e Owen fa una battuta
sul pulp sumero.
“Nel vecchio west…”, comincia Joe.
Suo padre suggerisce di darci un taglio.
Ci giocheranno un’altra volta. Dopo pranzo
Owen e Kelly vanno a fare un giro al lago
con Joshua Ferris e la moglie, che sono pas­
sati a trovarli. Stephen e Tabby tornano a
casa. Joe rientra in cucina con il libro che si
è portato dietro tutto il giorno: le bozze del
romanzo horror di un altro scrittore.
Qualche giorno dopo, Joe e Stephen so­
no impegnati in un’altra delle loro tipiche
conversazioni. Tema: quale romanzo può
essere considerato il Moby Dick dell’horror?
Quello pieno di note a piè di pagina, forse…
No, quello no, quell’altro, Casa di foglie di
Mark Danielewski.
Joe si vanta del fatto che il più piccolo dei
suoi figli, dieci anni, scrive già cose sue.
“Sta lavorando a due racconti: uno s’intitola
Scarti, l’altro La cosa cattiva”.
Stephen s’illumina: La cosa cattiva gli
piace. “Mi dispiace”, dice, come un bambi­
no che ha appena trovato per terra una mo­
netina. “Forse dovrò usarlo”.
Joe è comprensivo. “Lo so”, risponde.
“Pensavo di usarlo anch’io”. u dic

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