sabato 26 aprile 2014

986 - Separati dalla crisi Sebastian Gjerding, Information, Danimarca Foto di Davide Monteleone

Avevano trovato l’amore e una nuova patria ad
Atene. Poi è arrivata la recessione. E molte donne
danesi sposate con uomini greci sono tornate a
casa. Il conlitto tra il nord e il sud dell’Europa
raccontato da chi lo vive in prima persona



A
d Atene c’è un gruppo di
donne danesi che, una
sera al mese, s’incontra­
no  per  chiacchierare,
scambiarsi impressioni
o  consigli.  In  comune
hanno una cosa: un marito o un compagno
greco. Molte di loro sono inite in Grecia
per la stessa ragione. Una vacanza estiva su
un’isola che ha segnato l’inizio della più
classica delle storie d’amore: la bionda ra­
gazza danese che s’innamora del romanti­
co ragazzo dell’Europa del sud. C’è chi è
rimasta in Grecia per qualche anno prima
di tornare a casa in Danimarca e chi ha
viaggiato avanti e indietro prima di fermar­
si stabilmente ad Atene. Per anni queste
donne si sono viste periodicamente e in
gruppo:  prima  parlavano  soprattutto
dell’incontro di culture, delle loro famiglie
acquisite, dei bambini e del sistema scola­
stico. Ora discutono quasi solo della crisi
economica che ha trasformato la vita nel
paese. E di chi sarà la prossima a smettere
di lottare e a decidere di tornare dalla fami­
glia, in Danimarca.
“All’inizio pensavo che non sarebbe sta­
to poi così terribile. Che i problemi sareb ­
bero toccati agli altri. Non riesci a capire
una crisi inché non l’hai provata di perso­
na”, dice Mathilde Siert. È alle ultime setti­
mane di gravidanza e se ne sta seduta su un
divano bianco nella sua casa nella zona
nord di Atene. Accanto a lei ci sono altre
due donne del gruppo, mentre suo iglio
guarda la tv dei ragazzi danese al computer
e suo marito, Dimitris Plakas, è in cucina a
preparare il cafè. “Abbiamo cominciato a
preoccuparci quando Dimitris è stato licen­
ziato”, racconta Mathilde. “È stato terribi­
le. Io ero in congedo per maternità e lui mi
ha chiamato per dirmi che tornava a casa.
Gli ho chiesto se non stava bene. Mi ha ri­
sposto che gli avevano appena detto di rac­
cogliere le sue cose e andare a casa”.
Il marito di Mathilde è stato il primo del
gruppo di amici a essere licenziato. Ma do­
po di lui in tutte le altre coppie è capitato
che uno dei due sia rimasto senza lavoro.
La disoccupazione in Grecia ha superato il
25 per cento, e molti hanno subìto riduzioni
di stipendio ino al 50 per cento. All’oriz­
zonte  non  ci  sono  segnali  di  migliora­
mento.
I soldi della suocera
“La penultima volta che ci siamo viste c’era
una delle ragazze del nostro gruppo che an­
cora non era stata toccata dalla crisi. Per lei
tutto continuava a funzionare come sem­
pre. Poi, nell’incontro successivo, ci ha rac­
contato che suo marito era stato licenziato e che a lei avevano tagliato lo stipendio.
Adesso, con due ragazzi di 12 e 14 anni, abitano con i suoceri. Non c’è nessuno a cui
chiedere aiuto. E non ci sono speranze per
il futuro”, spiega Helle Olander Hansen,
sposata con un uomo greco incontrato in
vacanza quasi trent’anni fa. “La classica
storia d’amore”, commenta lei. Le amiche
sorridono. Suo marito è proprietario di diversi ristoranti, ma negli ultimi mesi non
ha potuto pagare lo stipendio ai dipendenti. Eppure loro continuano a presentarsi
ogni mattina al lavoro, perché restare a casa sarebbe un’alternativa ancora peggiore.
“È una situazione spaventosa. Ma questo è
un atteggiamento difuso: anche chi non
riceve lo stipendio va a lavorare lo stesso,
sperando per il meglio. Chi lascia l’impiego
non riesce comunque a trovarne un altro
né a guadagnare soldi altrove”, spiega Helle. Mathilde ha incontrato Dimitris Plakas
su un’isola greca quando frequentava il penultimo anno di liceo. Si è innamorata e ha
rinunciato a un soggiorno di studio già previsto a Parigi in cambio di un corso di greco
moderno ad Atene. Negli anni successivi
ha fatto la spola tra la Danimarca e la Grecia, inché nel 2004 si è trasferita stabilmente ad Atene. “Certo, era soprattutto
per Dimitris che mi piaceva stare qui, ma
anche per la cultura e la mentalità. I greci
sono molto più aperti, rilassati e prendono
le cose come vengono. Dimitris ha anche
una famiglia molto unita, dove ci si aiuta
sempre. A questo non ero abituata”, dice
Mathilde.
L’unità della famiglia è un tratto positivo del paese sul quale insistono tutte le
donne del gruppo. In tempi di crisi, quando
il conto in banca è a secco e il sussidio di
disoccupazione è terminato, sono i risparmi della suocera che aiutano a pagare le
bollette. E non sono soldi presi in prestito.
Sono un regalo. “La coesione della famiglia
è più forte qui che in Danimarca. Qui c’è la
famiglia, in Danimarca c’è il welfare, il che
signiica che se qualcuno si trova in diicoltà le persone che gli sono più vicine non
devono intervenire. In Grecia, invece, è la
presenza della famiglia a darti la sensazione che se cadi c’è qualcuno pronto ad aiutarti”, dice Berit Balzer.
Una famiglia forte è l’unica difesa dal
disfacimento dello stato. Certo, lo stato era
ineiciente già prima della crisi, però negli
ultimi tempi sono aumentate le cose che
non funzionano. Gli scioperi sono sempre
più frequenti e, con la busta paga praticamente dimezzata, molti dipendenti pubblici non hanno più una gran voglia di lavorare. Ma la corruzione era difusa anche prima che cominciassero i problemi economici: non era insolito, per esempio, pagare
sottobanco il medico di un ospedale per
farsi operare.
“Ognuno ha la sua piccola parte di responsabilità nella crisi: tutti, in un modo o
nell’altro, sono stati coinvolti nella corruzione. Ma la colpa per la maggior parte dei
soldi che sono andati perduti o sono stati
rubati è dei politici”, dice Dimitris, che nel
frattempo si è seduto sul divano. “Non era
diicile capire che le cose non andavano
così bene, ma siccome eravamo tutti dentro a un sistema corrotto, abbiamo trovato
un modo per fare ugualmente la bella vita,
senza preoccuparci troppo. Quando poi abbiamo dovuto afrontare i problemi, ormai
erano diventati troppo grandi per poterci
fare qualcosa”, continua.
Anche in Danimarca e nel resto d’Europa è difusa l’idea che i greci debbano incolpare solo se stessi dei loro problemi attuali.
“Sento dire da amiche e familiari in Danimarca che è tutta colpa dei greci”, dice Helle Olander Hansen. “È come se ci fosse una
specie di perida soddisfazione nell’osser-56 Internazionale 986 | 8 febbraio 2013
vare le disgrazie altrui, con l’idea che in
fondo i greci hanno avuto quello che si meritavano. In Danimarca la gente non ha capito quanto è dura la situazione qui. Non ne
posso parlare con i miei amici danesi. Non
mi prendono sul serio”, aggiunge Helle. Poi
spiega che anche le donne già tornate in
Danimarca si sentono dire le stesse cose.
“Le  banche  hanno  concesso  prestiti
troppo grandi. Gran parte della colpa è loro. Hanno oferto prestiti con bassissimi
tassi d’interesse, che però ora la gente non
riesce a ripagare. E per questo oggi falliscono. La Grecia è un paese europeo, ma ormai vive in condizioni indegne dell’Europa. Molti di noi hanno ancora qualche soldo
da parte con cui vivere. Ma quando i risparmi e i soldi prestati dalla famiglia iniscono,
allora la tragedia è spaventosa”, dice Helle
Olander Hansen.
Dalla città alla campagna
La crisi economica non produce solo tragedie personali, ma ha conseguenze anche
sul paesaggio urbano e sulla cultura. Nei
quartieri dove abitano le donne del gruppo,
la metà dei negozi è chiusa e i ristoranti sono vuoti. Neanche loro vanno più a mangiare fuori perché non se lo possono permettere. “In giro c’è un forte pessimismo,
una brutta atmosfera. Le persone sono arrabbiate e tristi. I greci sono sempre stati
allegri, gente che si gode la vita. Oggi non è
più così”, dice Mathilde Siert.
Negli ultimi quattro anni la società greca ha vissuto un declino inarrestabile, con
lo stato costretto a risparmiare miliardi su
miliardi. Gli stipendi sono stati tagliati, le
tasse sono aumentate e i soldi per il consumo privato sono initi. La siducia nello stato è difusissima e, ora che si è scoperta
l’inettitudine con cui il sistema politico ha
reagito alle cattive previsioni economiche,
la voglia di pagare le tasse – da sempre piuttosto bassa – è ulteriormente diminuita.
“Se paghi le tasse in Danimarca hai qualcosa in cambio. In Grecia non è così”, continua Mathilde Siert.
“I greci hanno un rapporto completamente diverso con lo stato”, aggiunge Helle Olander Hansen. “Dipende dalla loro
storia. La Grecia è una democrazia giovane, nata solo dopo la ine del regime dei
colonnelli, nel 1974. Non c’è stato un processo di costruzione dello stato né ci sono
state igure politiche di cui potersi idare.
La rabbia che si vede nelle manifestazioni
è indirizzata contro i politici corrotti. Quegli stessi che ci dicevano di stringere la cinghia e intanto portavano all’estero milioni
di euro. È per questo che i greci non hanno  nessun rispetto per lo stato”.
Nel frattempo al gruppo si sono aggiunte altre due donne. Sono arrivate in ritardo
perché avevano sbagliato strada. Il iglio di
Mathilde, Hector, le accoglie con entusiasmo. “Al lavoro il mio capo ha cominciato a
dire che vuole comprare delle mucche.
Adesso tutti vogliono fare i contadini, per
dar da mangiare alla famiglia”, racconta
Christina Bouras, che si è seduta con le altre sul divano.
Quando l’economia in Grecia funzionava, c’è stato un esodo dalle campagne verso le città. I greci si iscrivevano all’università e lasciavano il lavoro nei campi agli
immigrati albanesi. Ma ora che molti non
riescono più a pagare il cibo e l’aitto, il
lusso è opposto: chi ha fatto l’università
torna in campagna a coltivare la terra. “La
formazione universitaria non serve più a
nulla, e non è detto che in futuro possa tornare a essere utile. Chi ha studiato è fortunato se trova lavoro come cameriere a 400
euro al mese”, dice Helle.
È possibile che la prossima estate nasceranno nuove storie d’amore tra le ragazze del nord e gli uomini del sud Europa. Ma
per questo gruppo di donne, la cui storia è
cominciata molti anni fa, l’Europa del sud
rischia di diventare presto un capitolo chiuso. Molte sono già tornate a casa in Danimarca, mentre altre stanno valutando se
rimanere in Grecia. Intanto rimandano
tutto quello che si può rimandare e sperano
in tempi migliori.
“L’importante è non ammalarsi e che i
bambini siano abbastanza in gamba da cavarsela a scuola senza bisogno di lezioni
private”, spiega Christina Bouras.
“Abbiamo posticipato di un paio di mesi
le vaccinazioni dei bambini, che costano
comunque un po’ di euro. Prima erano spese che si facevano senza nemmeno pensarci”, dice Mathilde Siert.
“Sì, altrimenti si può buttarla sul ilosoico: ‘Ma sarà proprio vero che i vaccini fanno bene?’”, scherza Christina Bouras.
“Eh sì, ci si può sempre curare con le
erbe”, aggiunge un’altra.
Raforzare la coesione della famiglia,
non accettare più la corruzione, dedicarsi
al lavoro manuale invece di lasciarlo interamente agli immigrati, riutilizzare gli oggetti: sono alcune delle piccole cose che i
greci hanno cominciato a fare in reazione
alla crisi. E tutto questo – come sottolineano molte donne del gruppo – potrebbe essere un nuovo punto di partenza.
“Non era il caso di arrivare a tanto, ma
in efetti qualche conseguenza della crisi è
stata positiva. Forse una sberla ci voleva”,
dice Berit Balzer.
“Di sberle, però, non ne è arrivata una
sola...”, fa notare Christina Bouras.
“No. Basta così”, conclude Berit Balzer.
“Abbiamo capito”. u  fc

giovedì 24 aprile 2014

985 - La ricerca sull’inluenza si rimette in moto

Avevano manipolato un virus
dell’inluenza rendendolo più
letale. Dopo un anno di
sospensione, gli scienziati
hanno deciso di riprendere gli
esperimenti. Ecco perché



A
gennaio del 2012 molti ricercatori che studiavano l’inluenza
hanno appeso il camice al chiodo, o almeno hanno messo da
parte quei lavori che puntavano a rendere i
ceppi letali dell’aviaria ancora più letali,
permettendogli  di  trasmettersi  da  un
mammifero all’altro.
Un anno dopo hanno deciso di sospendere la moratoria che si erano imposti. In
una lettera pubblicata il 23 gennaio sulla rivista britannica Nature e su quella statunitense Science, gli autori di questi studi contestati  hanno  spiegato  che,  dopo  molte
consultazioni in tutto il mondo, sono arrivati alla conclusione che i beneici prodotti
dai loro sforzi superano i rischi.
La pausa volontaria, che in origine doveva durare due mesi, si era resa necessaria proprio perché quei rischi sembravano
concreti. L’H5N1, uno dei virus responsabili dell’inluenza aviaria, è pericoloso. Dei
seicento  casi  diagnosticati  negli  esseri
umani dal 2003 quasi il 60 per cento è stato
mortale. Il ceppo, quindi, è tre volte più letale della “spagnola” del 1918, che fece circa cento milioni di vittime.
L’aviaria non ha battuto quel terribile
record solo perché gli esseri umani possono contrarla unicamente dai volatili (in
genere dai polli): il virus deve ancora imparare a passare da una persona all’altra.
Il clamore che ha imposto la moratoria
si è scatenato dopo la difusione della notizia che Nature e Science stavano per pubblicare  una  ricerca  su  come  insegnare
all’H5N1 a trasmettersi tra i furetti (che,
per quanto riguarda l’inluenza, sono simili agli esseri umani). Tramite il National
scientiic advisory board for biosecurity, il
governo statunitense ha preso la decisione
straordinaria di invitare le due principali
riviste scientiiche mondiali a censurare gli
articoli, per evitare che inissero nelle mani sbagliate o incoraggiassero imprese simili in laboratori male equipaggiati per
gestire agenti infettivi così pericolosi.
Prevenire la natura
Ron Fouchier dell’Erasmus medical center
di  Rotterdam  e  Yoshihiro  Kawaoka
dell’università del Wisconsin a Madison,
coordinatori dei due studi tanto discussi e
coautori della lettera del 23 gennaio insieme a 38 colleghi, hanno sempre sostenuto
che i timori erano eccessivi. Le mutazioni
da loro create potrebbero benissimo evolversi in natura. Capirle, afermano, è cruciale per bloccare sul nascere un’eventuale
pandemia, studiando i ceppi naturali esistenti per trovare le varianti pericolose e
contribuendo a creare vaccini eicaci.
Molti colleghi e autorità sanitarie concordano, come anche i direttori di Nature,
che a maggio dell’anno scorso hanno pubblicato il lavoro del dottor Kawaoka. Quello del dottor Fouchier, il più discusso dei
due, è apparso su Science un mese dopo. A
luglio l’Organizzazione mondiale della sanità ha difuso le linee guida sulle misure di
controllo del rischio che ogni ricerca sulla
trasmissione del ceppo H5N1 deve rispettare, come la garanzia che sia compiuta
solo in laboratori estremamente sicuri approvati dal governo. Le autorità di vari paesi stanno anche riesaminando le condizioni in base a cui un lavoro simile possa
essere permesso nel loro territorio o quando inanziarlo con i loro fondi.
Fouchier e Kawaoka sottolineano che
gli scienziati dei paesi in cui il riesame è
ancora in corso, tra cui gli Stati Uniti, devono aspettare e che nessuno dovrebbe provare a svolgere questo tipo di ricerca “senza strutture adeguate, supervisione e le
necessarie approvazioni”. Gli altri devono
rimettersi al lavoro e raddoppiare gli sforzi
per arginare il bioterrorista più letale di
tutti: la natura.  

985 - Le metamorfosi di Cristina Gabriel Pasquini e Graciela Mochkofsky, Piauí, Brasile

Insieme al marito Néstor, la presidente dell’Argentina ha segnato dieci anni di
storia del paese. Da irst lady amata dalla gente e dai giornalisti, è diventata una
leader isolata che non rilascia interviste. E si comincia a parlare della successione


a  prima  volta  che  io  (Gabriel) ho incontrato Cristina
Fernández de Kirchner era
il 1997: era seria, professionale, un po’ tesa, parlava di
politica e indossava un tailleur. Aveva uno stile alla Hillary Clinton,
anche se si capiva che dietro c’era qualcosa
di più: lo strato pesante di trucco, i capelli
folti e vaporosi, il vestito un po’ troppo attillato. Ma eravamo in Argentina, dove questo
misto di formalità e sensualità non è una
cosa insolita. Si faceva chiamare con il suo
cognome da nubile, Fernández. Una volta
le ho chiesto del ruolo delle donne nella vita
politica argentina. La domanda l’ha infastidita: lei era un leader politico, il genere non
aveva importanza. Un giorno, durante un
incontro del gruppo parlamentare peronista, un senatore le ha detto: “Ascoltami,
bella”. “Non chiamarmi bella”, gli ha risposto lei. “Sono la senatrice Cristina Fernández de Kirchner”.
Peronista dalle idee progressiste, Cristina si è fatta conoscere come una voce critica
nel Partido justicialista, che all’epoca era
guidato  dal  presidente  Carlos  Menem
(1989-1999). Quando ha rotto con lo schieramento peronista al senato, ha commentato: “Questa non è una caserma e io non
sono la recluta Fernández”. I giornalisti la
vedevano di buon occhio. Era una buona
fonte, anche se le piaceva di più fare discorsi che dare informazioni concrete. Ma se le
chiedevi qualcosa che non era di suo gradimento, emergeva il suo lato nascosto. A me
(Graciela) è successo in un’occasione. Ha
risposto con freddezza e ha aggiunto, gelandomi con lo sguardo: “Come sta Gabriel
(mio marito)? Parlo sempre con lui. Digli di
venirmi a trovare”.
La stampa l’adorava. Sembrava isolata e
senza potere, ma non era così. Negli anni
novanta suo marito, Néstor Kirchner, era il
governatore di Santa Cruz, una provincia
nella fredda e ventosa Patagonia. Anche lui
a parole criticava Menem, ma era più pragmatico. Raggiunse un ottimo accordo con il
governo federale: in cambio del suo sostegno tratteneva una percentuale enorme
dell’imposta sulla benzina della provincia.
Néstor era popolare in quella zona, la meno
popolosa del paese, ma fuori da Santa Cruz
era uno sconosciuto.
Dopo Evita e Perón
Cristina proveniva da una famiglia della
classe media di La Plata, una città universitaria a un’ora da Buenos Aires. Néstor si era
trasferito lì per studiare. Quando s’incontrarono militavano nell’ala sinistra della
Juventud  peronista,  un  movimento  che
aveva dei legami con la guerriglia. All’inizio
dell’ultima dittatura militare (1976-1983) si
trasferirono a Santa Cruz, dove accumularono una fortuna con alcune operazioni
immobiliari. Possedevano molte proprietà
tra cui un elegante appartamento alla Recoleta, l’esclusivo quartiere della borghesia di
Buenos Aires, dove la deputata Cristina si
trasferì negli anni novanta, quando i suoi
doveri parlamentari la tenevano lontana
dal marito dal lunedì al venerdì. Si assicurava che ci fossero sempre dei iori freschi, del
buon cafè e dei cioccolatini. Tra il 1999 e il
2000 tutti e quattro potevamo incontrarci
nei ine settimana all’ormai scomparso caffè Opera, davanti a plaza Vicente López,
dove un’intera parete era dedicata a Jorge
Luis Borges, l’icona letteraria (e antiperonista) nazionale. Cristina e Néstor sembravano una coppia qualsiasi del quartiere. Lui
era brutto, sbilenco e portava delle giacche
troppo grandi. Se all’epoca avessero detto a
chi li incrociava per strada che quei due sarebbero  diventati  la  coppia  più  potente
d’Argentina dopo Evita e Perón, sarebbero
tutti scoppiati a ridere. Cristina? Forse. Ma
lui?
Poi arrivò la crisi del dicembre del 2001.
Lo stato dichiarò la bancarotta, congelò i
depositi bancari privati e svalutò il peso. Da
un giorno all’altro milioni di argentini della
classe media sprofondarono nella povertà.
Ci furono saccheggi e trentanove morti, e
cinque presidenti furono nominati e destituiti nel giro di dieci giorni. La folla manifestava per strada chiedendo le dimissioni in
blocco della classe politica. Le proteste liquidarono un’intera generazione di leader  ma non crearono alternative. Il Partido justicialista cercò qualcuno in terza linea e,
dopo alcuni tentativi, uscì il nome di Néstor
Kirchner. I dirigenti peronisti speravano
che Kirchner fermasse Menem, considerato dalla maggior parte degli argentini il responsabile della crisi. Ma nel gennaio del
2003, a tre mesi dalle elezioni, Kirchner
aveva una popolarità dell’8 per cento.
Doveva farsi conoscere e così emerse un
suo lato nascosto. In quei giorni io (Graciela) andai a Santa Cruz per fare alcune ricerche per un articolo su Néstor Kirchner e il
suo governo. Cristina mi accolse nella residenza del governatore a Río Gallegos, una
villetta dove vivevano dal 1991. Prendemmo un cafè in un grande salotto. Lei aveva
il suo solito strato pesante di trucco e indossava una giacca attillata con dei pantaloni
neri. Era sulla difensiva, quasi ostile. Sapeva che avevo parlato con i leader dell’opposizione locale e con gli avversari del governo di suo marito. Si riferì con sarcasmo a un
politico in particolare chiamandolo “il tuo
amico” (non lo era). Difese il marito. Le dissi che c’erano prove evidenti che Néstor
avesse preso delle misure autoritarie, simili
a quelle applicate in altre province più conservatrici: la manipolazione e il controllo
della giustizia, della stampa e dell’opposizione. Una “società cosmopolita come Santa Cruz”, mi disse Cristina, “non si può manipolare facilmente”.
Kirchner perse al primo turno per due
punti, ma al ballottaggio Menem si ritirò
dalla corsa. Così il candidato improbabile
diventò presidente e Cristina irst lady.
Cristina interpretò il suo ruolo ben oltre
le aspettative. Si fece fare delle extension ai
capelli, si fasciò in giacche ancora più attillate e in enormi cinture, montò su vertiginosi tacchi a spillo e sfoggiò una serie di
borse Louis Vuitton. A cinquant’anni era
ancora attraente e il suo stile diventò un argomento di discussione nazionale. Si parlava di chirurgie estetiche e di silicone. “I
cento vestiti di Cristina Kirchner”, titolò il
giornale Peril nell’aprile del 2008. “I segreti del glamour di Cristina Kirchner”, scrisse
La Nación nel settembre del 2007. Se come
parlamentare somigliava a Hillary, come
irst lady era più vicina a Carla Bruni. Qual
era la ragione di questa trasformazione? La
domanda assillava politici, giornal  tadini. Ma non era facile ottenere una risposta.
I Kirchner avevano deciso di governare
nell’isolamento. Come altri presidenti latinoamericani – Hugo Chávez in Venezuela,
Rafael Correa in Ecuador ed Evo Morales in
Bolivia – erano convinti che i leader democratici dovessero recuperare il potere ceduto ai grandi gruppi economici. E, come loro,
consideravano i mezzi d’informazione come i portavoce di potenti interessi economici, non come uno strumento di controllo
democratico del potere. Decisero così di
afrontarli o di evitarli del tutto. “Che inisca la dittatura dei mass media e iorisca la
primavera democratica”, ha detto Néstor
Kirchner nel 2010.
Un portavoce kirchnerista che ha chiesto di restare anonimo ha spiegato che ancora oggi, quasi dieci anni dopo l’arrivo dei
Kirchner al potere, nessuna persona vicina
al governo avrebbe risposto alle nostre domande per quest’articolo. “Il kirchnerismo
non parla con la stampa straniera”, ha detto.
Non importava che fossimo argentini o che
ci conoscessero, contava solo per chi scrivevamo. Per i reporter dei giornali argentini la
situazione non è migliore. Secondo Andrés
Alessandro, direttore del forum di giornalisti Fopea, dal 2003 al 2007 Néstor Kirchner
non ha tenuto nessuna conferenza stampa.
Dal 2007 a oggi Cristina Fernández ne ha
fatte cinque.
I Kirchner manifestarono il loro disprezzo anche nei confronti dei politici del loro
stesso partito. In parte era il loro stile, in
parte  un  gesto  per  compiacere  l’umore
dell’opinione pubblica: dopotutto, nei giorni della crisi, folle di argentini avevano cercato di linciare tutti i politici su cui potevano
mettere le mani. I Kirchner presero le distanze anche dai loro collaboratori: cancellarono le riunioni di governo e scoraggiarono il lavoro di squadra. Tutti gli uomini (e le
donne) del presidente dovevano riferire a
lui (o alla irst lady). Il dibattito si ridusse
alle discussioni tra marito e moglie. Solo
una persona era ammessa a queste discussioni: Alberto Fernández, capo di gabinetto
di Néstor Kirchner. “Sono sempre stati una
coppia, funzionavano così: prendevano le
decisioni tra di loro”, ci ha detto Fernández,
ormai fuori dal governo e critico nei confronti di Cristina Fernández. “A volte vinceva l’opinione di uno e a volte dell’altra”.
Secondo Alberto Fernández, la trasformazione di Cristina da Hillary a Carla è stata  una  conseguenza  della  divisione  dei
compiti nella coppia: lei ha smorzato il tono
politico del suo profilo pubblico per non
mettere in ombra il marito. “Cristina era
molto più famosa di Néstor quando lui è stato eletto presidente”, ha spiegato. “Così ha
fatto un passo indietro, ma non ha perso il
suo potere decisionale”. Però ha pagato un
prezzo per questo cambiamento. Mentre
Néstor era considerato lo stesso personaggio sbilenco che indossava vecchi mocassini e non aveva mai viaggiato all’estero, un
presidente che si descriveva come “un uomo comune in circostanze straordinarie”,
gli argentini reputavano sua moglie distante e frivola.
La presidenza di Néstor era un successo.
Secondo le cifre uiciali, il pil cresceva a un
ritmo del 9 per cento all’anno, e la povertà e
la disoccupazione diminuivano. Inoltre, per
la prima volta dal ritorno alla democrazia,
più di mille militari coinvolti nei terribili crimini commessi durante la dittatura furono
portati davanti alla giustizia.
Un brutto colpo
Alla ine del 2007, al termine del suo mandato, la popolarità di Néstor Kirchner era
alle stelle. Era il capo del peronismo e non
aveva rivali né dentro né fuori del partito.
Tutti credevano che si sarebbe ripresentato
per un secondo mandato. Invece lui annunciò la candidatura di Cristina.
“Fu una campagna elettorale atipica,
perché la situazione era atipica. Cristina
44 Internazionale 985 | 1 febbraio 2013
Fernández andò all’estero (a Berlino, Parigi
e Brasília), incontrò alcuni leader internazionali, ma parlò poco di politica interna”,
ricorda Fabián Perechodnik, dell’agenzia di
consulenza Poliarquía. Cristina non aveva
bisogno di fare campagna elettorale in Argentina. E in ogni caso non incontrò quasi
nessun giornalista.
Il 28 ottobre 2007 Cristina vinse al primo turno con il 45 per cento dei voti, ma
l’analisi dei risultati mise in luce una frattura sociale: la classe media urbana le aveva
voltato le spalle. Durante i primi cento giorno  del  suo  governo  Cristina  Fernández
mantenne quasi invariati i ministri e la politica del marito. Era considerata ancora la
irst lady, preoccupata più della sua immagine che delle sorti del paese. La stampa
pubblicava articoli sulla sua tranquilla routine, paragonandola all’iperattività del marito.
Quando la presidente annunciò la sua
prima  decisione  importante,  l’aumento
della tassa sulle esportazioni della soia,
scoppiò una rivolta. Decine di migliaia di
persone scesero in piazza, centinaia di camion bloccarono le strade federali e in tutto
il paese la gente organizzò picchetti per
chiedere a Cristina di “mettersi a lavorare”.
Come all’epoca di Evita e Perón, nacquero
due fazioni inconciliabili: a favore o contro
i Kirchner. In un paese dove tutti hanno
un’opinione su tutto, era impossibile parlare di politica senza scatenare una discussione agguerrita.
Le donne, in particolare quelle della
classe media e alta, detestavano tutto di
Cristina: il suo modo di parlare, di vestirsi e
di muoversi. “Non sopporto come tocca i
microfoni”, ci ha detto una donna. “Era il
periodo in cui la presidente parlava dalla
Casa rosada con un tono da maestrina irritante”, ricorda Perechodnik. “Perse venti
punti nei sondaggi in sei mesi. Gli argentini
vedevano una Cristina Kirchner diversa da
quella della campagna elettorale”.
Il governo era a rischio, ma i Kirchner
non volevano cedere. La loro unica concessione fu d’inviare la nuova tassa al congresso (all’inizio era stata concepita come un
semplice decreto presidenziale) per trasformarla in legge. Fu approvata alla camera
dei deputati, ma al senato inì con un pareggio. La decisione spettava a Julio Cobos, un
alleato non peronista scelto dai Kirchner
come secondo di Cristina. Quella mattina,
in uno dei tanti momenti teatrali che segnano la storia moderna dell’Argentina, Cobos
votò contro il suo stesso governo.
Per Néstor Kirchner era la ine. Infuriato, decise che Cristina doveva rinuncia alla presidenza: si sarebbe aperta una crisi
e, nel giro di un anno o due, tutto il paese
sarebbe tornato in ginocchio a chiedergli di
riprendere in mano il paese. Secondo un
testimone diretto che ha chiesto di restare
anonimo, in quell’occasione Cristina fu inlessibile: non si sarebbe dimessa.
Litigarono. Per la prima volta la coppia
(il governo) era divisa. In quelle ore fondamentali per il futuro dell’Argentina i presidenti del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva,
e del Venezuela, Hugo Chávez, si schierarono a favore di Cristina. Alla ine la spuntò
lei.
Ma il governo era stato colpito e la popolarità  della  presidente  era  diminuita.  Il
kirchnerismo perse le elezioni legislative
del 2009 e Néstor fu sconitto nel bastione
peronista della provincia di Buenos Aires
da un gruppo di peronisti dissidenti di destra. Cominciò il gioco della successione:
tutti credevano che l’era Kirchner fosse inita. I leader dell’opposizione facevano a gara
per proclamare la loro inimicizia nei confronti dei Kirchner e del loro governo.
Ma invece di farsi scoraggiare, i Kirchner rilanciarono. “Dopo le elezioni Néstor
disse: ‘Ci siamo sbagliati, la gente chiedeva
di più. Siamo stati troppo timidi’”, ricorda
un consulente presidenziale. “Lo guardavamo come se fosse diventato pazzo”. Ma
non lo era. Attraverso le loro scelte politiche, i Kirchner cominciarono ad attaccare
tutti quelli che percepivano come nemici.
Sconissero gli avversari introducendo dei
cambiamenti radicali. Proposero una nuova legge antitrust sui mezzi d’informazione,
che molti chiedevano da tempo e oggi sembra  destinata a  disgregare il  più  grande
gruppo editoriale del paese, il Clarín, oppositore dei Kirchner. E fecero approvare una
legge sul matrimonio gay che ha reso l’Argentina  uno  dei  paesi  più  tolleranti  del
mondo e ha avuto il beneicio secondario di
ridurre l’inluenza della chiesa cattolica,
contraria ai Kirchner.
Cristina subì una nuova trasformazione.
Diventò una leader più radicale, si faceva
vedere in compagnia delleabuelase delle
madresdi plaza de Mayo, ed era pronta ad
attaccare i suoi nemici. Dimostrò di essere
un’oratrice nata. A proposito del gruppo
Clarín, in uno dei momenti di scontro più
duro,  dichiarò:  “L’immenso  potere  del
Clarín su politici, giudici e perino gli imprenditori somiglia a un potere maioso”.
La sua strategia funzionò. “Dopo aver
perso le elezioni del 2009 il governo riprese
l’iniziativa e la gente si accorse che il governo aveva sempre qualcosa da dire”, ha spiegato Analía del Franco, una consulente politica vicina al governo. L’opposizione si divise in piccoli gruppi senza un leader chiaro.
Ma i Kirchner dovevano ancora conquistare
gli scontenti, gli insoddisfatti e quelli che
odiavano Cristina, cioè la maggioranza degli argentini. Nonostante i loro sforzi e dopo
essersi lasciati alle spalle i problemi economici del 2009, la popolarità della presidente era salita di poco: secondo Poliarquía, era
ancora meno del 40 per cento. Cominciò a
circolare la voce che Néstor si preparava a
succederle. Gli stessi Kirchner giocavano
con l’efetto suspense: sarà (chiedeva Néstor) pinguino o pinguina? I Kirchner si riferivano a loro stessi come “pinguini”, perché
venivano dalla Patagonia.
Néstor afrontava una sida enorme. Era
stanco, andava a qualsiasi evento pubblico,
partecipava a riunioni diverse passando da
una stanza all’altra. Era troppo per un solo
uomo. Poteva essere più astuto dei suoi rivali, ma non ingannare la sua fragile salute.
Il 27 ottobre 2010 è morto per un infarto improvviso nel suo letto di Calafate, a Santa
Cruz. La presidente era con lui.
Retorica mistica
Una Cristina devastata ha accompagnato il
feretro del marito alla Casa rosada, allestendo una camera ardente pubblica. Per
ventidue ore una folla in lutto (tra le cento e
le quattrocentomila persone) ha dato l’ultimo saluto a Néstor Kirchner e ha fatto le
condoglianze a Cristina. Lei è rimasta in
piedi accanto al feretro per dodici ore di seguito, vestita di nero e con gli occhiali da
sole, piangendo a tratti ma per la maggior
parte del tempo rimanendo composta, accogliendo allo stesso modo capi di stato e
cittadini comuni. In un momento di grande
emozione, un uomo è entrato intonando
l’Ave Mariacon un virtuosismo da cantante
d’opera e facendo con la mano il segno della
V, il simbolo peronista. Alla ine ha grid  “Hasta la victoria siempre, Néstor”, uno slo gan degli anni settanta. Commossa, Cristina l’ha abbracciato.
Così, da un momento all’altro, gli argentini hanno guardato di nuovo la presidente
con simpatia e solidarietà. La sua popolarità
è salita alle stelle.
Cristina Fernández è cambiata di nuovo. Era vedova, vestiva sempre di nero e
piangeva in pubblico. Parlava del suo defunto marito come di un martire che aveva
dato la sua vita per il paese. Ha cominciato
a riferirsi semplicemente a “lui”, senza mai
dire il suo nome (i giornali si sono abituati a
chiamarlo Él, lui, con la maiuscola). Gli ha
fatto costruire un grande mausoleo a Santa
Cruz. Il 10 dicembre 2011, quando ha assunto il suo secondo mandato, Cristina ha
recitato il giuramento di rito: “Io, Cristina
Fernández de Kirchner, giuro su Dio, la patria e i santi vangeli di svolgere con lealtà e
patriottismo la carica di presidente della
nazione. Se così non fosse, che Dio, la Patria
e”, ha aggiunto, “luime ne chiedano conto”.
La sua retorica è intrisa di tradizione peronista. “Ci prenderemo cura di Perón più
della nostra stessa vita”, aveva detto Evita
alla folla nel maggio del 1952, un mese prima di morire. Ma questa volta a morire è
stato il leader, così le invocazioni di Cristina
hanno assunto un tono mistico. Mentre si
rivolgeva al paese parlando alla tv pubblica,
la presidente chiamava in causa il suo spirito. Una volta, mentre stava parlando, una
inestra si è aperta di colpo alle sue spalle.
“Vento del sud”, ha detto girandosi verso la
inestra. “Dev’essere entrato lui”.
Non era solo una messa in scena. Cristina ha fatto appendere il ritratto del marito
in un corridoio del palazzo di governo. Un
pomeriggio del luglio del 2012, mentre stava andando a una riunione importante con
un gruppo di funzionari nervosi (secondo
un testimone, il ministro dell’economia non
osava alzare lo sguardo da terra), all’improvviso si è fermata davanti al ritratto. L’ha
toccato, si è portata le mani alle labbra e le
ha baciate tre volte, come un fedele davanti
all’immagine di un santo. Poi ha ricominciato a camminare.
Anche se il legame con la memoria del
marito ha spinto alcuni a mettere in dubbio
la sua salute mentale, Cristina ha trovato un
personaggio pubblico che inalmente il paese ha accettato. “Tra il 2007 e il 2010 il suo
legame emotivo con gli argentini era inesistente”, ricorda Del Franco. “Dopo la morte
di Néstor Kirchner la situazione è cambiata”. “Non ha dovuto neanche fare campagna elettorale”, spiega Perechodnik. “Il 23
ottobre 2011 è stata rieletta con il 54 per cento dei voti”. Oggi, nel momento di maggiore popolarità e senza nessun rivale all’orizzonte, Cristina deve afrontare due side
inevitabili. La prima è una situazione eco nomica che né lei né Néstor avevano mai
conosciuto nei dieci anni precedenti, segnata dall’aumento dell’inlazione (secondo stime d’imprese private il 25 per cento
nel 2012, perché le statistiche del governo
non sono considerate aidabili). La seconda sfida riguarda un limite istituzionale:
questo è il suo ultimo mandato.
La costituzione argentina stabilisce che
un presidente può governare solo per due
mandati consecutivi. Secondo la consuetudine politica nazionale, qualsiasi presidente
che comincia il secondo mandato è considerato un presidente senza potere. Gli statunitensi parlano di lame duck, anatra zoppa, per indicare un presidente alla ine del
suo mandato o un presidente di cui è già
stato  scelto  il  successore.  “La  teoria
dell’anatra zoppa è vissuta come un trauma
in Argentina, perché sentiamo che ogni
presidente ha il compito di rifondare il paese”, aferma Alberto Fernández, l’ex capo
di gabinetto. “Per fare politica bisogna dimostrare di sapersi fare carico di un’eredità
pesante, quella del governo precedente.
Questo obbliga un presidente a fare il possibile per mantenere il potere fino all’ultimo”.
Néstor e Cristina credevano di poter
evitare il problema alternandosi alla presidenza. Ma oggi la presidente affronta lo scenario che i due hanno
cercato di evitare con tutte le loro
forze. Non si sono mai fidati di
nessuno, neanche dei dirigenti
del loro stesso partito. Quando ha
giurato per il suo secondo mandato, Cristina si è fatta mettere la fascia presidenziale
dalla iglia. La tradizione vuole che lo faccia
il vicepresidente. Ma dopo il voto sulla tassa
sulle esportazioni della soia, Cobos è stato
bollato come “traditore”.
La presidente avrebbe già dovuto designare un successore, ma si riiuta di farlo.
“La successione è vacante”, sostiene Del
Franco, la consulente vicina al governo. Perechodnik non è d’accordo: “La scelta più
naturale cade su Daniel Scioli”.
Governatore della provincia di Buenos
Aires, la più popolosa del paese, Scioli è un
importante dirigente kirchnerista, ma anche un potenziale rivale di Cristina. Era un
pilota di motonautica abbastanza popolare
negli anni novanta che si è sposato con una
modella e ha perso il braccio destro, falciato
dall’elica della sua lancia in una gara. È entrato in politica con Carlos Menem. Néstor
lo nominò vicepresidente facendo una concessione al partito. Scioli era considerato un
politico  più  conservatore,  vicino
all’establish ment  sfidato  dai  Kirchner.
All’inizio Scioli tenne delle riunioni non autorizzate e rilasciò delle dichiarazioni che
irritarono il governo. Néstor Kirchner lo riprese in pubblico e in privato afermò: “Gli
toglierò tutto. Gli toglierei il cameriere che
gli serve il cafè, se non fosse per il povero
cameriere”.
Scioli cedette. Nel 2005 i Kirchner vollero che si presentasse a governatore della
provincia di Buenos Aires. Usarono la loro
popolarità  per  vincere  in  una  provincia
chiave e l’allontanarono dalla linea di successione. Scioli, da parte sua, ottenne il
controllo della regione più grande e importante del paese in termini elettorali e per la
guida del peronismo. Nonostante le diferenze, avevano bisogno l’uno degli altri.
Secondo Perechodnik, dal 2003 Scioli e i
Kirchner sono stati gli unici personaggi
pubblici abbastanza popolari da poter aspirare alla presidenza.
Una battaglia aperta
Nel luglio del 2012 Scioli ha annunciato di
essere pronto a prendere il posto di Cristina. Lei ha reagito tagliando i fondi federali
alla provincia e creandogli problemi per pagare gli stipendi pubblici. L’ha mantenuto
con l’acqua alla gola per giorni ino a quando lui ha ceduto. Poi ha sbloccato i fondi e,
invece di cercare un successore, è
cambiata di nuovo. Ha preso alcune misure radicali: ha nazionalizzato Yacimientos petrolíferos
iscales (Ypf, la compagnia petrolifera nazionale che era stata privatizzata da Menem nel 1998), ha ristretto
l’accesso dei cittadini alla valuta straniera,
ma soprattutto si è decisa a parlare. Moltissimo. “La sua presenza quasi costante sui
mezzi d’informazione per interagire con le
persone sta dando ottimi risultati”, ha detto
Del Franco.
La presidente ha preso l’abitudine di fare lunghi discorsi davanti ai ministri del suo
governo, agli imprenditori e ai suoi simpatizzanti. Li riunisce in un salone della Casa
rosada e gli parla dal podio con il tono di c  si rivolge a un gruppo di amici. “Tu mi hai
visto in camicia da notte”, ha detto a un giovane  dirigente  in  uno  di  quest’incontri.
“Guardate questo pelato”, si è messa a ridere in un’altra occasione, indicando la foto
del ministro spagnolo dell’economia sulla
prima pagina del País. Questi scambi colloquiali avvengono anche dal vivo e in diretta:
parla al paese dalla tv pubblica.
“Dal 2011 Cristina ha uno stile sempre
più personale”, aferma Perechodnik. “Sostiene che è la ‘sua’ eredità, ma ha messo da
parte le scelte politiche e i protagonisti degli
ultimi anni. Quello era il kirchnerismo. Poi
è cominciato il cristinismo”. Ha creato un
nuovo gruppo politico, La Cámpora, guidato formalmente dal iglio Máximo. I dirigenti principali della Cámpora occupano
vari posti chiave del governo e sono diventati i suoi portavoce. Ma nessuno ha lo spessore per essere eletto presidente. Nel cristinismo è nata l’idea di una riforma costituzionale per permettere alla presidente di
presentarsi per un terzo mandato.
Eugenio Zaffaroni è un giudice della
corte suprema di giustizia e un intellettuale
con una buona reputazione. È un sostenitore della riforma costituzionale, ma quando
gli abbiamo chiesto se avrebbe autorizzato
un terzo mandato presidenziale, ci ha traitto con lo sguardo: “L’Argentina ha già troppi
martiri. Volete uccidere la presidente? Non
si può chiedere uno sforzo simile a un essere umano”. Zafaroni vorrebbe introdurre il
sistema parlamentare all’europea. “Il presidenzialismo ha una natura perversa”, sostiene. “Chi vince per un voto si porta via
tutto e l’altro gli mette i bastoni tra le ruote.
Questa personalizzazione del potere ha un
retrogusto monarchico. Il parlamentarismo
non evita la crisi, ma almeno non entrerebbe in crisi il sistema stesso”.
Secondo Zafaroni, la rielezione è “infattibile”. Il 60 per cento degli argentini è
contrario a una riforma costituzionale che
introduca un terzo mandato, spiega Perechodnik. “Rielezione è una brutta parola in
Argentina”, conclude Zafaroni. Ma poi ammette: “Tutti si chiedono cosa succederà
nel 2015. La decisione dipende dalla presidente e io non so cos’abbia in mente”.
C’è un altro progetto interno al cristinismo che sembra ancora meno realizzabile.
Alcuni parlano della possibilità che Máximo succeda alla madre. Ma secondo i sondaggi, la maggior parte degli argentini non
lo conosce. Lo stesso vale per Alicia Kirchner, cognata di Cristina e ministra dello sviluppo sociale. “Il governo usa la riforma
costituzionale e Máximo perché ha bisogno
di creare delle aspettative e comprare il futuro”, aferma Perechodnik. Un altro consulente politico ha detto a titolo di “opinione personale” che né la riforma né la candidatura di Máximo andranno in porto. “Per
il 2015 bisogna pensare a un politico diverso, qualcuno con cui sia possibile stabilire
un accordo, una continuità di programmi e
di idee. Per esempio il governatore della
provincia del Chaco Jorge Capitanich”.
Capitanich è sempre stato un rappresentante leale del kirchnerismo e dei precedenti leader del Partido justicialista. Se il
peronismo accettasse la sua candidatura,
Scioli potrebbe decidere di sidarlo con un
suo partito.
Nel secondo semestre del 2013 ci saranno le elezioni legislative di metà mandato.
Poi si scatenerà la corsa per la successione,
e sarà una battaglia aperta. Per Cristina
questo può signiicare che la carriera politica condivisa con Néstor Kirchner durante la
maggior parte della sua vita si concluderà
tra due anni. Per sempre.
La  presidente  sta  per  compiere  sessant’anni e da quando il marito è morto ha
trovato una voce, una immagine e una po polarità che non aveva mai avuto prima. Le
hanno perino diagnosticato un tumore che
è risultato benigno. Ma forse questo è stato
l’ultimo favore che le ha reso Néstor.
Il giorno in cuilui  è morto, tra tutte le cose che Cristina ha perso e per cui ha pianto,
la più grande è stata forse il futuro.  u  fr
GLI AUTORI
Gabriel Pasquiniè un giornalista argentino
nato nel 1966. È fondatore e direttore della
rivista online El Puercoespín. Il suo ultimo
libro è Padres de la patria (Emecé 2012).
Graciela Mochkofsky è una giornalista
argentina nata nel 1969. È fondatrice del
Puercoespín. Ha scritto Pecado original.
Clarín, los Kirchner y la lucha por el poder
(Planeta 201

985 - Cosa c’è nelle banche In copertina Gli istituti di credito hanno ancora strutture opache e piene di attività ad alto rischio. Lo dimostra perino il bilancio della Wells Fargo, la banca statunitense più prudente e sicura Frank Partnoy e Jesse Eisinger, The Atlantic,

L
a crisi inanziaria ha molte
cause – eccesso di prestiti,
investimenti sconsiderati,
regolamentazione insufficiente – ma fondamentalmente il panico è stato scatenato  dalla  mancanza  di  trasparenza.
Nell’autunno del 2008, quando crollò la
Leh man Brothers, nessuno voleva più trattare con le banche perché non si capiva quale fosse il loro livello di rischio: con le informazioni disponibili era impossibile prevedere se una banca rischiava di fallire da un
momento all’altro.
Negli ultimi quattro anni i politici e i
banchieri statunitensi hanno fatto sforzi
enormi, in alcuni casi senza precedenti, per
salvare l’industria finanziaria, ripulire le
banche e rivedere la normativa allo scopo
di restituire credibilità al sistema. Ma non
ha  funzionato:  oggi  le  banche  sono  più
grandi e meno trasparenti che mai e continuano a comportarsi più o meno come facevano prima della crisi.
Prendiamo le clamorose perdite registrate l’anno scorso dalla JPMorgan, che per
gli investitori è una delle aziende statunitensi più sicure e gestite meglio. Il suo carismatico amministratore delegato, Jamie
Dimon, l’aveva tenuta in piedi durante la
crisi, e all’inizio del 2012 l’istituzione sembrava più stabile e in salute che mai. Le sue
attività di banca commerciale – cioè le tradizionali attività di deposito e di concessione dei prestiti – sembravano solide, sicure e
ampiamente in attivo. Ma nel maggio del
2012 la JPMorgan ha annunciato l’equivalente inanziario di un improvviso arresto
cardiaco: una sbalorditiva perdita valutata
inizialmente in due miliardi di dollari e in
seguito lievitata a sei (ma potrebbe aumentare ulteriormente, visto che si sta ancora
cercando di capire quali siano le reali condizioni dell’istituto).
La perdita è stata provocata da una divisione  poco  nota  della  banca,  il  chief  investment oice(Cio). Questa unità è sempre
stata considerata strategicamente poco interessante: la sua funzione è di ridurre i rischi dell’istituto e di gestire le sue riserve
liquide. Secondo la JPMorgan, la divisione
aveva investito prudentemente in prodotti
a basso rischio, come i titoli del debito pubblico statunitense. La banca ha dichiarato
che nel 95 per cento dei casi l’unità poteva
perdere al massimo 67 milioni di dollari in
un giorno (questo metro di misura statistico
largamente usato è chiamato “valore di rischio”). Quando gli analisti, a primavera,
avevano chiesto chiarimenti a Dimon sulle
voci secondo cui la perdita sarebbe stata
molto più sostanziosa, il manager aveva
sdrammatizzato deinendola “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Sei miliardi di
dollari non sono certo una somma che può
far fallire la JPMorgan, ma rappresentano
comunque una bella perdita. Man mano
che gli investitori cominciavano a rendersi
conto della situazione, in due mesi le azioni
della banca hanno perso un terzo del loro
valore. L’11 maggio 2012, il giorno dopo la
conferma delle perdite, sono scese del 9 per
cento.
Cifre false
Ovviamente non è solo una questione di
soldi. Il problema è che una banca considerata la migliore nella gestione del rischio
aveva smentito la sua fama. Mentre uscivano le notizie, si è scoperto che l’istituto aveva manipolato il metro di valutazione dei
rischi  senza  fornire  una  giustificazione
plausibile. Ammettendo la perdita, inoltre,
la JPMorgan ha dovuto riconoscere che le
cifre rese note ino a quel momento erano
false. Una buona fetta dei suoi proitti apparentemente sicuri era in realtà derivata da
speculazioni ad alto rischio e poco trasparenti.
Ma c’è di peggio. Le autorità statunitensi stanno cercando di scoprire se i suoi operatori abbiano mentito mentre la situazione
inanziaria del chief investment oicesi stava
deteriorando. Molti azionisti della JPMorgan hanno avviato delle azioni legali sostenendo che i rendiconti inanziari della banca sono stati ingannevoli. Lo stesso istituto
sta facendo causa a uno dei suoi ex operatori di borsa, considerato responsabile delle
perdite. Sembra che Dimon, un tempo uno
dei personaggi più rispettati di Wall street,
non abbia compreso la situazione del colosso inanziario e non abbia saputo gestirla
adeguatamente. Gli investitori non hanno
ancora capito se la banca sia davvero solida
come sembra e se possano idarsi delle altre
informazioni che rende pubbliche.
Negli ultimi mesi lo scandalo della JPMorgan non è stato l’unico a sollevare dubbi sulla sicurezza e l’aidabilità delle grandi
banche. Molti dei più importanti istituti inanziari sono accusati di aver manipolato il
London interbank ofered rate (Libor), il
principale tasso d’interesse usato come base per stabilire i tassi d’interesse di miliardi
di dollari di prestiti e altri prodotti inanziari. Nel giugno del 2012 la banca britannica
Barclays ha pagato una grossa multa per
evitare un’azione penale e civile avviata
dalle autorità statunitensi e britanniche. E
si dice che anche il colosso svizzero Ubs stia
per raggiungere un compromesso simile.
Altre grandi banche, tra cui la JPMorgan, la
Bank of America e la Deutsche Bank, sono
sotto inchiesta, anche se non è stata ancor  formalizzata nessuna accusa. Il Libor è il
tasso applicato dalle banche quando si prestano soldi tra loro e dà la misura della iducia che nutrono le une nelle altre. Ma ormai
è diventato sinonimo di manipolazione e
collusione. In altre parole, non ci si può idare neanche del criterio che dovrebbe dimostrare quanta iducia circola all’interno dello stesso sistema inanziario.
Le accuse di attività illegali e clandestine aumentano ogni giorno. Alcune grandi
banche internazionali sono state accusate
dalle autorità statunitensi di aver aiutato i
narcotraicanti messicani a riciclare il loro
denaro (Hsbc) o di aver fatto arrivare fondi
all’Iran (Standard Chartered). Le procure
hanno accusato alcune banche di aver falsiicato i dati sui mutui, irmando i documenti senza leggerli per accelerare le procedure,
e di aver pignorato indebitamente i beni dei
loro debitori. Solo dopo lo scoppio della crisi inanziaria l’opinione pubblica ha saputo
che le banche ingannavano regolarmente i
clienti, vendendogli titoli spazzatura e, in
alcuni casi, scommettendo addirittura contro di loro.
Messi tutti insieme, questi episodi hanno fatto ulteriormente scendere il livello di
iducia tra i clienti. Secondo la società di
sondaggi Gallup, negli anni settanta tre statunitensi  su  cinque  dicevano  di  fidarsi
“molto “ o “abbastanza” delle grandi banche. Nei decenni successivi la iducia è diminuita progressivamente, ma dopo la crisi
del 2008 è crollata del tutto. Nel giugno del
2012 meno di un intervistato su quattro ha
dichiarato di idarsi delle grandi banche, un
minimo  storico.  Lo  scorso  ottobre  Luis
Aguilar, un funzionario della Securities and
exchange commission (Sec), l’autorità di
controllo della borsa statunitense, ha citato
altri dati secondo i quali “il 79 per cento degli investitori non si ida del sistema inanziario”.
Quando abbiamo chiesto a Dane Holmes, il responsabile dei rapporti con gli investitori della Goldman Sachs, perché così
poche persone si idano delle grandi banche, la sua risposta è stata: “La gente non le
capisce”, perché “non c’è trasparenza” (in
seguito Holmes ha chiarito che stava pa  lando delle persone comuni, non degli in­
vestitori più esperti con i quali è quotidiana­
mente in contatto). Senza dubbio non sono
molti gli studenti, gli anziani o gli operai che
capiscono quello che fanno le grandi ban­
che. Le persone comuni non hanno più i­
ducia nelle istituzioni inanziarie, e questo
è già un grosso problema. Ma oggi ne è sor­
to uno ancora più grave, che minaccia anco­
ra di più la sicurezza del sistema inanziario
e coinvolge anche i grandi investitori con i
quali Holmes passa la maggior parte del suo
tempo: perino gli esperti si idano sempre
meno delle banche. A quattro anni dalla cri­
si, il prezzo delle azioni delle grandi banche
resta basso. Anche dopo il rialzo dello scor­
so autunno, molte sono ancora al di sotto
del loro “valore contabile”, il che signiica
che valgono meno di quanto risulta dai loro
bilanci. Questo indica chiaramente che gli
investitori non credono in quel valore di­
chiarato o non credono che in fu­
turo la banca possa essere molto
redditizia, oppure entrambe le
cose. Diversi operatori inanziari
ci hanno rivelato che considerano
le grandi banche come “scatole
nere” – cioè sistemi dal funzionamento in­
comprensibile – e non hanno nessun inte­
resse a investire nelle loro azioni. Un alto
dirigente di una delle istituzioni inanziarie
più importanti del paese ci ha raccontato
che sente dire regolarmente dagli investito­
ri che le banche sono uninvestable, un neo­
logismo di Wall street per indicare che sono
da evitare.
Questa crisi di iducia da parte degli in­
vestitori è pericolosa. È molto meno evi­
dente di un improvviso attacco di panico,
ma nel corso del tempo i danni si accumula­
no. Non è uno tsunami, ma una cancrena:
avanza lentamente, quasi inosservata, e
viene presto dimenticata. Prima o poi di­
venta una realtà ineludibile. Anche se l’eco­
nomia si riprende, la crisi di iducia toglie
forza alla ripresa. Le banche non attirano
capitali e perdono clienti. I loro manager
sono traumatizzati e stressati, e a causa del­
le conseguenze dei loro eccessi e degli erro­
ri precedenti, non concedono tutti i prestiti
che dovrebbero. Di conseguenza, l’econo­
mia arranca.
Con il diminuire della iducia, natural­
mente, aumenta la probabilità di un’altra
crisi. La prossima tempesta potrebbe far
crollare deinitivamente l’intero ediicio. I
grandi  investitori,  quelli  che  spostano  i
mercati e controllano grandi lussi di dena­
ro, scapperanno per paura che il tetto gli
cada sulla testa. Meno si idano, prima im­
boccheranno la strada del disinvestimento,
congelando il credito alle banche e indebo­
lendo ulteriormente la struttura. In questo
modo i timori si concretizzano e le diicoltà
che prima potevano essere afrontate di­
ventano insuperabili.
Alla base del problema c’è il sospetto
che le banche falsino i loro bilanci. Le do­
mande più semplici sono: come rendono
conto dei prestiti? Possiamo stimarne cor­
rettamente il valore? Altre sono più compli­
cate: quali rischi comportano gli strumenti
inanziari complessi come quelli che hanno
provocato le perdite della JPMorgan? Si pre­
sume che, negli Stati Uniti, le risposte si tro­
vino nei rapporti trimestrali e annuali che le
banche presentano alla Sec e che sono con­
trollati dal Financial accounting standards
board (Fasb), l’ente privato che su mandato
del governo controlla l’applicazione dei cri­
teri contabili. Don Young, che attualmente
gestisce un fondo d’investimenti, ne ha fat­
to parte dal 2005 al 2008. “Dopo
essere stato in quella commissio­
ne”, ci ha detto, “non mi ido più
dei bilanci delle banche”.
Da quando gli istituti finan­
ziari, e tutte le loro attività, sono
diventati più complessi, le norme sui bilan­
ci sono aumentate a dismisura. Ma non rie­
scono comunque a stare al passo con i cam­
biamenti del sistema. I banchieri più astuti,
con l’aiuto dei loro legali e dei contabili, rie­
scono a trovare il modo di aggirare l’intento
della legge pur rispettandone la lettera.
Inoltre, dato che sono diventate sempre più
dettagliate e astruse, e anche se non riesco­
no ancora a coprire tutti i casi possibili, que­
ste norme hanno avuto un efetto perverso:
grazie a esse le banche hanno evitato di da­
re agli investitori le informazioni necessarie
per giudicare il reale valore e i rischi del loro
portafoglio. Questo vale non solo per le
complesse questioni legate alle innovazioni
del settore, ma anche per questioni più ele­
mentari come quelle relative ai prestiti.
Quando Young era al Fasb, a un certo
punto alcuni componenti dell’organismo
volevano chiedere alle banche di trattare i
prestiti come se fossero titoli, registrandoli
al valore di mercato corrente, il cosiddetto
fair value(valore equo). Le banche li regi­
stravano con il valore iniziale e accantona­
vano una riserva in base alle probabilità che
fossero rimborsati. Le norme consentivano
anche di usare sistemi diversi per calcolare
il valore dello stesso tipo di prestiti, a secon­
da se intendevano tenerli a lungo o riven­
derli. Ma molti esperti di contabilità erano
convinti che le cifre riportate non fornissero
agli investitori un quadro preciso e attendi­
bile dello stato di salute della banca. Dopo
feroci discussioni e l’avvicendamento di
alcuni componenti del Fasb, il timore di in­
trodurre cambiamenti nel bel mezzo di una
crisi e l’aggressiva attività di lobby delle
banche  hanno  spinto  la  commissione  a
mantenere il metodo esistente. Secondo
Young , oggi le cifre presentate sono meno
attendibili. “La situazione è peggiorata”,
osserva. Quando abbiamo chiesto a un altro
ex  componente  della  commissione,  Ed
Trott, se riteneva attendibili i bilanci delle
banche,  ci  ha  risposto:  “Assolutamente
no”.
Confondere le acque
Le norme sulla contabilità dovrebbero aiu­
tare gli investitori a capire in che condizioni
sono le aziende di cui comprano le azioni.
Ma gli obblighi attuali non garantiscono la
trasparenza delle banche. Anzi, consento­
no agli istituti di confondere le acque. E
questa confusione rischia di favorire una
serie di comportamenti scorretti. Abbiamo
deciso di avventurarci nell’analisi dei rendi­
conti inanziari di una banca per vedere co­
sa rivelano e cosa non rivelano, e per capire
se è possibile valutarne i rischi. E abbiamo
scelto la Wells Fargo, un’istituzione inan­
ziaria  tradizionale  considerata  un  buon
esempio di gestione di una grande banca
moderna.
La Wells Fargo è generalmente ritenuta
la più cauta delle grandi banche statuniten­
si. Molti investitori, enti di vigilanza e anali­
sti sono ancora convinti che i suoi rendicon­
ti inanziari ofrano un quadro completo e
preciso della sua situazione. Attualmente il
valore delle azioni della Wells Fargo è il più
alto tra quelli di tutte le banche statunitensi:
all’inizio di dicembre del 2012 l’istituto va­
leva 173 miliardi di dollari. Oltre che alla sua
buona reputazione, l’entusiasmo per que­
sta istituzione è dovuto a un fatto apparen­
temente semplice: nel 2011 i suoi utili netti
sono stati di 16 miliardi di dollari, il 28 pe  cento in più rispetto al 2010. Per scoprire
cosa c’è dietro, bisogna leggere il suo rapporto annuale, ed è da lì che è cominciata la
nostra avventura. Il rapporto annuale è un
documento speciale in cui la banca espone
in dettaglio la sua situazione una volta avvenuta la revisione del bilancio. L’ultimo
rapporto della Wells Fargo, quello del 2011,
è di 236 pagine. Comincia come un libro rivolto a tutti con il vivace racconto di un anno di vita della banca: sulla prima pagina c’è
una storia commovente su un cliente, mentre quelle immediatamente successive sono piene di immagini di uomini in cappello
da cowboy, una coppia che si tiene per mano in riva all’oceano, un piatto di dolci e una
serie di pannelli solari. Con una scritta a caratteri cubitali la Wells Fargo ci informa che
nel 2011 ha donato 213,5 milioni di dollari a
organizzazioni non proit e, per essere sicura che ci rendiamo conto ino in fondo della
sua generosità, speciica: 4,1 milioni a settimana, che equivalgono a 585mila al giorno
o 24mila all’ora. Il tocco inale dell’introduzione è : “Non diamo per scontata la iducia.
Sappiamo che dobbiamo guadagnarcela
ogni giorno, parlando e trattando con i nostri clienti. Questo è il modo in cui cerchiamo di farlo”.
Fortunatamente per la Wells Fargo la
maggior parte delle persone non va oltre
l’introduzione. Nelle pagine che seguono i
volti soddisfatti dei clienti scompaiono. E
anche le storie. Il racconto è sostituito da
dettagli sui suoi afari che vanno dall’incomprensibile all’inquietante. La banca ci
ha detto che dedica “considerevoli risorse a
soddisfare le richieste dei vari enti di vigilanza”. Nonostante questo, le sue dichiarazioni non le garantirebbero la fiducia di
nessuno. Sono scritte in un linguaggio che,
alla ine, non dice niente. Il volume è pieno
di note a piè di pagina sempre più oscure,
l’equivalente della discesa di Dante all’inferno. Anzi, dopo la brillante introduzione,
nel rapporto dovrebbe comparire un avvertimento per chiunque voglia capire davvero
la situazione inanziaria della banca: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.
Il primo cerchio della versione dell’Infernodella Wells Fargo, come il limbo di
Dante, lascia solo intuire quello che seguirà, ma è comunque preoccupante. Uno degli scopi principali di un rapporto annuale è
informare gli investitori su come un’azienda guadagna i suoi soldi. A questo ine la
Wells Fargo divide i suoi introiti in due parti
precise: “Redditi da interesse” e “redditi
non da interesse”. A prima vista queste due
categorie sembrano corrispondere alle d  fonti di reddito tradizionali delle banche:
l’interesse sui prestiti e le spese addebitate
ai  clienti.  Ma  qui  comincia  la  discesa.
All’improvviso questo istituto di credito alla
portata di tutti mostra i primi segni di sdoppiamento della personalità. Viene fuori che
le sue attività speculative, quelle che di solito ci fanno pensare a banche di Wall street
come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, contribuiscono in modo signiicativo a
entrambe le sue categorie di reddito. Quasi
un miliardo e mezzo del suo “reddito da interesse” è derivato da “attività inanziarie
scambiate in borsa”, mentre altri 9,1 miliardi di dollari arrivano dai “titoli vendibili”.
Un miliardo di dollari dei “redditi non
da interesse” è costituito dai “guadagni netti sulle attività di  trading(lo scambio di titoli in borsa)”. Un altro miliardo e mezzo da
“investimenti azionari”. In tutto il rapporto
compaiono categorie astruse e onnicomprensive: “reddito da attività correlate”,
“altri interessi” o semplicemente “altro”.
Complessivamente, nel 2011 questo generico “altro” costituiva 6,6 miliardi di dollari
di utili per la Wells Fargo. Un lettore instancabile dovrà proseguire per altre 50 pagine
per scoprire che la banca ottiene una bella
fetta di quel reddito “altro” – ebbene sì –
dalle “attività inanziarie di trading”. In s  stanza, il volume di tradingdella Wells Fargo fa pensare che la banca non sia afatto
quello che sembra.
Alcuni analisti sostengono che queste
cifre relative allo scambio di titoli siano poca cosa rispetto agli introiti complessivi della banca (81 miliardi nel 2011) e ai suoi proitti (16 miliardi, sempre nel 2011). Altri osservatori non si prendono neanche la briga
di guardare questi dettagli, perché danno
per scontato che i suoi 148 miliardi di dollari di riserve di capitale la proteggano dai rischi. Una cifra simile, presupponendo che
sia rea le, può far apparire insignificante
qualsiasi perdita. Per esempio, sepolta in
fondo a pagina 164 del rapporto annuale c’è
questa dichiarazione: “Nel 2011 abbiamo
subìto una perdita di 377 milioni di dollari
con la compravendita di derivati collegati a
certe cdo”, cioè le collateralized debt obligation. Solo qualche anno fa una perdita a nove zeri dovuta a questo tipo di complessi
strumenti inanziari sarebbe inita sulle prime pagine dei giornali. Ma in questo caso
nessuno ne ha parlato, neanche i grandi investitori, gli analisti e gli esperti di inanza.
Forse non erano arrivati a pagina 164. O
forse, ormai, sono abituati a perdite ben più
sostanziose e questa non gli è sembrata importante.
Qualunque sia stato il motivo, la perdita
della Wells Fargo a causa dei derivati cdo è
stata come un albero da diverse centinaia di
milioni di dollari caduto senza rumore nella
foresta della inanza. Parafrasando una famosa battuta del senatore Everett Dirksen,
377 milioni qui e 377 milioni là, prima o poi
diventeranno cifre serie.
Scommesse complicate
Oggi le operazioni di borsa delle banche si
basano più che in passato su denaro preso in
prestito. Fanno anche leva sulla promessa
di pagare in futuro se le cose non andranno
come dicono loro. Queste promesse assumono la forma di derivati, strumenti inanziari che possono essere usati per proteggersi da vari rischi – come l’eventualità di un
aumento dei tassi d’interesse o l’ipotesi che
un’azienda non sia in grado di pagare i suoi
debiti – o semplicemente per scommettere
su quelle stesse possibilità, sperando di
guadagnarci.  Dato  che  molte  di  queste
scommesse sono ingenti e complicate, le
operazioni di borsa possono provocare perdite catastroiche.
Un altro aspetto interessante è l’attività
cosiddetta di  hedging(copertura), un’etichetta che può suonare rassicurante. La
Wells Fargo dice che nel 2011 ha perso una
cifra relativamente piccola come un milione di dollari in operazioni di hedging. Forse
non c’è di che preoccuparsi neanche in questo caso. Nella sua forma più pura l’hedging
dovrebbe ridurre i rischi: è come comprare
una casa e poi coprire il rischio d’incendio
sottoscrivendo una polizza assicurativa.
Nel mondo della inanza, però, la faccenda
è più complicata, tanto da dover ricorrere a
complesse operazioni matematiche e a modelli computerizzati, per poi tirare più o meno a indovinare. È diicile prevedere in che
modo un portafoglio di complessi strumenti inanziari reagirà a variabili come i tassi
d’interesse e all’altalena del prezzo delle
azioni. Di conseguenza le coperture non
funzionano sempre come dovrebbero. A
volte non riescono a tamponare del tutto i
grossi rischi che le banche pensavano di
aver provveduto a evitare. E inavvertitamente possono creare nuovi rischi imprevisti o, se volete, “cose che non si sapeva di
non sapere”. A causa di tutta questa complessità alcuni operatori di borsa mascherano certe operazioni di carattere speculativo
da “attività di copertura”. Sostengono che il
loro scopo è ridurre i rischi, mentre in realtà
aumentano il livello di rischio per guadagnare di più. Sembra che gli operatori del
chief investment oicedella JPMorgan abbiano fatto proprio questo. Le attività di copertura della Wells Fargo
erano una forma di assicurazione? O invece speculazioni come
quelle della JPMorgan? Le cifre
che compaiono nel rapporto possono far pensare che siano stati ridotti i rischi mentre in realtà è vero il contrario?
Dalle dichiarazioni della banca non si capisce.
Inine siamo arrivati a una terza etichetta, dietro la quale si nasconde decisamente
qualcosa. Sembra piuttosto innocua: “Servizi alla clientela”. Nel 2011 la Wells Fargo
ha guadagnato più di un miliardo di dollari
con i servizi alla clientela. Come ha fatto a
incassare così tanto assistendo i suoi clienti
nella compravendita di titoli? Non cercate
una spiegazione nel rapporto annuale. Questa è la deinizione che ne dà la banca: “I
servizi alla clientela consistono in una serie
di transazioni di titoli o derivati efettuate
per assistere i clienti nella gestione dei rischi sul mercato azionario e sono forniti in
base alle loro necessità d’investimento”.
Può sembrare rassicurante, ma il rapporto
non spiega perché questa attività dovrebbe
essere tanto remunerativa. In molte grandi
banche, in realtà, i servizi alla clientela sono
un eufemismo per indicare un “forte acquisto di derivati”. Per la Wells Fargo, alla ine
del 2011 la sottocategoria “servizi alla clientela, compravendita di titoli e altri derivati
liberi” comprendeva l’acquisto di derivati
per circa 2.800 miliardi di dollari di “valore
nominale”. Il che, in parole povere, signiica
che se dovessimo scommettere con voi su
quanto  varierà  quest’anno  il  prezzo  di
un’azione della Walmart da 70 dollari – se
aumenta paghiamo noi, se diminuisce pagate voi – diremmo che il “valore nominale”
della scommessa è 70 dollari.
Ovviamente la Wells Fargo non si aspetta di guadagnare o perdere 2.800 miliardi
di dollari sui suoi derivati più di quanto noi
non ci aspetteremmo di guadagnarne o perderne 70 scommettendo sulle azioni della
Walmart. Le banche di solito partono dal
presupposto che le probabilità di guadagno
o di perdita sui derivati siano molto più basse del loro “valore nominale”, e la Wells
Fargo dice che il concetto “in sé non è un
metro di misura signiicativo del proilo di
rischio degli strumenti”. Sostiene anche
che molti dei suoi derivati si compensano a
vicenda, come se da una parte scommettessimo che le azioni della Walmart saliranno
e dall’altra che scenderanno.
Ma come ha scoperto nel 2008 chi investiva in titoli bancari, se le cose vanno male
è possibile perdere una buona parte del
“valore nominale” di un derivato.
In futuro, se i tassi d’interesse dovessero salire alle stelle o l’euro
dovesse crollare, la Wells Fargo
potrebbe subire gravi perdite sui
derivati, come voi perdereste i 70
dollari che avete scommesso se la Walmart
fallisse. La Wells Fargo non dice agli investitori quanti di quei 2.800 miliardi di dollari potrebbe perdere nel peggiore dei casi e
non è tenuta a farlo. Perino l’investitore più
attento che legge le note a piè di pagina può
solo ipotizzare quale possa essere il livello
di rischio dei suoi derivati.
Uno dei motivi per cui la gente ha più iducia nella Wells Fargo che in altre grandi
banche è che il valore nominale dei suoi derivati è relativamente basso. Alla ine del
terzo trimestre del 2012 la JPMorgan aveva
72mila miliardi di valore nominale nei suoi
libri contabili, circa cinque volte l’intera
economia degli Stati Uniti. Ma anche ai livelli della Wells Fargo la cifra è così alta da
perdere signiicato e da mettere le sue rise  ve – 148 miliardi di dollari – in una luce completamente diversa.
Abbiamo chiesto ai suoi dirigenti se potevamo parlare con qualcuno delle sue note
informative, comprese quelle sulle operazioni di borsa e sui derivati. Ci hanno risposto di no, suggerendoci di presentare le nostre domande in forma scritta, cosa che
abbiamo fatto. Per tutta risposta, l’uicio
relazioni pubbliche ci ha scritto: “Riteniamo che le nostre note informative sulle
questioni che avete sollevato siano complete e soddisfacenti”. Per rispondere alle nostre domande sul rapporto annuale, ci hanno  praticamente  rimandato  al  rapporto
stesso. A proposito delle operazioni di borsa
della  banca,  per  esempio,  hanno  detto:
“Troverete la risposta alle pagine 80-81 della sezione analisi di gestione nel rapporto
annuale 2011”. Ma erano proprio quelle pagine che ci avevano spinto a porre domande
sui vari tipi di transazioni.
Quando abbiamo chiesto alla Wells Fargo di quantiicare i rischi associati ai servizi
alla clientela, i suoi rappresentanti ci hanno
rimandato alle stesse pagine. Ma quelle pagine non rispondono alla domanda. Oggi le
banche e gli enti di vigilanza sdrammatizzano quando qualcuno avverte che questo
tipo di operazioni potrebbe far crollare il
sistema inanziario. Ma in passato facevano
la stessa cosa con i  credit default swap(cds) e
con le  collateralized debt obligation.
La penultima tappa del nostro viaggio
attraverso il rapporto annuale della Wells
Fargo ci ha portato a uno degli aspetti più
importanti: il valore equo, proprio quello
che aveva spinto Don Young a concludere
che non poteva idarsi delle banche. Gli istituti di credito hanno una grande quantità di
attivi e passivi, compresi i derivati, e sarebbero  tenute  a  registrarli  al  loro  “valore
equo”. Equo in che senso? Ragioniamo. Come altre banche, la Wells Fargo usa una gerarchia a tre livelli per individuare il valore
equo dei suoi titoli. Il livello 1 è quello dei
titoli scambiati sui mercati pubblici, e non è
troppo preoccupante. Al livello 1 il valore
equo corrisponde semplicemente al prezzo
di un titolo. Se la Wells Fargo possiede obbligazioni o azioni scambiate alla borsa di
New York, ogni giorno il loro valore equo è
il prezzo alla chiusura delle contrattazioni.
Il livello 2 è un po’ più preoccupante.
Contiene entità più ambigue come i derivati e le mortgage backed security(mbs), titoli
garantiti da un insieme di prestiti ipotecari.
Non esistono mercati pubblici per questi
prodotti, che sono comprati e venduti privatamente e non compaiono nei listini di
borsa. Quindi la Wells Fargo usa altri metodi per calcolarne il valore equo, tra cui quelle che chiama “tecniche di valutazione basate su modelli come il matrix pricing”. A
livello 2 il valore equo è quello che un contabile deinirebbe benevolmente una “stima”,
basata su modelli statistici computerizzati
e sui cosiddetti fattori “osservabili”, come il
prezzo di prodotti simili o altri dati di mercato. A questo livello, perciò, il valore equo
è solo una ragionevole ipotesi.
Il livello 3 è terriicante. Le sue stime “si
basano essenzialmente su modelli che partono da fattori non osservabili nel mercato”.
In altre parole, non solo non esistono informazioni sul prezzo al quale questi prodotti
sono stati scambiati recentemente, ma neanche dati osservabili su cui basare le ipotesi. Il livello 3 contiene gli strumenti inanziari più esoterici, compresi i contratti derivati sui crediti e le cdo che erano così popolari e difuse al culmine della bolla immobiliare da riempire i libri contabili della Bear
Stearns, della Merrill Lynch e di molte altre
banche.
Al livello 3 le banche usano le loro supposizioni e informazioni interne. A questo
livello il valore equo è un’ipotesi neanche
tanto ragionevole. Senza dubbio, penserete, il patrimonio della Wells Fargo è conce  trato soprattutto al livello 1, con una piccola
parte al livello 2. In fondo è una semplice
banca commerciale, no? E sembra inconcepibile che sia ancora carica di investimenti
al livello 3 dopo che gli enti di vigilanza hanno ripulito le banche dai titoli tossici e le
hanno rimesse in salute.
Invece solo una piccola percentuale del
patrimonio della Wells Fargo è al livello 1.
La maggior parte è al livello 2. E ben 53 miliardi – più di un terzo delle sue riserve – a
livello 3. La banca rivela in una sobria nota a
caratteri minuscoli a piè di pagina 133 del
rapporto annuale che i suoi investimenti al
livello 3 comprendono “collateralized loan
obligation(clo) per un costo iniziale e un valore equo di 8,1 miliardi di dollari al 31 dicembre 2011”. In parole povere questo signiica che la Wells Fargo registra il valore
di alcuni dei suoi investimenti più complessi  (costituiti  da  pacchetti  di  prestiti  alle
aziende) esattamente al prezzo al quale li
ha pagati (il costo iniziale). Ma questi prodotti sono stati comprati un anno fa? Due
anni fa? Prima della crisi del 2008? Hanno
davvero mantenuto il loro valore? Secondo
Don Young è curioso che il valore equo e il
costo iniziale siano uguali. “Con tassi d’interesse molto più bassi di quelli che la maggior parte delle persone si aspettava, perché
il valore delle clo non è aumentato?”, si
chiede Young. Ma è il primo ad ammettere
che,  senza  maggiori  informazioni  sulla
composizione dei pacchetti e su quando sono stati comprati, dall’esterno è impossibile
stabilire quanto valgono.
Esiste  anche  un  cerchio  più  basso
dell’inferno della inanza: quello popolato
da mostri che un tempo erano chiamati special purpose entity(spe). Erano i famigerati
trucchi contabili che la Enron usava per nascondere i suoi debiti. Supponiamo che
un’azienda possieda una fetta – anche una
minima percentuale – del capitale di un’altra società che è carica di debiti. La prima
può dire di non essere tenuta a includere
tutti gli attivi e passivi della seconda nel suo
bilancio. Se noi possedessimo alcune azioni
della Ibm, non saremmo responsabili di
tutti i suoi debiti.
Ma se avessimo così tante azioni da controllarla o avessimo stretto un accordo collaterale che ci rende responsabili del suo
debito, il buon senso ci imporrebbe di considerare i debiti della Ibm come se fossero
nostri. Dieci anni fa molte aziende, compresa la Enron, usavano queste entità per
aggirare il buon senso e tenere i debiti e le
perdite fuori dei loro bilanci, anche quando
ne avevano il controllo o avevano stretto un
accordo collaterale  Oggi, come in un ilm dell’orrore, le spe
sono resuscitate e si chiamano  variable interest entity (vie). Nel lessico di Wall street le
special purpose entitysono diventate variable interest entity, ma la sostanza è la stessa.
Le grandi aziende creano queste entità per
prendere in prestito denaro e comprare titoli ma, come la Enron, non le includono
nei loro bilanci. La cosa è particolarmente
preoccupante per quanto riguarda le banche: tutte hanno notevoli quote di variable
interest entity. Alla ine del 2011 la Wells Fargo riportava un “significativo coinvolgimento” in variable interest entityper un totale di 1.460 miliardi di dollari. Il “rischio
massimo di perdita”, sostiene la banca, è
molto più basso, ma comunque signiicativo: circa sessanta miliardi di dollari, più del
40 per cento delle sue riserve. La banca dice che la probabilità di incorrere in queste
perdite è “estremamente remota”. Lo speriamo bene. Abbiamo chiesto alla Wells
Fargo di spiegarci meglio questo punto, ma
i suoi rappresentanti ci hanno rimandato di
nuovo al rapporto annuale.
I due pilastri
Sull’onda della recente crisi inanziaria, il
governo statunitense ha deciso di attribuire
agli enti di vigilanza più potere di controllo
sui mercati. Secondo alcuni esperti, però, il
sistema bancario ha bisogno anche di ulteriori capitali. Altri invocano il ritorno alla legge GlassSteagall del 1933 per frenare la
speculazione o propongono un
frazionamento delle grandi banche. Questo tipo di riforme potrebbe essere
utile, ma nessuna risolverebbe del tutto il
problema della mancanza di trasparenza e
i comportamenti scorretti che consente.
Il punto di partenza di qualsiasi soluzione ai problemi delle banche dovrebbe essere ricostruire i due pilastri della regolamentazione eretti dal congresso statunitense
nel 1933 e nel 1934 dopo la crisi del 1929. In
primo luogo servirebbe un sistema di rendicontazione più chiaro, che la Wells Fargo e
tutte le sue sorelle dovrebbero rispettare. In
secondo luogo, i dirigenti che ingannano
consapevolmente gli investitori o commettono altre frodi e abusi dovrebbero correre
davvero il rischio di essere puniti. Fino agli
anni ottanta le regole erano poche ma molto generali, e si basavano sul buon senso. Le
banche commerciali non potevano svolgere
le attività delle banche d’investimento e dovevano avere un ragionevole capitale di riserva. Inoltre non potevano correre rischi
eccessivi. Non tutti gli istituti inanziari rispettavano le regole, ma molti banchieri
che avevano sbagliato sono stati processati
e puniti. Da allora, invece, le regole sono
aumentate a dismisura, le giustiicazioni
per il loro mancato rispetto sono diventate
sempre più tecniche, e le punizioni sono
state rare e poco signiicative. Le multe sono irrisorie rispetto ai proitti delle banche.
Nell’estate del 2012 Andrew Haldane, il
direttore esecutivo per la stabilità inanziaria della Banca d’Inghilterra, ha proposto
una revisione delle norme a livello internazionale. Haldane è partito dall’osservazione che il pacchetto di regole denominato
Basilea I (approvato dalle banche centrali di
tutto il mondo nel 1988) era di sole diciotto
pagine negli Stati Uniti e di tredici nel Regno Unito. Le regole per la nota informativa
si basavano su uno statuto che essenzialmente consisteva in un’unica frase. Il Basilea II, approvato nel 2004, era di 347 pagine. La sola documentazione per il nuovo
Basilea III ha già raggiunto le 616 pagine. E
la normativa federale statunitense in materia di informativa è ancora più lunga. Negli
anni trenta il rapporto di una banca alla Federal reserve comprendeva in genere un’ottantina di voci. Nel 2011, ha osservato Haldane, i rapporti trimestrali alla Fed richiedevano un foglio di lavoro a 2.271 colonne.
La legge sulle attività inanziarie GlassSteagall del 1933, che secondo Haldane è
stata forse “la più inluente del
ventesimo secolo”, non superava
le 37 pagine. La Dodd-Frank del
2010, invece, era di 848 pagine e
aveva imposto agli enti di vigilanza la formulazione di tante nuove
norme (non deinite in dettaglio dalla legge
stessa) che alla ine sarebbe potuta arrivare
a trentamila pagine di sottigliezze legali.
“La Dodd-Frank fa apparire la Glass-Steagall un semplice colpo di tosse”, ha detto
Haldane. E se i legislatori e gli enti di vigilanza smettessero di formulare norme dettagliate da applicare a fatti avvenuti e stabilissero invece standard di condotta generale da rispettare prima che i fatti accadano?
Pensiamo, per esempio, a una delle battaglie più accanite scoppiate durante la stesura della Dodd-Frank, quella sulla “regola di
Volcker”, che prende il nome dall’ex presidente della Fed Paul Volcker. Lo scopo della
proposta era di impedire alle banche di sp  culare se hanno depositi tutelati a livello
federale. Ma dietro costante pressione delle
lobby bancarie, il congresso statunitense ha
scritto una norma complicatissima, alla
quale gli enti di vigilanza hanno aggiunto
ulteriori complicazioni, cercando di tener
conto di tutte le possibilità. A due anni e
mezzo  dall’approvazione  della  DoddFrank, la regola di Volcker non ha ancora
assunto la sua forma deinitiva. Allo stato
attuale solo un piccolo numero di avvocati
dei maggiori studi legali del mondo è in grado di capirla. Il congresso e gli enti di vigilanza statunitensi avrebbero potuto concepire qualcosa  di più  semplice, tipo: “Le
banche non possono efettuare operazioni
di proprietary trading(attività speculative
svolte dalle banche con i loro fondi, non per
conto di clienti)”. Punto.
A livello giudiziario, la cosa da dimostrare nei processi per frode bancaria no  dovrebbe più essere l’intenzione, che obbliga i giudici a entrare nella testa dei banchieri, ma la spericolatezza, che è meno diicile
da provare dell’intenzione ma più diicile
da dimostrare della colpa. Lo scopo di questa modiica sarebbe di impedire ai banchieri di nascondersi dietro il gergo legale.
In altre parole, anche se non hanno intenzionalmente violato la legge e avevano giustiicazioni tecniche per la loro condotta,
possono comunque essere accusati di aver
fatto qualcosa che una persona ragionevole
al loro posto non avrebbe fatto. I manager
delle banche dovrebbero poter essere processati  come  i  dirigenti  di  altri  settori
dell’economia. Quando un amministratore
delegato ha in mano una penna e sta per irmare la dichiarazione secondo cui il rendiconto inanziario della sua banca è accurato
ed è stato adeguatamente controllato, dovrebbe fermarsi a pensare che tra le conse  guenze del suo gesto potrebbe esserci il
carcere. Se i direttori e i funzionari fossero
costretti a calcolare tutti i rischi che corre il
loro istituto, a rivelarli chiaramente e a prepararsi a essere puniti se le informazioni
sono inadeguate, forse potremmo cominciare a costruire una cultura della responsabilità.
Una banca intenzionata a rispettare i
princìpi che abbiamo esposto non avrebbe
bisogno di pubblicare un rapporto di 236
pagine più le appendici: ne basterebbe uno
lungo un decimo. Un lettore che è riuscito
ad andare oltre l’introduzione del rapporto
annuale della Wells Fargo potrebbe leggerlo ino alla ine. In teoria anche un lettore
non particolarmente esperto dovrebbe essere in grado di capire quanto la banca può
guadagnare o perdere nel peggiore dei casi
se, per esempio, il prezzo degli immobili
cala del 30 per cento o se la Spagna fallisce.
Per quanto riguarda i dettagli, le banche potrebbero fornirli volontariamente sul loro
sito web per permettere agli investitori più
navigati di decidere se le loro dichiarazioni
generali sono corrette.
È solo una fantasia? I cambiamenti che
abbiamo proposto sono diicili da introdurre per motivi politici (e cosa non lo è oggi?).
Ma se si facesse sufficiente pressione, le
banche potrebbero accettare un accordo:
regole più semplici se si impegnano a rispettarle sul serio. Dopo tutto, queste modiiche sarebbero nel loro interesse. Le banche devono poter convincere gli operatori
più esperti che sono di nuovo “investibili”.
Altrimenti, gli investitori continueranno a
preoccuparsi di quale sarà la prossima JPMorgan o Lehman Brothers. In questo modo non solo gli azionisti capirebbero meglio
gli afari delle banche, ma i loro dirigenti
sarebbero più incentivati a rispettare le norme etiche.
Ma forse c’è un lato positivo nella perdita di iducia degli investitori. Se si aggiunge
all’indignazione generale, la delusione dei
grandi investitori potrebbe innescare un
vero cambiamento. Senza una mobilitazione  simile,  continueremo  tutti  a  restare
all’oscuro, senza capire quello che fanno le
banche e senza avere nessuna iducia in loro. E la cancrena si difonderà.    GLI AUTORI
Frank Partnoyè professore di diritto e
inanza all’università di San Diego.
Jesse Eisingerè un giornalista di
ProPublica. Nel 2011 ha vinto il premio
Pulitzer insieme a Jake Bernstein per una
serie di inchieste sulle attività delle banche
di Wall stre

983 - Aaron Swartz, 1986-2013 Aaron Swartz si è suicidato l’11 gennaio. Programmatore, hacker e attivista, ha creato i feed rss e ha fondato Reddit. Dopo la sua morte è diventato un martire del web Gideon Lichield, Quartz, Stati Uniti

I
martiri vanno costruiti in fretta, prima che la polvere copra la loro morte.
Così è stato per Aaron Swartz, l’attivista digitale di 26 anni che l’11 gennaio
si è impiccato nel suo appartamento di New
York. Sofriva di depressione e, secondo i
familiari e gli amici, si sentiva perseguitato
dai giudici che minacciavano di condannarlo a 35 anni di carcere per pirateria informatica. Swartz era poco conosciuto al di fuori
del mondo  geek, e non era certo una celebrità di internet: al momento della sua morte
aveva  poco  più  di  settemila  follower  su
Twitter. Ma la rete e gli altri mezzi d’informazione sono stati inondati di messaggi e
articoli che parlavano di lui. È facile capire
le ragioni di questa rapida trasformazione
in tragico eroe popolare.
Per chi lo conosceva, Swartz era una
specie di Arthur Rimbaud del web: un piccolo genio appassionato, capriccioso, tenero e depresso, che durante l’adolescenza ha
fatto  grandi  cose.  Ma  appena  diventato
adulto ha rinunciato a tutto. I progetti della
sua breve ma intensa carriera si sono basati
su un forte impegno per la libera difusione
del sapere. Swartz è stato tra gli autori della
licenza Creative commons, il modello di
copyright che permette agli autori di rendere le loro opere condivisibili senza perderne
i diritti. Poi ha creato una biblioteca gratuita
online e promosso una campagna contro le
proposte di legge statunitensi sul diritto
d’autore, fatte su misura per i titolari di
copyright a discapito delle startup online.
La sua ultima bravata, l’hackeraggio e il furto di articoli di riviste universitarie conservati nella biblioteca online Jstor, gli è costata tredici capi d’imputazione. Swartz ha
scaricato gli articoli per difonderli gratuitamente, come aveva già fatto con un’enorme mole di sentenze dei tribunali federali.
Il processo è andato avanti, nonostante
Jstor abbia ritirato la denuncia e deciso di
rendere liberamente accessibile gran parte
dei suoi contenuti.
Un’icona della sinistra
In questa storia ci sono tutti gli ingredienti
di un grande mito americano: il tormentato
ragazzo prodigio assetato di libertà contro
gli spietati burocrati che abusano del loro
potere. Swartz occupa un posto particolare
nella moderna iconografia della sinistra
statunitense. Le sue iniziative a favore della
libertà d’informazione ricordano quelle di
Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, e
di Bradley Manning, il soldato statunitense
che ha trasmesso ad Assange i dispacci. Assange però è ormai un personaggio screditato e le motivazioni di Manning restano
oscure. Swartz invece incarna un ideale più
alto.
Per il movimento per la libertà d’informazione, l’ex fondatore di Reddit ha probabilmente la stessa importanza che Daniel
Ellsberg, l’analista militare che diffuse i
Pentagon papers, ha avuto per i movimenti
di protesta degli anni settanta. Non tutti gli
amici di Swartz approvavano i suoi metodi.
Sicuramente non condividono la scelta del
Aaron Swartz, 1986-2013
Aaron Swartz si è suicidato
l’11 gennaio. Programmatore,
hacker e attivista, ha creato
i feed rss e ha fondato Reddit.
Dopo la sua morte è diventato
un martire del web
Gideon Lichield, Quartz, Stati Uniti
suicidio. E non tutti sono entusiasti della
sua improvvisa santiicazione. L’amica Danah Boyd, attivista e studiosa della cultura
di internet, ha scritto: “Mi fa paura l’idea
che Aaron possa essere trasformato in un
martire. Perché lui era molto di più: adorabile e imperfetto, passionale e determinato,
brillante e stupido. Ora sarà facile per la folla chiedere vendetta in suo nome. Rievocare lo scontro che ci ha portato in qui non
serve. Dobbiamo cercare un approccio diverso, perché non è giusto che i talenti siano
sacriicati al potere”.
Tutti i movimenti che lottano per il cambiamento fanno progressi grazie al compromesso tra radicali e moderati. Per molti
Swartz sarà un martire, e qualche giovane
attivista lo prenderà a modello per compiere gesti estremi. Probabilmente è troppo
tardi per impedire che questo succeda. Ma
per il grande pubblico, la morte di Swartz dà
un volto umano al dibattito sul libero accesso alle informazioni: un dibattito fondamentale,  ma  troppo  spesso  infarcito  di
acronimi (Sopa, Pipa, Pacer) e linguaggio
burocratico. Se aiuterà l’opinione pubblica
a capire questioni così complesse, la sua
morte non sarà stata del tutto vana. Ma se
Swartz non si fosse tolto la vita avrebbe sicuramente potuto fare molto di più. u  ed

983 - La spesa a buon mercato Der Spiegel, Germania. Foto di Joe Buglewicz Ravioli con i vermi, gamberetti agli antibiotici e fragole contaminate: se dalla Cina arrivano alimenti pericolosi è anche colpa dell’Europa. Che risparmia sui controlli

ufu,  la  città  dove  è  nato
Confucio, nella provincia
dello Shandong, non è particolarmente bella. Ma in
questa  zona  del  sudovest
della Cina i campi valgono
oro. Da qui alla ine di settembre è partito
un carico di fragole diretto in Germania.
Nelle città dell’entroterra cinese, dove i
camion carichi di carbone o di travi di ferro
delle fonderie sfrecciano sulle strade appena asfaltate, l’aria è nera di smog. I campi
coltivati che si estendono a perdita d’occhio
forniscono il cibo al paese più popoloso del
mondo. La raccolta dei peperoncini e del
cotone è appena terminata. Tra due settimane sarà il turno del riso, poi ad aprile
quello dell’aglio. Così adesso migliaia di
contadine se ne stanno inginocchiate nei
campi a piantare i bulbi di una pianta particolarmente redditizia per il settore alimentare internazionale. “L’aglio si mangia dappertutto”, spiega Wu Xiuqin, 30 anni, direttrice delle vendite di un’azienda agricola
chiamata Success. “Lo vendiamo ovunque
nel mondo e sempre di più anche in Germania”. Al momento, una tonnellata di aglio
bianco costa 920 euro, e i tedeschi, spiega
Wu, tengono molto alla “purezza” di questo
prodotto, che vogliono ricevere ripartito in
piccole confezioni. Più dell’80 per cento
dell’aglio venduto a livello globale arriva
dalla Repubblica popolare cinese. La Success ne produce diecimila tonnellate all’anno. E, a giudicare da quel che si vede alle
iere dell’alimentazione di Berlino e di altre città, nessun paese del mondo è in grado di
tenere testa alla Cina. La ditta produce
aglio sbucciato, in iocchi, granulare e in
polvere, e adesso ha inserito nell’assortimento anche lo zenzero, il peperoncino, le
carote, le pere, le mele, le patate dolci e le
arachidi. Il paese dove già si cuciono i nostri
vestiti, si assemblano i nostri smartphone e
si fabbricano i giocattoli dei nostri igli sta
diventando un importante fornitore di beni
alimentari per la Germania. Dato che l’immagine di questo paese non è generalmente positiva tra i consumatori, di solito l’industria alimentare sorvola sull’origine dei
prodotti. La quantità di ingredienti coltivati
e lavorati in Cina che inisce sulle tavole tedesche è risultata più chiara a molti solo alla
ine di settembre, quando migliaia di bambini della Germania orientale hanno soferto di diarrea e vomito. L’epidemia era stata
probabilmente causata da una fornitura di
fragole cinesi contaminate da norovirus.
Cibo globale
I lussi globali di generi alimentari hanno
risvolti bizzarri. In alcune zone della Cina la
popolazione ha tuttora poco da mangiare.
Per questo il paese acquista terreni in Africa
e importa quantità massicce di latte in polvere e carne di pollo e di maiale. Nel 2011 le
aziende dell’Unione europea hanno venduto 393mila tonnellate di carne di maiale alla
Cina, l’85 per cento in più rispetto all’anno
precedente. Per le multinazionali dell’alimentazione il paese è un mercato in espansione che fa gola. D’altra parte, anche la
Cina vende all’Europa molti più generi alimentari che in passato. Il campione mondiale delle esportazioni ha individuato a
sua volta un mercato in crescita decisamente redditizio. Tra il 2005 e il 2010 il valore
globale delle esportazioni cinesi di alimenti è quasi raddoppiato, attestandosi sui 41
miliardi di dollari. E la Germania nel 2011
ha importato dalla Cina 1,4 miliardi di euro
di prodotti alimentari. Per ora è solo un 2
per cento di tutte le importazioni alimentari tedesche, ma “la Cina si è inserita in questo settore con una rapidità e un impeto
straordinari”, sostiene un esperto.
Come sempre, il paese si è adattato alle
esigenze del mercato. Se in passato negli
alimentari tedeschi si trovavano soprattutto prodotti tipici, oggi esiste un fiorente
mercato di alimenti di base e ingredienti
prelavorati a buon mercato, come per esempio i secchi di fragole da dieci chili che sono
initi nelle mense scolastiche tedesche. Sono due gli aspetti che rendono la Cina interessante per i grandi gruppi industriali come Nestlé, Unilever o Metro: il prezzo e il
volume. “Naturalmente potremmo acquistare le cipolle o i funghi anche da dieci fornitori diversi, ma sarebbe un immenso dispendio di energie”, spiega il dirigente di
un’azienda alimentare. I distributori devono far sì che i produttori rispettino le regole
del paese importatore, assisterli e controllarli. In Cina i campi sono sterminati come
il numero dei lavoratori a basso reddito.
“Raccogliere, lavare e tagliare le fragole è
un lavoro ad alta intensità di manodopera
perché l’uso di macchinari è praticamente
impossibile”, spiega Felix Ahlers, il diretto re del produttore di surgelati tedeschi Frosta. Quindi procurarsi la frutta in Europa,
come fa la sua azienda, è costoso. Ma certe
ditte pensano solo al risparmio.
Anche la gamma di prodotti oferti dalla
Cina sembra quasi ininita. Il paese è diventato per esempio il primo esportatore mondiale di miele, e inoltre produce una quantità crescente di cibi pronti, che sul mercato
hanno un margine di proitto anche maggiore delle materie prime. Una parte consistente del pescato mondiale di salmone
viene lavorata in Cina, dove si efettua tra
l’altro l’afumicatura. Nella patria dell’anatra alla pechinese ormai si preparano anche
le pizze surgelate dirette al mercato globale,
a un quinto del prezzo tedesco. Dal punto di
vista ambientale la produzione di pizze su
scala globale non è così preoccupante. Secondo i calcoli dell’istituto di ecologia applicata di Friburgo, il trasporto di surgelati
non incide granché sull’ambiente. Ovviamente sarebbe “meglio mangiare sempre
prodotti locali e di stagione”, dice Moritz
Mottschall, un collaboratore dell’istituto,
ma se a qualcuno viene voglia di fragole in
autunno, il trasporto via mare di dieci tonnellate di frutta dalla Cina genera un’emissione di anidride carbonica di 1,3 tonnellate.
Quando la stessa quantità di fragole viaggia
in camion da Alicante ad Amburgo, nell’aria
si immettono 1,56 tonnellate di CO2.
Il problema principale dei generi alimentari cinesi è il contesto produttivo loc  le: l’inquinamento provocato dai pesticidi
tossici e dall’eccessiva somministrazione di
antibiotici al bestiame si associa a volte a
un’assoluta mancanza di scrupoli. Nel 2008
la melamina, un agente chimico, ha danneggiato la salute di 300mila neonati: i produttori cinesi avevano tagliato il latte in
polvere con quella sostanza, che tra le altre
cose è dannosa per i reni. Inoltre hanno anche messo in vendita piselli tinti di verde
che perdevano il colore durante la cottura,
orecchie di maiale inte, cavoli contenenti
formaldeide, e gli oli usati dei ristoranti, recuperati dagli scarichi, trattati e imbottigliati. Il quotidiano China Daily ha riferito
perino di inte uova di gallina, e la notizia
risulta divertente solo per chi ha la sicurezza di non doverne mai mangiare.
In Cina, dove le garanzie per i consumatori non esistono, l’attivista Wu Heng è diventato una celebrità. La scorsa primavera
Wu ha letto di una strana polverina che i
produttori aggiungevano alla carne di maiale per venderla come manzo. Wu non è
più riuscito a mangiare i piatti che contengono manzo. Allora ha aperto un sito web
con una mappa su cui sono segnati tutti gli
scandali alimentari riferiti dai mezzi d’informazione cinesi. Wu ha chiamato il suo
sito “Lancialo fuori della inestra”, un’allusione al presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt che un giorno, mentre faceva colazione, gettò disgustato una salsiccia
fuori dalla inestra dopo aver sentito in che
condizioni erano i mattatoi di Chicago.
I prodotti più preoccupanti sono quelli
di origine animale, aferma Zhou Li, docente dell’università Renmin di Pechino, che
studia la sicurezza dei generi alimentari.
Dato che la carne è più remunerativa della
verdura, aumenta il desiderio di massimizzare i proitti. Come ha osservato Zhou, un
tempo i contadini mangiavano quel che
vendevano. Invece oggi si sono resi conto
degli efetti nocivi dei pesticidi e dei fertilizzanti, degli ormoni e degli antibiotici, e destinano una parte della loro produzione al
mercato, mentre per nutrire la loro famiglia
continuano a coltivare secondo i metodi
tradizionali. Molti ricchi hanno acquistato
da tempo aziende agricole personali per
non dover dipendere dall’oferta dei supermercati. Secondo i giornali esistono perino
campi speciali per produrre il cibo destinato
ai funzionari d’alto rango del governo.
Nel 2009 il governo cinese ha approvato
una nuova legge sulla sicurezza dei prodotti alimentari e nel 2010 ha istituito una
commissione ad hoc. Inoltre in futuro i consumatori che denunceranno attività illegali
riceveranno un premio in denaro. Ma per capire che non sempre tutto procede come
previsto basta dare un’occhiata a Bruxelles,
dove un sistema di allerta sugli alimenti e i
mangimi avverte tutti i paesi dell’Unione
europea della presenza di un prodotto contaminato. Fino all’inizio dello scorso otto bre a Bruxelles erano stati segnalati, solo
per il 2012, 262 carichi provenienti dalla Cina. Tra i prodotti in questione c’erano ravioli infestati dai vermi, gamberetti contaminati dagli antibiotici, arachidi maleodoranti e frutta candita con troppo zolfo.
Ulrich Nöhle conosce molto bene il settore alimentare cinese. Il professore di chimica degli alimenti efettua da molti anni
veriiche indipendenti nella Repubblica popolare, dove controlla la qualità dei prodotti per diversi rivenditori tedeschi. L’esperto
sostiene che dalla Cina arriva “quel che si
ordina”. Bisogna specificare ai fornitori
“come allevare il bestiame o quali requisiti
devono essere soddisfatti per procurarsi la
certiicazione biologica”. Chi invece ordina
in Cina solo le merci più economiche senza
fare controlli non può lamentarsi se poi non
riceve i prodotti che si aspettava. Una volta
Nöhle si è accorto che i dolciicanti ordinati
in Cina dalla Germania avevano un ripugnante odore di solventi. Quando ne ha
parlato con i produttori cinesi loro gli hanno
risposto: “Puzzano sempre così”. Nöhle ha
dovuto far ristrutturare gli impianti inché
la merce non ha soddisfatto le esigenze dei
suoi clienti. Quando inine i prodotti vengono spediti non si fanno quasi più controlli.
Al porto di Amburgo, dove arriva buona
parte degli alimenti provenienti da oltreoceano e diretti al mercato europeo, già il 15
per cento delle spedizioni contenenti ingredienti di origine animale e il 20 per cento di
quelle di origine vegetale provengono dalla
Cina. Per il pesce, la carne, il miele e i prodotti caseari, l’importatore deve dichiarare
in anticipo l’arrivo della merce all’uicio
veterinario e delle importazioni del porto di
Amburgo e presentare i documenti di trasporto. A quel punto spetta all’uicio stabilire se i prodotti possono entrare nel paese
senza altri controlli. I container sigillati sono aperti solo in caso di dubbi sul
contenuto. Allora i veterinari accertano che il sistema di refrigerazione funzioni e che il trasporto
si sia svolto alla giusta temperatura. Altre veriiche sono responsabilità delle autorità locali di controllo alimentare, più esperte di fast food che di lussi globali di merci.
I prodotti di origine vegetale sono ancora meno sorvegliati: che siano freschi, surgelati o sotto forma di conserve, in genere
entrano nell’Unione europea senza alcun
tipo di controllo. A questa regola fa eccezione solo un piccolo gruppo di alimenti particolari che in passato sono stati al centro di
scandali o che sono considerati sospetti.
Molti di questi provengono dalla Cina: arachidi, soia, riso, ravioli, pompelmi  e tè.
Questi prodotti sono controllati di frequente, e in alcuni casi singoli paesi ne bloccano
le importazioni. L’irregolarità dei controlli
rende diicile anche l’individuazione delle
cause quando insorgono problemi. In quasi
la metà delle 3.697 segnalazioni inviate
dall’Unione europea nel 2011, le associazioni di tutela del consumatore “non sono state in grado di risalire al produttore originario”, aferma Nöhle. Però il fornitore delle
fragole è stato identiicato: i frutti sono stati
coltivati, raccolti e surgelati nella provincia
cinese dello Shandong e li ha spediti dal
porto di Qingdao ad Amburgo la Foodstuf.
In Germania le 44 tonnellate sono state ricevute e sdoganate dalla ditta di intermediazione Elbfrost Tiekühlkost, che il giorno dopo le ha trasportate con dei tir ino a
Mehltheuer, una cittadina della Sassonia. Il
principale destinatario del carico della Elbfrost era la Sodexo, un’impresa internazionale di catering con sede in Francia, che in
Germania gestisce sessantacinque cucine
regionali. Ora le autorità stanno cercando
di capire in che punto della iliera le fragole
siano state contaminate.
Prezzi vantaggiosi
I dirigenti della Elbfrost hanno annunciato
che non si riforniranno più in Cina e hanno
spiegato che la ditta non può garantire che i
produttori cinesi spediscano “merci di qualità ineccepibile”. Come mai allora la Elbfrost aveva deciso di acquistare quei pro dotti? Nella Repubblica popolare l’azienda
sassone non comprava solo fragole ma anche funghi e asparagi. La Elbfrost sostiene
di dipendere dalle importazioni e i suoi vertici mettono l’accento sul “prezzo vantaggioso” degli ingredienti cinesi. Nel 2011 la
Germania ha importato dalla Cina più di
31mila tonnellate di fragole prelavorate, costate in media 1,10 euro al chilo.
Walmart, Carrefour, Tesco e
Metro, le catene di supermercati
più grandi del mondo, ma anche
industrie alimentari come CocaCola,  Unilever,  Barilla,  Campbell’s o Nestlé hanno capito di non poter
fare aidamento né sui fornitori né sui controlli statali. Ma non possono neanche permettersi di vendere cibi contaminati, perché il danno per la loro immagine sarebbe
immenso. Per questo le aziende più importanti del settore hanno unito le forze per dar
vita alla Global food safety initiative e sviluppare un proprio sistema di controlli della
qualità. “Concordiamo con i produttori le
norme più appropriate”, spiega Peter Overbosch, della gestione internazionale della
qualità di Metro. Ma queste misure non riguardano  le  imprese  più  piccole,  come
quelle che riforniscono le ditte di catering e
i ristoranti. E in in dei conti anche il consumatore ha le sue responsabilità. In generale, afferma un supervisore alimentare di
Amburgo, la Cina è in grado di produrre alimenti di alta qualità, “ma arriva a destinazione quel che si è disposti a pagare”. Insomma, se si fa la spesa a buon mercato si
riceve anche cibo a buon mercato.  u  fp