giovedì 24 aprile 2014

983 - Un mondo di parole - Scienza

Mark Pagel, New Scientist, Regno Unito
Se lo scopo dell’evoluzione delle lingue è favorire
la comunicazione, allora perché sono così tante
e così diverse tra loro? Un parallelo con la
biodiversità aiuta a capirlo


P
er gli appassionati di lingue,
la costa nordorientale della
Papua Nuova Guinea è come un negozio di caramelle
ben  fornito.  Persone  che
parlano  korak  vivono  accanto ad altre che parlano brem, a loro volta
vicine a chi parla wanambre, e così via. Una
volta ho conosciuto un uomo originario della zona e gli ho chiesto se era vero che dalle
sue parti bastava fare pochi chilometri per
incontrare una lingua diversa. “No”, ha risposto, “le nostre lingue sono molto più vicine”.
Oggi nel mondo si parlano settemila lingue diverse. Ci sono quindi settemila modi
per dire “buongiorno” o “sembra che stia
per piovere”. Un unico mammifero parla
più lingue del numero di specie mammifere
che esistono sulla terra. Inoltre, queste settemila lingue rappresentano solo una parte
di quelle parlate nel corso della storia. Per
mettere in prospettiva questa diversità, basta pensare che un gorilla o uno scimpanzé
prelevato dal suo branco e trasferito in qualsiasi altro posto dove vive la sua specie saprebbe comunicare. E lo stesso saprebbe
fare un asino, un grillo o un pesce rosso, ma
non un essere umano.
Questo dato sottolinea l’affascinante
paradosso alla base della comunicazione
umana. Se il linguaggio si è evoluto per permetterci di scambiare informazioni, perché
non capiamo la maggior parte degli altri
abitanti della terra? Nell’Antico testamento
la domanda è al centro dell’episodio della
torre di Babele. A un certo punto gli esseri
umani, che parlavano tutti la stessa lingua,
ebbero la bizzarra idea di collaborare alla
costruzione di una torre che li avrebbe portati in paradiso. Infuriato per il tentativo di
usurpare il suo potere, Dio distrusse la torre. Poi, per essere sicuro che non ne costruissero un’altra, sparse gli uomini su tutta la
terra e li confuse dandogli lingue diferenti.
Secondo l’episodio della torre di Babele, le
lingue esistono per impedirci di comunicare. La cosa sorprendente è che forse non è
un’ipotesi lontana dalla realtà.
Ai poli e ai tropici
È diicile risalire all’origine del linguaggio.
Secondo i reperti fossili, dal punto di vista
anatomico, i nostri antenati hanno acquisito la capacità di parlare tra 1,6 milioni e seicentomila anni fa. Ma le prove certe del
fatto che la capacità di parlare fosse usata
per esprimere delle idee complesse le troviamo  solo  nella  cultura  più  raffinata  e
nell’uso del simbolismo degli esseri umani
moderni. Questi si difusero in Africa tra i
duecentomila e i centosessantamila anni
fa, e sessantamila anni fa cominciarono a
lasciare quel continente per sparpagliarsi
nel resto del mondo. In quel periodo si formarono nuove lingue perché, quando un
gruppo si separava da un altro e occupava
nuove terre, il suo linguaggio cambiava per
adattarsi alle necessità del luogo. Ma la diversità più grande delle società umane e
delle lingue non si veriica dove le persone
sono più sparpagliate, ma dove sono più vicine.
La Papua Nuova Guinea è un esempio
classico. Il suo territorio abbastanza limitato ospita tra le ottocento e le mille lingue, il
15 per cento di quelle parlate sul pianeta.
Questa diversità linguistica non dipende
dalle migrazioni o dall’isolamento geograico dei vari gruppi. Anzi, persone che vivono così vicine hanno deciso di dividersi in
molte comunità, conducendo vite talmente
separate e distinte da non riuscire più a comunicare. Perché? Rilettendoci mi è venuto in mente lo strano parallelo tra la diversità linguistica e quella biologica. Secondo un
principio noto in ecologia come regola di
Rapoport, la diversità tra le specie biolog che è maggiore vicino all’equatore e diminuisce avvicinandosi ai poli. Potrebbe essere lo stesso anche per le lingue?
Per veriicare quest’ipotesi, io e l’antropologa Ruth Mace, dell’University college
London, abbiamo studiato la distribuzione
di cinquecento tribù native americane prima dell’arrivo degli europei e l’abbiamo
usata per calcolare il numero di gruppi linguistici diversi per unità di supericie a ogni
grado di latitudine. Abbiamo scoperto che
la loro distribuzione corrispondeva alla regola di Rapoport. Probabilmente la corrispondenza tra la diversità biologica e le
culture con lingue diverse non è casuale.
Per sopravvivere in un ambiente diicile
come quello dei poli, gli animali devono
percorrere lunghe distanze lasciando poco
spazio per la nascita di nuove specie. Lo
stesso succede ai gruppi umani che vivono
nelle regioni settentrionali più estreme: devono attraversare vaste aree geograich per trovare cibo a suicienza, un fatto che
provoca una maggiore sovrapposizione di
lingue e di culture. All’estremità opposta gli
assolati tropici sono la culla di numerose
specie biologiche, e questa ricchezza ambientale ha consentito anche agli esseri
umani di nutrirsi facilmente e di suddividersi in molte società.
Questo  non  spiega  perché  gli  esseri
umani desiderano formare tanti gruppi distinti. Per le specie biologiche che vivono ai
tropici, la diversità è vantaggiosa perché
permette a ognuna di adattarsi alla propria
nicchia ecologica. Ma gli esseri umani occupano tutti la stessa nicchia, e dividersi in
tanti gruppi culturali e linguistici comporta
una serie di svantaggi, come una circolazione più lenta delle idee, delle tecnologie e
delle persone, e rende le società più soggette ai rischi e alla cattiva sorte. Non sarebbe
meglio formare un gruppo più ampio con
una lingua comune? Una  risposta  a  questa  domanda  sta
emergendo con la constatazione che, nella
storia umana, ci sono sempre stati dei conlitti. Da quando i nostri progenitori hanno
cominciato a lasciare l’Africa, sessantamila
anni fa, gli esseri umani sono sempre stati
in lotta tra loro per il controllo del territorio
e delle risorse. Nel mio libro  Wired for culturespiego come, di conseguenza, abbiamo
acquisito una serie di tratti che aiutano il
nostro particolare gruppo a prevalere sugli
altri. I due tratti fondamentali sono la “tendenza a fare gruppo”, cioè ad associarci con
persone con cui condividiamo un’identità
precisa, e la xenofobia, cioè la tendenza a
demonizzare chiunque sia esterno al gruppo. In questo contesto, le lingue agiscono
come potenti ancore sociali della nostra
identità tribale. Il modo in cui parliamo ci
ricorda chi siamo e, cosa altrettanto importante, chi non siamo. Chiunque parli il nostro particolare dialetto è la pubblicità vivente dei valori e della storia culturale che
condividiamo. Inoltre quando delle comunità diverse vivono molto vicine tra loro,
l’uso di lingue diferenti è un sistema eicace per evitare di essere spiati o di lasciar
trapelare  informazioni  importanti  agli
estranei.
A sostegno di questa tesi ho trovato i resoconti di alcuni antropologi su certe tribù
che hanno deciso di cambiare lingua solo
per distinguersi da quelle vicine. Un gruppo
di parlanti selepet della Papua Nuova Guinea ha cambiato la parola “no” da  biaa  bune
per distinguersi dagli abitanti di un villaggio vicino. Un altro gruppo ha invertito i
nomi maschili e quelli femminili: lui è diventato lei, uomo è diventato donna, madre
è diventato padre, e così via.
Estinzione
Gli abitanti della Papua Nuova Guinea non
sono gli unici a usare la lingua come un
marcatore d’identità. In tutto il mondo le
lingue servono per capire chi fa parte della
propria “tribù”. Abbiamo una chiara consapevolezza, a volte ossessiva, di come parlano le persone intorno a noi e adattiamo il
linguaggio per distinguere il nostro particolare gruppo dagli altri. In modo simile a
quello che è successo tra i due gruppi che
parlavano selepet, molte variazioni ortograiche che distinguono l’inglese americano da quello britannico – la tendenza a eliminare la u in parole come colour– sono
emerse all’inizio dell’ottocento quando Noah Webster compilò il primo American dictionary of the english language, sottolineando
che “in quanto nazione indipendente, il nostro onore ci impone di adottare un    nostro, sia per la lingua sia per il governo”.
L’uso della lingua per deinire l’identità
di gruppo non è un fenomeno recente. Analizzando il modo in cui le lingue si sono diversiicate nel corso della storia umana, io e
i miei colleghi abbiamo tracciato gli alberi
genealogici di tre grandi gruppi linguistici:
le lingue indoeuropee, le lingue bantu africane e quelle polinesiane dell’Oceania.
Questa “ilogenesi”, che ricostruisce la
storia di ogni gruppo facendolo risalire a un
antenato  comune,  permette  di  vedere
quante volte una lingua contemporanea si è
separata o ha “divorziato” da quelle collegate. Abbiamo scoperto che alcune lingue
hanno alle spalle molti divorzi, altre ne hanno meno. Quando una lingua si stacca da
un’altra, per un breve periodo subisce rapidi
cambiamenti. La stessa cosa succede durante l’evoluzione biologica ed è conosciuta
come evoluzione puntuazionale. Quindi
più divorzi ha avuto una lingua, più il suo
vocabolario diferisce da quello originario.
La nostra analisi non ci ha permesso di capire perché una lingua è arrivata a dividersi
in due. La migrazione e l’isolamento dei
gruppi sono cause possibili, ma almeno in
parte alcuni cambiamenti linguistici sono
avvenuti per permettere ai parlanti di afermare la propria identità. C’è stata una vera
e propria guerra delle parole.
Cosa succederà in futuro? Il mondo in
cui viviamo è molto diverso da quello dei
nostri antenati. Per gran parte della nostra
storia le persone hanno conosciuto solo chi
faceva parte del loro gruppo culturale e i vicini più immediati. La globalizzazione e la
comunicazione digitale ci hanno permesso
di essere più collegati e ci hanno reso culturalmente più omogenei, sottolineando i
vantaggi di riuscire a capirsi. Il risultato è
un’estinzione in massa delle lingue, simile
alle grandi estinzioni biologiche del passato. Anche se le lingue contemporanee continuano  a  evolversi  e  a  divergere  l’una
dall’altra, oggi il numero delle lingue minoritarie estinte supera quello delle lingue che
nascono. Ogni anno scompaiono tra le trenta e le cinquanta lingue, perché i giovani
delle piccole società tribali adottano quelle
maggioritarie.  Questa  perdita  supera  in
percentuale il calo di diversità tra le specie
biologiche provocato dalla scomparsa di
alcuni habitat e dal cambiamento climatico. Solo quindici lingue, delle settemila esistenti, sono parlate dal 40 per cento della
popolazione. La maggior parte delle lingue
ha pochissimi parlanti.
Ma questa omogeneità di lingue e culture si sta realizzando a un ritmo molto più
lento di quello che si potrebbe avere, grazie
all’importante ruolo psicologico svolto dalle lingue nel delineare i territori e le identità
culturali. Una conseguenza è che le lingue
resistono alla “contaminazione”, e i parlanti guardano con sospetto l’introduzione
delle parole straniere, come testimoniano
le proteste degli inglesi e dei francesi per i
cosiddetti americanismi. Un altro fattore
importante è il ruolo dei nazionalismi per
salvare le lingue in via di estinzione, che
può dare origine a scelte politiche come
quella del Galles di rendere obbligatorio
l’insegnamento del gallese ai ragazzi ino a
sedici anni.
Una morale positiva
La resistenza al cambiamento lascia spazio
alla diversità linguistica interna. Linguaggi
di strada come l’hip hop, per esempio, sono
fondamentali per affermare l’identità di
gruppi speciici, mentre i mezzi di comunicazione di massa gli permettono di raggiungere facilmente il loro pubblico naturale.
Un altro esempio è quello del globish, una
forma ridotta d’inglese composta da appena un migliaio di parole e da poche strutture
linguistiche sempliicate. Si è evoluto naturalmente tra le persone che viaggiano molto, come i diplomatici e gli uomini d’afari.
Quando si parla globishi madrelingua inglesi sono svantaggiati perché usano parole e
strutture grammaticali che gli altri non capiscono.
Ma sembra inevitabile che, nel corso del
tempo, un’unica lingua sostituirà le altre. In
termini evoluzionistici quando ci sono due
soluzioni ugualmente valide a un problema, una delle due tende a prevalere. Lo si
vede già nel modo standardizzato a livello
mondiale di dire l’ora, di misurare i pesi e le
distanze, di indicare il formato dei cd e dei
dvd, dei voltaggi e delle frequenze elettriche. Forse ci vorrà molto tempo, ma le lingue seguiranno la stessa strada: sono tutti
strumenti di comunicazione validi, quindi
alla ine uno sostituirà gli altri. Quale sarà?
Oggi 1,2 miliardi di persone, più o meno
un sesto della popolazione mondiale, parla
il cinese mandarino. Subito dopo vengono
lo spagnolo e l’inglese con quattrocento milioni di parlanti ciascuno, seguiti dal bengali e dall’hindi. Il mandarino sembra il favorito nella gara per diventare la lingua mondiale. Ma la maggioranza delle persone
studia l’inglese come seconda lingua. Anni
fa, in una lontana zona della Tanzania, ho
rinunciato a parlare swahili perché il mio
interlocutore ha alzato una mano dicendo:
“Il mio inglese è molto meglio del suo swahili”. L’inglese è già la lingua franca del
mondo, quindi se dovessi scommettere su
quale sarà quella che alla ine sostituirà le
altre non avrei nessun dubbio.
Nella continua guerra delle parole è inevitabile che ci siano delle vittime. Quando
una lingua si estingue non perdiamo solo
un modo diverso per dire “buongiorno”,
ma anche un po’ di diversità culturale. Ogni
lingua  svolge  un  ruolo  fondamentale
nell’afermazione di un’identità culturale, è
la voce interna portatrice dei ricordi, dei
pensieri, delle speranze e delle paure di un
particolare gruppo di persone. Se scompare
una lingua, si perde anche tutto questo.
Credo però che il futuro monolinguistico non sarà così brutto come sostengono i
catastroisti. È convinzione difusa che la
lingua che parliamo determini il nostro modo di pensare. Di conseguenza la scomparsa di una diversità linguistica signiicherebbe anche la perdita di stili di pensiero unici.
Non sono d’accordo.
La nostra lingua determina le parole che
usiamo, ma non limita i concetti che siamo
in grado di capire. Quindi potremmo trarre
anche un’altra morale, più positiva, dalla
storia della torre di Babele: se tutti parlano
la stessa lingua, per l’umanità sarà più facile
collaborare alla costruzione di qualcosa di
grande. E in efetti oggi sono proprio i paesi
che hanno una minore diversità linguistica
ad aver ottenuto più successi. u  bt
L’AUTORE
Mark Pagel è un biologo britannico e insegna
all’università di Reading. Il suo ultimo libro è
Wired for culture (W.W. Norton & Company
2012)

Nessun commento:

Posta un commento