giovedì 24 aprile 2014

985 - Cosa c’è nelle banche In copertina Gli istituti di credito hanno ancora strutture opache e piene di attività ad alto rischio. Lo dimostra perino il bilancio della Wells Fargo, la banca statunitense più prudente e sicura Frank Partnoy e Jesse Eisinger, The Atlantic,

L
a crisi inanziaria ha molte
cause – eccesso di prestiti,
investimenti sconsiderati,
regolamentazione insufficiente – ma fondamentalmente il panico è stato scatenato  dalla  mancanza  di  trasparenza.
Nell’autunno del 2008, quando crollò la
Leh man Brothers, nessuno voleva più trattare con le banche perché non si capiva quale fosse il loro livello di rischio: con le informazioni disponibili era impossibile prevedere se una banca rischiava di fallire da un
momento all’altro.
Negli ultimi quattro anni i politici e i
banchieri statunitensi hanno fatto sforzi
enormi, in alcuni casi senza precedenti, per
salvare l’industria finanziaria, ripulire le
banche e rivedere la normativa allo scopo
di restituire credibilità al sistema. Ma non
ha  funzionato:  oggi  le  banche  sono  più
grandi e meno trasparenti che mai e continuano a comportarsi più o meno come facevano prima della crisi.
Prendiamo le clamorose perdite registrate l’anno scorso dalla JPMorgan, che per
gli investitori è una delle aziende statunitensi più sicure e gestite meglio. Il suo carismatico amministratore delegato, Jamie
Dimon, l’aveva tenuta in piedi durante la
crisi, e all’inizio del 2012 l’istituzione sembrava più stabile e in salute che mai. Le sue
attività di banca commerciale – cioè le tradizionali attività di deposito e di concessione dei prestiti – sembravano solide, sicure e
ampiamente in attivo. Ma nel maggio del
2012 la JPMorgan ha annunciato l’equivalente inanziario di un improvviso arresto
cardiaco: una sbalorditiva perdita valutata
inizialmente in due miliardi di dollari e in
seguito lievitata a sei (ma potrebbe aumentare ulteriormente, visto che si sta ancora
cercando di capire quali siano le reali condizioni dell’istituto).
La perdita è stata provocata da una divisione  poco  nota  della  banca,  il  chief  investment oice(Cio). Questa unità è sempre
stata considerata strategicamente poco interessante: la sua funzione è di ridurre i rischi dell’istituto e di gestire le sue riserve
liquide. Secondo la JPMorgan, la divisione
aveva investito prudentemente in prodotti
a basso rischio, come i titoli del debito pubblico statunitense. La banca ha dichiarato
che nel 95 per cento dei casi l’unità poteva
perdere al massimo 67 milioni di dollari in
un giorno (questo metro di misura statistico
largamente usato è chiamato “valore di rischio”). Quando gli analisti, a primavera,
avevano chiesto chiarimenti a Dimon sulle
voci secondo cui la perdita sarebbe stata
molto più sostanziosa, il manager aveva
sdrammatizzato deinendola “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Sei miliardi di
dollari non sono certo una somma che può
far fallire la JPMorgan, ma rappresentano
comunque una bella perdita. Man mano
che gli investitori cominciavano a rendersi
conto della situazione, in due mesi le azioni
della banca hanno perso un terzo del loro
valore. L’11 maggio 2012, il giorno dopo la
conferma delle perdite, sono scese del 9 per
cento.
Cifre false
Ovviamente non è solo una questione di
soldi. Il problema è che una banca considerata la migliore nella gestione del rischio
aveva smentito la sua fama. Mentre uscivano le notizie, si è scoperto che l’istituto aveva manipolato il metro di valutazione dei
rischi  senza  fornire  una  giustificazione
plausibile. Ammettendo la perdita, inoltre,
la JPMorgan ha dovuto riconoscere che le
cifre rese note ino a quel momento erano
false. Una buona fetta dei suoi proitti apparentemente sicuri era in realtà derivata da
speculazioni ad alto rischio e poco trasparenti.
Ma c’è di peggio. Le autorità statunitensi stanno cercando di scoprire se i suoi operatori abbiano mentito mentre la situazione
inanziaria del chief investment oicesi stava
deteriorando. Molti azionisti della JPMorgan hanno avviato delle azioni legali sostenendo che i rendiconti inanziari della banca sono stati ingannevoli. Lo stesso istituto
sta facendo causa a uno dei suoi ex operatori di borsa, considerato responsabile delle
perdite. Sembra che Dimon, un tempo uno
dei personaggi più rispettati di Wall street,
non abbia compreso la situazione del colosso inanziario e non abbia saputo gestirla
adeguatamente. Gli investitori non hanno
ancora capito se la banca sia davvero solida
come sembra e se possano idarsi delle altre
informazioni che rende pubbliche.
Negli ultimi mesi lo scandalo della JPMorgan non è stato l’unico a sollevare dubbi sulla sicurezza e l’aidabilità delle grandi
banche. Molti dei più importanti istituti inanziari sono accusati di aver manipolato il
London interbank ofered rate (Libor), il
principale tasso d’interesse usato come base per stabilire i tassi d’interesse di miliardi
di dollari di prestiti e altri prodotti inanziari. Nel giugno del 2012 la banca britannica
Barclays ha pagato una grossa multa per
evitare un’azione penale e civile avviata
dalle autorità statunitensi e britanniche. E
si dice che anche il colosso svizzero Ubs stia
per raggiungere un compromesso simile.
Altre grandi banche, tra cui la JPMorgan, la
Bank of America e la Deutsche Bank, sono
sotto inchiesta, anche se non è stata ancor  formalizzata nessuna accusa. Il Libor è il
tasso applicato dalle banche quando si prestano soldi tra loro e dà la misura della iducia che nutrono le une nelle altre. Ma ormai
è diventato sinonimo di manipolazione e
collusione. In altre parole, non ci si può idare neanche del criterio che dovrebbe dimostrare quanta iducia circola all’interno dello stesso sistema inanziario.
Le accuse di attività illegali e clandestine aumentano ogni giorno. Alcune grandi
banche internazionali sono state accusate
dalle autorità statunitensi di aver aiutato i
narcotraicanti messicani a riciclare il loro
denaro (Hsbc) o di aver fatto arrivare fondi
all’Iran (Standard Chartered). Le procure
hanno accusato alcune banche di aver falsiicato i dati sui mutui, irmando i documenti senza leggerli per accelerare le procedure,
e di aver pignorato indebitamente i beni dei
loro debitori. Solo dopo lo scoppio della crisi inanziaria l’opinione pubblica ha saputo
che le banche ingannavano regolarmente i
clienti, vendendogli titoli spazzatura e, in
alcuni casi, scommettendo addirittura contro di loro.
Messi tutti insieme, questi episodi hanno fatto ulteriormente scendere il livello di
iducia tra i clienti. Secondo la società di
sondaggi Gallup, negli anni settanta tre statunitensi  su  cinque  dicevano  di  fidarsi
“molto “ o “abbastanza” delle grandi banche. Nei decenni successivi la iducia è diminuita progressivamente, ma dopo la crisi
del 2008 è crollata del tutto. Nel giugno del
2012 meno di un intervistato su quattro ha
dichiarato di idarsi delle grandi banche, un
minimo  storico.  Lo  scorso  ottobre  Luis
Aguilar, un funzionario della Securities and
exchange commission (Sec), l’autorità di
controllo della borsa statunitense, ha citato
altri dati secondo i quali “il 79 per cento degli investitori non si ida del sistema inanziario”.
Quando abbiamo chiesto a Dane Holmes, il responsabile dei rapporti con gli investitori della Goldman Sachs, perché così
poche persone si idano delle grandi banche, la sua risposta è stata: “La gente non le
capisce”, perché “non c’è trasparenza” (in
seguito Holmes ha chiarito che stava pa  lando delle persone comuni, non degli in­
vestitori più esperti con i quali è quotidiana­
mente in contatto). Senza dubbio non sono
molti gli studenti, gli anziani o gli operai che
capiscono quello che fanno le grandi ban­
che. Le persone comuni non hanno più i­
ducia nelle istituzioni inanziarie, e questo
è già un grosso problema. Ma oggi ne è sor­
to uno ancora più grave, che minaccia anco­
ra di più la sicurezza del sistema inanziario
e coinvolge anche i grandi investitori con i
quali Holmes passa la maggior parte del suo
tempo: perino gli esperti si idano sempre
meno delle banche. A quattro anni dalla cri­
si, il prezzo delle azioni delle grandi banche
resta basso. Anche dopo il rialzo dello scor­
so autunno, molte sono ancora al di sotto
del loro “valore contabile”, il che signiica
che valgono meno di quanto risulta dai loro
bilanci. Questo indica chiaramente che gli
investitori non credono in quel valore di­
chiarato o non credono che in fu­
turo la banca possa essere molto
redditizia, oppure entrambe le
cose. Diversi operatori inanziari
ci hanno rivelato che considerano
le grandi banche come “scatole
nere” – cioè sistemi dal funzionamento in­
comprensibile – e non hanno nessun inte­
resse a investire nelle loro azioni. Un alto
dirigente di una delle istituzioni inanziarie
più importanti del paese ci ha raccontato
che sente dire regolarmente dagli investito­
ri che le banche sono uninvestable, un neo­
logismo di Wall street per indicare che sono
da evitare.
Questa crisi di iducia da parte degli in­
vestitori è pericolosa. È molto meno evi­
dente di un improvviso attacco di panico,
ma nel corso del tempo i danni si accumula­
no. Non è uno tsunami, ma una cancrena:
avanza lentamente, quasi inosservata, e
viene presto dimenticata. Prima o poi di­
venta una realtà ineludibile. Anche se l’eco­
nomia si riprende, la crisi di iducia toglie
forza alla ripresa. Le banche non attirano
capitali e perdono clienti. I loro manager
sono traumatizzati e stressati, e a causa del­
le conseguenze dei loro eccessi e degli erro­
ri precedenti, non concedono tutti i prestiti
che dovrebbero. Di conseguenza, l’econo­
mia arranca.
Con il diminuire della iducia, natural­
mente, aumenta la probabilità di un’altra
crisi. La prossima tempesta potrebbe far
crollare deinitivamente l’intero ediicio. I
grandi  investitori,  quelli  che  spostano  i
mercati e controllano grandi lussi di dena­
ro, scapperanno per paura che il tetto gli
cada sulla testa. Meno si idano, prima im­
boccheranno la strada del disinvestimento,
congelando il credito alle banche e indebo­
lendo ulteriormente la struttura. In questo
modo i timori si concretizzano e le diicoltà
che prima potevano essere afrontate di­
ventano insuperabili.
Alla base del problema c’è il sospetto
che le banche falsino i loro bilanci. Le do­
mande più semplici sono: come rendono
conto dei prestiti? Possiamo stimarne cor­
rettamente il valore? Altre sono più compli­
cate: quali rischi comportano gli strumenti
inanziari complessi come quelli che hanno
provocato le perdite della JPMorgan? Si pre­
sume che, negli Stati Uniti, le risposte si tro­
vino nei rapporti trimestrali e annuali che le
banche presentano alla Sec e che sono con­
trollati dal Financial accounting standards
board (Fasb), l’ente privato che su mandato
del governo controlla l’applicazione dei cri­
teri contabili. Don Young, che attualmente
gestisce un fondo d’investimenti, ne ha fat­
to parte dal 2005 al 2008. “Dopo
essere stato in quella commissio­
ne”, ci ha detto, “non mi ido più
dei bilanci delle banche”.
Da quando gli istituti finan­
ziari, e tutte le loro attività, sono
diventati più complessi, le norme sui bilan­
ci sono aumentate a dismisura. Ma non rie­
scono comunque a stare al passo con i cam­
biamenti del sistema. I banchieri più astuti,
con l’aiuto dei loro legali e dei contabili, rie­
scono a trovare il modo di aggirare l’intento
della legge pur rispettandone la lettera.
Inoltre, dato che sono diventate sempre più
dettagliate e astruse, e anche se non riesco­
no ancora a coprire tutti i casi possibili, que­
ste norme hanno avuto un efetto perverso:
grazie a esse le banche hanno evitato di da­
re agli investitori le informazioni necessarie
per giudicare il reale valore e i rischi del loro
portafoglio. Questo vale non solo per le
complesse questioni legate alle innovazioni
del settore, ma anche per questioni più ele­
mentari come quelle relative ai prestiti.
Quando Young era al Fasb, a un certo
punto alcuni componenti dell’organismo
volevano chiedere alle banche di trattare i
prestiti come se fossero titoli, registrandoli
al valore di mercato corrente, il cosiddetto
fair value(valore equo). Le banche li regi­
stravano con il valore iniziale e accantona­
vano una riserva in base alle probabilità che
fossero rimborsati. Le norme consentivano
anche di usare sistemi diversi per calcolare
il valore dello stesso tipo di prestiti, a secon­
da se intendevano tenerli a lungo o riven­
derli. Ma molti esperti di contabilità erano
convinti che le cifre riportate non fornissero
agli investitori un quadro preciso e attendi­
bile dello stato di salute della banca. Dopo
feroci discussioni e l’avvicendamento di
alcuni componenti del Fasb, il timore di in­
trodurre cambiamenti nel bel mezzo di una
crisi e l’aggressiva attività di lobby delle
banche  hanno  spinto  la  commissione  a
mantenere il metodo esistente. Secondo
Young , oggi le cifre presentate sono meno
attendibili. “La situazione è peggiorata”,
osserva. Quando abbiamo chiesto a un altro
ex  componente  della  commissione,  Ed
Trott, se riteneva attendibili i bilanci delle
banche,  ci  ha  risposto:  “Assolutamente
no”.
Confondere le acque
Le norme sulla contabilità dovrebbero aiu­
tare gli investitori a capire in che condizioni
sono le aziende di cui comprano le azioni.
Ma gli obblighi attuali non garantiscono la
trasparenza delle banche. Anzi, consento­
no agli istituti di confondere le acque. E
questa confusione rischia di favorire una
serie di comportamenti scorretti. Abbiamo
deciso di avventurarci nell’analisi dei rendi­
conti inanziari di una banca per vedere co­
sa rivelano e cosa non rivelano, e per capire
se è possibile valutarne i rischi. E abbiamo
scelto la Wells Fargo, un’istituzione inan­
ziaria  tradizionale  considerata  un  buon
esempio di gestione di una grande banca
moderna.
La Wells Fargo è generalmente ritenuta
la più cauta delle grandi banche statuniten­
si. Molti investitori, enti di vigilanza e anali­
sti sono ancora convinti che i suoi rendicon­
ti inanziari ofrano un quadro completo e
preciso della sua situazione. Attualmente il
valore delle azioni della Wells Fargo è il più
alto tra quelli di tutte le banche statunitensi:
all’inizio di dicembre del 2012 l’istituto va­
leva 173 miliardi di dollari. Oltre che alla sua
buona reputazione, l’entusiasmo per que­
sta istituzione è dovuto a un fatto apparen­
temente semplice: nel 2011 i suoi utili netti
sono stati di 16 miliardi di dollari, il 28 pe  cento in più rispetto al 2010. Per scoprire
cosa c’è dietro, bisogna leggere il suo rapporto annuale, ed è da lì che è cominciata la
nostra avventura. Il rapporto annuale è un
documento speciale in cui la banca espone
in dettaglio la sua situazione una volta avvenuta la revisione del bilancio. L’ultimo
rapporto della Wells Fargo, quello del 2011,
è di 236 pagine. Comincia come un libro rivolto a tutti con il vivace racconto di un anno di vita della banca: sulla prima pagina c’è
una storia commovente su un cliente, mentre quelle immediatamente successive sono piene di immagini di uomini in cappello
da cowboy, una coppia che si tiene per mano in riva all’oceano, un piatto di dolci e una
serie di pannelli solari. Con una scritta a caratteri cubitali la Wells Fargo ci informa che
nel 2011 ha donato 213,5 milioni di dollari a
organizzazioni non proit e, per essere sicura che ci rendiamo conto ino in fondo della
sua generosità, speciica: 4,1 milioni a settimana, che equivalgono a 585mila al giorno
o 24mila all’ora. Il tocco inale dell’introduzione è : “Non diamo per scontata la iducia.
Sappiamo che dobbiamo guadagnarcela
ogni giorno, parlando e trattando con i nostri clienti. Questo è il modo in cui cerchiamo di farlo”.
Fortunatamente per la Wells Fargo la
maggior parte delle persone non va oltre
l’introduzione. Nelle pagine che seguono i
volti soddisfatti dei clienti scompaiono. E
anche le storie. Il racconto è sostituito da
dettagli sui suoi afari che vanno dall’incomprensibile all’inquietante. La banca ci
ha detto che dedica “considerevoli risorse a
soddisfare le richieste dei vari enti di vigilanza”. Nonostante questo, le sue dichiarazioni non le garantirebbero la fiducia di
nessuno. Sono scritte in un linguaggio che,
alla ine, non dice niente. Il volume è pieno
di note a piè di pagina sempre più oscure,
l’equivalente della discesa di Dante all’inferno. Anzi, dopo la brillante introduzione,
nel rapporto dovrebbe comparire un avvertimento per chiunque voglia capire davvero
la situazione inanziaria della banca: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.
Il primo cerchio della versione dell’Infernodella Wells Fargo, come il limbo di
Dante, lascia solo intuire quello che seguirà, ma è comunque preoccupante. Uno degli scopi principali di un rapporto annuale è
informare gli investitori su come un’azienda guadagna i suoi soldi. A questo ine la
Wells Fargo divide i suoi introiti in due parti
precise: “Redditi da interesse” e “redditi
non da interesse”. A prima vista queste due
categorie sembrano corrispondere alle d  fonti di reddito tradizionali delle banche:
l’interesse sui prestiti e le spese addebitate
ai  clienti.  Ma  qui  comincia  la  discesa.
All’improvviso questo istituto di credito alla
portata di tutti mostra i primi segni di sdoppiamento della personalità. Viene fuori che
le sue attività speculative, quelle che di solito ci fanno pensare a banche di Wall street
come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, contribuiscono in modo signiicativo a
entrambe le sue categorie di reddito. Quasi
un miliardo e mezzo del suo “reddito da interesse” è derivato da “attività inanziarie
scambiate in borsa”, mentre altri 9,1 miliardi di dollari arrivano dai “titoli vendibili”.
Un miliardo di dollari dei “redditi non
da interesse” è costituito dai “guadagni netti sulle attività di  trading(lo scambio di titoli in borsa)”. Un altro miliardo e mezzo da
“investimenti azionari”. In tutto il rapporto
compaiono categorie astruse e onnicomprensive: “reddito da attività correlate”,
“altri interessi” o semplicemente “altro”.
Complessivamente, nel 2011 questo generico “altro” costituiva 6,6 miliardi di dollari
di utili per la Wells Fargo. Un lettore instancabile dovrà proseguire per altre 50 pagine
per scoprire che la banca ottiene una bella
fetta di quel reddito “altro” – ebbene sì –
dalle “attività inanziarie di trading”. In s  stanza, il volume di tradingdella Wells Fargo fa pensare che la banca non sia afatto
quello che sembra.
Alcuni analisti sostengono che queste
cifre relative allo scambio di titoli siano poca cosa rispetto agli introiti complessivi della banca (81 miliardi nel 2011) e ai suoi proitti (16 miliardi, sempre nel 2011). Altri osservatori non si prendono neanche la briga
di guardare questi dettagli, perché danno
per scontato che i suoi 148 miliardi di dollari di riserve di capitale la proteggano dai rischi. Una cifra simile, presupponendo che
sia rea le, può far apparire insignificante
qualsiasi perdita. Per esempio, sepolta in
fondo a pagina 164 del rapporto annuale c’è
questa dichiarazione: “Nel 2011 abbiamo
subìto una perdita di 377 milioni di dollari
con la compravendita di derivati collegati a
certe cdo”, cioè le collateralized debt obligation. Solo qualche anno fa una perdita a nove zeri dovuta a questo tipo di complessi
strumenti inanziari sarebbe inita sulle prime pagine dei giornali. Ma in questo caso
nessuno ne ha parlato, neanche i grandi investitori, gli analisti e gli esperti di inanza.
Forse non erano arrivati a pagina 164. O
forse, ormai, sono abituati a perdite ben più
sostanziose e questa non gli è sembrata importante.
Qualunque sia stato il motivo, la perdita
della Wells Fargo a causa dei derivati cdo è
stata come un albero da diverse centinaia di
milioni di dollari caduto senza rumore nella
foresta della inanza. Parafrasando una famosa battuta del senatore Everett Dirksen,
377 milioni qui e 377 milioni là, prima o poi
diventeranno cifre serie.
Scommesse complicate
Oggi le operazioni di borsa delle banche si
basano più che in passato su denaro preso in
prestito. Fanno anche leva sulla promessa
di pagare in futuro se le cose non andranno
come dicono loro. Queste promesse assumono la forma di derivati, strumenti inanziari che possono essere usati per proteggersi da vari rischi – come l’eventualità di un
aumento dei tassi d’interesse o l’ipotesi che
un’azienda non sia in grado di pagare i suoi
debiti – o semplicemente per scommettere
su quelle stesse possibilità, sperando di
guadagnarci.  Dato  che  molte  di  queste
scommesse sono ingenti e complicate, le
operazioni di borsa possono provocare perdite catastroiche.
Un altro aspetto interessante è l’attività
cosiddetta di  hedging(copertura), un’etichetta che può suonare rassicurante. La
Wells Fargo dice che nel 2011 ha perso una
cifra relativamente piccola come un milione di dollari in operazioni di hedging. Forse
non c’è di che preoccuparsi neanche in questo caso. Nella sua forma più pura l’hedging
dovrebbe ridurre i rischi: è come comprare
una casa e poi coprire il rischio d’incendio
sottoscrivendo una polizza assicurativa.
Nel mondo della inanza, però, la faccenda
è più complicata, tanto da dover ricorrere a
complesse operazioni matematiche e a modelli computerizzati, per poi tirare più o meno a indovinare. È diicile prevedere in che
modo un portafoglio di complessi strumenti inanziari reagirà a variabili come i tassi
d’interesse e all’altalena del prezzo delle
azioni. Di conseguenza le coperture non
funzionano sempre come dovrebbero. A
volte non riescono a tamponare del tutto i
grossi rischi che le banche pensavano di
aver provveduto a evitare. E inavvertitamente possono creare nuovi rischi imprevisti o, se volete, “cose che non si sapeva di
non sapere”. A causa di tutta questa complessità alcuni operatori di borsa mascherano certe operazioni di carattere speculativo
da “attività di copertura”. Sostengono che il
loro scopo è ridurre i rischi, mentre in realtà
aumentano il livello di rischio per guadagnare di più. Sembra che gli operatori del
chief investment oicedella JPMorgan abbiano fatto proprio questo. Le attività di copertura della Wells Fargo
erano una forma di assicurazione? O invece speculazioni come
quelle della JPMorgan? Le cifre
che compaiono nel rapporto possono far pensare che siano stati ridotti i rischi mentre in realtà è vero il contrario?
Dalle dichiarazioni della banca non si capisce.
Inine siamo arrivati a una terza etichetta, dietro la quale si nasconde decisamente
qualcosa. Sembra piuttosto innocua: “Servizi alla clientela”. Nel 2011 la Wells Fargo
ha guadagnato più di un miliardo di dollari
con i servizi alla clientela. Come ha fatto a
incassare così tanto assistendo i suoi clienti
nella compravendita di titoli? Non cercate
una spiegazione nel rapporto annuale. Questa è la deinizione che ne dà la banca: “I
servizi alla clientela consistono in una serie
di transazioni di titoli o derivati efettuate
per assistere i clienti nella gestione dei rischi sul mercato azionario e sono forniti in
base alle loro necessità d’investimento”.
Può sembrare rassicurante, ma il rapporto
non spiega perché questa attività dovrebbe
essere tanto remunerativa. In molte grandi
banche, in realtà, i servizi alla clientela sono
un eufemismo per indicare un “forte acquisto di derivati”. Per la Wells Fargo, alla ine
del 2011 la sottocategoria “servizi alla clientela, compravendita di titoli e altri derivati
liberi” comprendeva l’acquisto di derivati
per circa 2.800 miliardi di dollari di “valore
nominale”. Il che, in parole povere, signiica
che se dovessimo scommettere con voi su
quanto  varierà  quest’anno  il  prezzo  di
un’azione della Walmart da 70 dollari – se
aumenta paghiamo noi, se diminuisce pagate voi – diremmo che il “valore nominale”
della scommessa è 70 dollari.
Ovviamente la Wells Fargo non si aspetta di guadagnare o perdere 2.800 miliardi
di dollari sui suoi derivati più di quanto noi
non ci aspetteremmo di guadagnarne o perderne 70 scommettendo sulle azioni della
Walmart. Le banche di solito partono dal
presupposto che le probabilità di guadagno
o di perdita sui derivati siano molto più basse del loro “valore nominale”, e la Wells
Fargo dice che il concetto “in sé non è un
metro di misura signiicativo del proilo di
rischio degli strumenti”. Sostiene anche
che molti dei suoi derivati si compensano a
vicenda, come se da una parte scommettessimo che le azioni della Walmart saliranno
e dall’altra che scenderanno.
Ma come ha scoperto nel 2008 chi investiva in titoli bancari, se le cose vanno male
è possibile perdere una buona parte del
“valore nominale” di un derivato.
In futuro, se i tassi d’interesse dovessero salire alle stelle o l’euro
dovesse crollare, la Wells Fargo
potrebbe subire gravi perdite sui
derivati, come voi perdereste i 70
dollari che avete scommesso se la Walmart
fallisse. La Wells Fargo non dice agli investitori quanti di quei 2.800 miliardi di dollari potrebbe perdere nel peggiore dei casi e
non è tenuta a farlo. Perino l’investitore più
attento che legge le note a piè di pagina può
solo ipotizzare quale possa essere il livello
di rischio dei suoi derivati.
Uno dei motivi per cui la gente ha più iducia nella Wells Fargo che in altre grandi
banche è che il valore nominale dei suoi derivati è relativamente basso. Alla ine del
terzo trimestre del 2012 la JPMorgan aveva
72mila miliardi di valore nominale nei suoi
libri contabili, circa cinque volte l’intera
economia degli Stati Uniti. Ma anche ai livelli della Wells Fargo la cifra è così alta da
perdere signiicato e da mettere le sue rise  ve – 148 miliardi di dollari – in una luce completamente diversa.
Abbiamo chiesto ai suoi dirigenti se potevamo parlare con qualcuno delle sue note
informative, comprese quelle sulle operazioni di borsa e sui derivati. Ci hanno risposto di no, suggerendoci di presentare le nostre domande in forma scritta, cosa che
abbiamo fatto. Per tutta risposta, l’uicio
relazioni pubbliche ci ha scritto: “Riteniamo che le nostre note informative sulle
questioni che avete sollevato siano complete e soddisfacenti”. Per rispondere alle nostre domande sul rapporto annuale, ci hanno  praticamente  rimandato  al  rapporto
stesso. A proposito delle operazioni di borsa
della  banca,  per  esempio,  hanno  detto:
“Troverete la risposta alle pagine 80-81 della sezione analisi di gestione nel rapporto
annuale 2011”. Ma erano proprio quelle pagine che ci avevano spinto a porre domande
sui vari tipi di transazioni.
Quando abbiamo chiesto alla Wells Fargo di quantiicare i rischi associati ai servizi
alla clientela, i suoi rappresentanti ci hanno
rimandato alle stesse pagine. Ma quelle pagine non rispondono alla domanda. Oggi le
banche e gli enti di vigilanza sdrammatizzano quando qualcuno avverte che questo
tipo di operazioni potrebbe far crollare il
sistema inanziario. Ma in passato facevano
la stessa cosa con i  credit default swap(cds) e
con le  collateralized debt obligation.
La penultima tappa del nostro viaggio
attraverso il rapporto annuale della Wells
Fargo ci ha portato a uno degli aspetti più
importanti: il valore equo, proprio quello
che aveva spinto Don Young a concludere
che non poteva idarsi delle banche. Gli istituti di credito hanno una grande quantità di
attivi e passivi, compresi i derivati, e sarebbero  tenute  a  registrarli  al  loro  “valore
equo”. Equo in che senso? Ragioniamo. Come altre banche, la Wells Fargo usa una gerarchia a tre livelli per individuare il valore
equo dei suoi titoli. Il livello 1 è quello dei
titoli scambiati sui mercati pubblici, e non è
troppo preoccupante. Al livello 1 il valore
equo corrisponde semplicemente al prezzo
di un titolo. Se la Wells Fargo possiede obbligazioni o azioni scambiate alla borsa di
New York, ogni giorno il loro valore equo è
il prezzo alla chiusura delle contrattazioni.
Il livello 2 è un po’ più preoccupante.
Contiene entità più ambigue come i derivati e le mortgage backed security(mbs), titoli
garantiti da un insieme di prestiti ipotecari.
Non esistono mercati pubblici per questi
prodotti, che sono comprati e venduti privatamente e non compaiono nei listini di
borsa. Quindi la Wells Fargo usa altri metodi per calcolarne il valore equo, tra cui quelle che chiama “tecniche di valutazione basate su modelli come il matrix pricing”. A
livello 2 il valore equo è quello che un contabile deinirebbe benevolmente una “stima”,
basata su modelli statistici computerizzati
e sui cosiddetti fattori “osservabili”, come il
prezzo di prodotti simili o altri dati di mercato. A questo livello, perciò, il valore equo
è solo una ragionevole ipotesi.
Il livello 3 è terriicante. Le sue stime “si
basano essenzialmente su modelli che partono da fattori non osservabili nel mercato”.
In altre parole, non solo non esistono informazioni sul prezzo al quale questi prodotti
sono stati scambiati recentemente, ma neanche dati osservabili su cui basare le ipotesi. Il livello 3 contiene gli strumenti inanziari più esoterici, compresi i contratti derivati sui crediti e le cdo che erano così popolari e difuse al culmine della bolla immobiliare da riempire i libri contabili della Bear
Stearns, della Merrill Lynch e di molte altre
banche.
Al livello 3 le banche usano le loro supposizioni e informazioni interne. A questo
livello il valore equo è un’ipotesi neanche
tanto ragionevole. Senza dubbio, penserete, il patrimonio della Wells Fargo è conce  trato soprattutto al livello 1, con una piccola
parte al livello 2. In fondo è una semplice
banca commerciale, no? E sembra inconcepibile che sia ancora carica di investimenti
al livello 3 dopo che gli enti di vigilanza hanno ripulito le banche dai titoli tossici e le
hanno rimesse in salute.
Invece solo una piccola percentuale del
patrimonio della Wells Fargo è al livello 1.
La maggior parte è al livello 2. E ben 53 miliardi – più di un terzo delle sue riserve – a
livello 3. La banca rivela in una sobria nota a
caratteri minuscoli a piè di pagina 133 del
rapporto annuale che i suoi investimenti al
livello 3 comprendono “collateralized loan
obligation(clo) per un costo iniziale e un valore equo di 8,1 miliardi di dollari al 31 dicembre 2011”. In parole povere questo signiica che la Wells Fargo registra il valore
di alcuni dei suoi investimenti più complessi  (costituiti  da  pacchetti  di  prestiti  alle
aziende) esattamente al prezzo al quale li
ha pagati (il costo iniziale). Ma questi prodotti sono stati comprati un anno fa? Due
anni fa? Prima della crisi del 2008? Hanno
davvero mantenuto il loro valore? Secondo
Don Young è curioso che il valore equo e il
costo iniziale siano uguali. “Con tassi d’interesse molto più bassi di quelli che la maggior parte delle persone si aspettava, perché
il valore delle clo non è aumentato?”, si
chiede Young. Ma è il primo ad ammettere
che,  senza  maggiori  informazioni  sulla
composizione dei pacchetti e su quando sono stati comprati, dall’esterno è impossibile
stabilire quanto valgono.
Esiste  anche  un  cerchio  più  basso
dell’inferno della inanza: quello popolato
da mostri che un tempo erano chiamati special purpose entity(spe). Erano i famigerati
trucchi contabili che la Enron usava per nascondere i suoi debiti. Supponiamo che
un’azienda possieda una fetta – anche una
minima percentuale – del capitale di un’altra società che è carica di debiti. La prima
può dire di non essere tenuta a includere
tutti gli attivi e passivi della seconda nel suo
bilancio. Se noi possedessimo alcune azioni
della Ibm, non saremmo responsabili di
tutti i suoi debiti.
Ma se avessimo così tante azioni da controllarla o avessimo stretto un accordo collaterale che ci rende responsabili del suo
debito, il buon senso ci imporrebbe di considerare i debiti della Ibm come se fossero
nostri. Dieci anni fa molte aziende, compresa la Enron, usavano queste entità per
aggirare il buon senso e tenere i debiti e le
perdite fuori dei loro bilanci, anche quando
ne avevano il controllo o avevano stretto un
accordo collaterale  Oggi, come in un ilm dell’orrore, le spe
sono resuscitate e si chiamano  variable interest entity (vie). Nel lessico di Wall street le
special purpose entitysono diventate variable interest entity, ma la sostanza è la stessa.
Le grandi aziende creano queste entità per
prendere in prestito denaro e comprare titoli ma, come la Enron, non le includono
nei loro bilanci. La cosa è particolarmente
preoccupante per quanto riguarda le banche: tutte hanno notevoli quote di variable
interest entity. Alla ine del 2011 la Wells Fargo riportava un “significativo coinvolgimento” in variable interest entityper un totale di 1.460 miliardi di dollari. Il “rischio
massimo di perdita”, sostiene la banca, è
molto più basso, ma comunque signiicativo: circa sessanta miliardi di dollari, più del
40 per cento delle sue riserve. La banca dice che la probabilità di incorrere in queste
perdite è “estremamente remota”. Lo speriamo bene. Abbiamo chiesto alla Wells
Fargo di spiegarci meglio questo punto, ma
i suoi rappresentanti ci hanno rimandato di
nuovo al rapporto annuale.
I due pilastri
Sull’onda della recente crisi inanziaria, il
governo statunitense ha deciso di attribuire
agli enti di vigilanza più potere di controllo
sui mercati. Secondo alcuni esperti, però, il
sistema bancario ha bisogno anche di ulteriori capitali. Altri invocano il ritorno alla legge GlassSteagall del 1933 per frenare la
speculazione o propongono un
frazionamento delle grandi banche. Questo tipo di riforme potrebbe essere
utile, ma nessuna risolverebbe del tutto il
problema della mancanza di trasparenza e
i comportamenti scorretti che consente.
Il punto di partenza di qualsiasi soluzione ai problemi delle banche dovrebbe essere ricostruire i due pilastri della regolamentazione eretti dal congresso statunitense
nel 1933 e nel 1934 dopo la crisi del 1929. In
primo luogo servirebbe un sistema di rendicontazione più chiaro, che la Wells Fargo e
tutte le sue sorelle dovrebbero rispettare. In
secondo luogo, i dirigenti che ingannano
consapevolmente gli investitori o commettono altre frodi e abusi dovrebbero correre
davvero il rischio di essere puniti. Fino agli
anni ottanta le regole erano poche ma molto generali, e si basavano sul buon senso. Le
banche commerciali non potevano svolgere
le attività delle banche d’investimento e dovevano avere un ragionevole capitale di riserva. Inoltre non potevano correre rischi
eccessivi. Non tutti gli istituti inanziari rispettavano le regole, ma molti banchieri
che avevano sbagliato sono stati processati
e puniti. Da allora, invece, le regole sono
aumentate a dismisura, le giustiicazioni
per il loro mancato rispetto sono diventate
sempre più tecniche, e le punizioni sono
state rare e poco signiicative. Le multe sono irrisorie rispetto ai proitti delle banche.
Nell’estate del 2012 Andrew Haldane, il
direttore esecutivo per la stabilità inanziaria della Banca d’Inghilterra, ha proposto
una revisione delle norme a livello internazionale. Haldane è partito dall’osservazione che il pacchetto di regole denominato
Basilea I (approvato dalle banche centrali di
tutto il mondo nel 1988) era di sole diciotto
pagine negli Stati Uniti e di tredici nel Regno Unito. Le regole per la nota informativa
si basavano su uno statuto che essenzialmente consisteva in un’unica frase. Il Basilea II, approvato nel 2004, era di 347 pagine. La sola documentazione per il nuovo
Basilea III ha già raggiunto le 616 pagine. E
la normativa federale statunitense in materia di informativa è ancora più lunga. Negli
anni trenta il rapporto di una banca alla Federal reserve comprendeva in genere un’ottantina di voci. Nel 2011, ha osservato Haldane, i rapporti trimestrali alla Fed richiedevano un foglio di lavoro a 2.271 colonne.
La legge sulle attività inanziarie GlassSteagall del 1933, che secondo Haldane è
stata forse “la più inluente del
ventesimo secolo”, non superava
le 37 pagine. La Dodd-Frank del
2010, invece, era di 848 pagine e
aveva imposto agli enti di vigilanza la formulazione di tante nuove
norme (non deinite in dettaglio dalla legge
stessa) che alla ine sarebbe potuta arrivare
a trentamila pagine di sottigliezze legali.
“La Dodd-Frank fa apparire la Glass-Steagall un semplice colpo di tosse”, ha detto
Haldane. E se i legislatori e gli enti di vigilanza smettessero di formulare norme dettagliate da applicare a fatti avvenuti e stabilissero invece standard di condotta generale da rispettare prima che i fatti accadano?
Pensiamo, per esempio, a una delle battaglie più accanite scoppiate durante la stesura della Dodd-Frank, quella sulla “regola di
Volcker”, che prende il nome dall’ex presidente della Fed Paul Volcker. Lo scopo della
proposta era di impedire alle banche di sp  culare se hanno depositi tutelati a livello
federale. Ma dietro costante pressione delle
lobby bancarie, il congresso statunitense ha
scritto una norma complicatissima, alla
quale gli enti di vigilanza hanno aggiunto
ulteriori complicazioni, cercando di tener
conto di tutte le possibilità. A due anni e
mezzo  dall’approvazione  della  DoddFrank, la regola di Volcker non ha ancora
assunto la sua forma deinitiva. Allo stato
attuale solo un piccolo numero di avvocati
dei maggiori studi legali del mondo è in grado di capirla. Il congresso e gli enti di vigilanza statunitensi avrebbero potuto concepire qualcosa  di più  semplice, tipo: “Le
banche non possono efettuare operazioni
di proprietary trading(attività speculative
svolte dalle banche con i loro fondi, non per
conto di clienti)”. Punto.
A livello giudiziario, la cosa da dimostrare nei processi per frode bancaria no  dovrebbe più essere l’intenzione, che obbliga i giudici a entrare nella testa dei banchieri, ma la spericolatezza, che è meno diicile
da provare dell’intenzione ma più diicile
da dimostrare della colpa. Lo scopo di questa modiica sarebbe di impedire ai banchieri di nascondersi dietro il gergo legale.
In altre parole, anche se non hanno intenzionalmente violato la legge e avevano giustiicazioni tecniche per la loro condotta,
possono comunque essere accusati di aver
fatto qualcosa che una persona ragionevole
al loro posto non avrebbe fatto. I manager
delle banche dovrebbero poter essere processati  come  i  dirigenti  di  altri  settori
dell’economia. Quando un amministratore
delegato ha in mano una penna e sta per irmare la dichiarazione secondo cui il rendiconto inanziario della sua banca è accurato
ed è stato adeguatamente controllato, dovrebbe fermarsi a pensare che tra le conse  guenze del suo gesto potrebbe esserci il
carcere. Se i direttori e i funzionari fossero
costretti a calcolare tutti i rischi che corre il
loro istituto, a rivelarli chiaramente e a prepararsi a essere puniti se le informazioni
sono inadeguate, forse potremmo cominciare a costruire una cultura della responsabilità.
Una banca intenzionata a rispettare i
princìpi che abbiamo esposto non avrebbe
bisogno di pubblicare un rapporto di 236
pagine più le appendici: ne basterebbe uno
lungo un decimo. Un lettore che è riuscito
ad andare oltre l’introduzione del rapporto
annuale della Wells Fargo potrebbe leggerlo ino alla ine. In teoria anche un lettore
non particolarmente esperto dovrebbe essere in grado di capire quanto la banca può
guadagnare o perdere nel peggiore dei casi
se, per esempio, il prezzo degli immobili
cala del 30 per cento o se la Spagna fallisce.
Per quanto riguarda i dettagli, le banche potrebbero fornirli volontariamente sul loro
sito web per permettere agli investitori più
navigati di decidere se le loro dichiarazioni
generali sono corrette.
È solo una fantasia? I cambiamenti che
abbiamo proposto sono diicili da introdurre per motivi politici (e cosa non lo è oggi?).
Ma se si facesse sufficiente pressione, le
banche potrebbero accettare un accordo:
regole più semplici se si impegnano a rispettarle sul serio. Dopo tutto, queste modiiche sarebbero nel loro interesse. Le banche devono poter convincere gli operatori
più esperti che sono di nuovo “investibili”.
Altrimenti, gli investitori continueranno a
preoccuparsi di quale sarà la prossima JPMorgan o Lehman Brothers. In questo modo non solo gli azionisti capirebbero meglio
gli afari delle banche, ma i loro dirigenti
sarebbero più incentivati a rispettare le norme etiche.
Ma forse c’è un lato positivo nella perdita di iducia degli investitori. Se si aggiunge
all’indignazione generale, la delusione dei
grandi investitori potrebbe innescare un
vero cambiamento. Senza una mobilitazione  simile,  continueremo  tutti  a  restare
all’oscuro, senza capire quello che fanno le
banche e senza avere nessuna iducia in loro. E la cancrena si difonderà.    GLI AUTORI
Frank Partnoyè professore di diritto e
inanza all’università di San Diego.
Jesse Eisingerè un giornalista di
ProPublica. Nel 2011 ha vinto il premio
Pulitzer insieme a Jake Bernstein per una
serie di inchieste sulle attività delle banche
di Wall stre

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