giovedì 13 novembre 2014

993 - Sc ermi omolog ati Aurélie Godet, Cahiers du cinéma, Francia

N
el Regno Unito l’industria
del cinema è malata. Hollywood ha tessuto la sua tela
e, se i blockbusterfanno incassare  a  qualcuno  buoni
guadagni, il cinema indipendente sofre. Se
anche le sale d’essai mettono da parte la loro programmazione abituale per lasciare
spazio a Skyfall(record storico al botteghino britannico), il pubblico accorre, manifestando un sempre più pericoloso allontanamento dal cinema d’autore. Le delusioni
bruciano ancora, dal discorso sui risultati
del cinema, pronunciato nel gennaio 2012
dal premier David Cameron, alla sua decisione di chiudere il Film council britannico,
che era stato creato nel 2000 per favorire il
inanziamento del cinema nazionale e la
formazione dei suoi addetti. Il British ilm
institute (Bfi), che si è trovato a portare
avanti la missione del defunto Film council,
difonde un comunicato ottimista, in cui
però c’è molto da leggere tra le righe. Il settore è in buona salute (leggera crescita dello
0,5 per cento in un 2012 da record), ma quasi del tutto occupato dai  blockbuster. Il cinema statunitense rappresenta da solo il 60
per cento circa degli incassi al botteghino,
ma anche il valore del cinema nazionale (38
per cento nel 2012) è dato da produzioni
anglo-americane come Skyfall, Il cavaliere
oscuro, Prometheus e War horse. Non resta
molto per il cinema indipendente, soprattutto se gli si toglie pure il sostegno delle
istituzioni.
Il Regno Unito è stato il paese in cui è
avvenuta in tempi più brevi la transizione al
digitale, accompagnata dal 2010 da un fondo pubblico, il Digital screen network. Pilotato dal Film council, questo fondo ha inanziato l’equipaggiamento delle sale in
cambio del loro impegno a inserire nella
programmazione i ilm indipendenti. Queste promesse erano tuttavia limitate nel
tempo, e appena inita la fase di sorveglianza le leggi del mercato hanno ripreso il sopravvento, ancora più impunemente dato
che il Film council è stato soppresso.
James Wood, direttore della programmazione per i cinema Curzon, fa parte degli
scettici: “Le catene di multisala non si preoccupano di diversiicare la programmazione, pur avendo ricevuto soldi pubblici per
passare al digitale”. Eve Gaberau, alla testa
di Soda Pictures, distributore indipendente, parla di un anno difficile: “Skyfallha
eclissato tutto il resto. Noi abbiamo fatto
uscire lo stesso giorno L’enfant d’en haut di
Ursula Meier. Il suo ilm precedente si era
ricavato un suo pubblico, ma stavolta non
ce l’ha fatta. Conosco un cinema d’essai che
ha programmato Skyfall nelle sue due sale!
Tutti hanno cercato di sfruttare la popolarità del ilm”.
La geografia della distribuzione indipendente è ugualmente segnata da contrasti: si concentra su Londra e qualche polo
universitario, Oxford, Cambridge, Edimburgo ma anche Dublino. Londra rappre senta ino al 75 per cento degli incassi dei
ilm d’autore (simile al peso di Parigi per i
piccoli ilm). “Diicile andare a cercare un
pubblico al di fuori di queste città”, spiega
Jezz Vernon, responsabile della distribuzione della Metrodome. Per Cedric Behler,
cofondatore di Trinity Films: “C’è una vasta
zona d’ombra: il nord dell’Inghilterra, dove
nessuno si interessa ai ilm indipendenti”.
Guerriglia della distribuzione
Servirebbe una strategia commerciale simile alla guerriglia. I piccoli distributori
fanno a gara a chi si inventa le migliori trovate di marketing. I ilm francesi hanno un
loro seguito, ma promuovere una pellicola
sottotitolata nel Regno Unito ha qualcosa di
eroico. Si può aspirare, nel migliore dei casi,
ad arrivare al traguardo del milione di sterline al botteghino (circa 160mila ingressi),
raggiunto da alcuni ilm di Almodóvar o di
Audiard (Il profeta). Per quanto riguarda la
stampa, è soprattutto la critica del Guardian
ad avere un peso, in particolare le recensioni del suo giornalista star Peter Bradshaw.
Le altre testate (il Daily Telegraph, il Sunday Times o il Times) contribuiscono soprattutto a collezionare le stelline che appaiono sui manifesti del ilm o sulla custodia
del dvd.
In Gran Bretagna la distribuzione in sala
dipende molto dalle vendite di video, che
possono rappresentare ino all’80 per cento
dei guadagni di un ilm. L’uscita in sala non
è che la punta dell’iceberg della carriera di
un lungometraggio.
L’uscita di alcuni film  direct-to-video,
ovvero che non passano nelle sale ma si
vendono direttamente in dvd, è una delle
strategie usate per fare cassa. Ma anche su
questo fronte si registrano segnali d’allarme. La recente chiusura di Hmv, la principale catena britannica per la vendita di dischi, dvd e prodotti elettronici (240 punti
vendita e quattromila impiegati), ha avuto
conseguenze dirette e immediate sul inanziamento della distribuzione indipendente,
privandola di un segmento importante dei
suoi guadagni nel settore home video. I
grandi magazzini si limitano a ofrire i ilm
delle major, mentre un negozio specializzato come Hmv poteva arrivare a rappresentare il 75 per cento delle vendite di un ilm
indipendente o straniero. E le vendite online non compensano il crollo di quelle nei
negozi. “La bancarotta di Hmv avrà l’efetto
di polarizzare ancora di più il mercato britannico”, nota Cedric Behrel. In gioco c’è la
sopravvivenza dei piccoli distributori.
In genere gli operatori del settore rispettano consensualmente la inestra di quattro
mesi che intercorre tra l’uscita in sala e
quella in dvd. Ma le eccezioni sono sempre
più tollerate. “Le multisala sono rigide nelle
contrattazioni, ma tendono a chiudere un
occhio per le piccole produzioni”, spiega
Clare Binns. Artiicial Eye, che come Picturehouse ha la particolarità di occuparsi di
distribuzione e home video, è andato oltre,
elevando a norma le uscite day-and-date
(sala e dvd simultaneamente). “È il solo
modo per permettere alle persone che non
vivono nelle grandi città di vedere ilm come Holy motors o  Alps al momento della loro
uscita. Il prezzo è comparabile a quello del
biglietto del cinema”, commenta Louisa
Dent, direttrice di Artiicial Eye, il reparto
di distribuzione della Curzon. “C’è chi si
oppone, ma gli spettatori devono poter vedere un ilm quando e come vogliono”.
Jason Wood è più pessimista. Proprio
mentre conferma che Curzon registra alcuni successi, più o meno modesti (il ritorno
nelle sale di Chinatowno il trionfo londinese di Amour), lancia un appello disperato:
“Che futuro vogliamo per questa industria
nel nostro paese? Dobbiamo chiedercelo
prima che sia troppo tardi. Il solo modo di
evitare la catastrofe è una vera presa di coscienza, non solo da parte degli operatori
del settore, ma anche degli spettatori, che
devono assumersi le loro responsabilità. La
loro assenza equivale a una capitolazione”.
La profezia è particolarmente inquietante,
dato che le sale Curzon possono rappresentare ino all’80 per cento della difusione
per un ilm indipendente. Questo appello
alla responsabilità chiama in causa tutti i
paesi, anche quelli in cui il pubblico considera la diversiicazione dell’oferta scontata, e non si accorge della lenta ma inesorabile omologazione. u  n

993 -- Caccia alle streghe Jo Chandler, The Global Mail, Australia Foto di Vlad Sokhin La ricchezza ottenuta dalle risorse minerarie non tocc a la maggioranza della popolazione della Papua Nuova Guinea, che rimane legata a tradizioni del passato. E crede alla magia nera

S
tanno per cucinare la
sanguma  mama!”.  Il
grido è arrivato da un
gruppo  di  bambini
che correvano accanto alla clinica, costruita in una valle tra le montagne della Papua
Nuova Guinea. Suor Gaudentia Meier, 74
anni, è nata in Svizzera e fa l’infermiera. Ha
lasciato le Alpi da più di quarant’anni, e da
allora tutti i giorni cuce le ferite e cura le
malattie di una popolazione dimenticata
dal mondo. È quasi ora di pranzo, fa notare.
Suor Gaudentia ha capito subito perché i
bambini corrono. Stanno andando a vedere
il rogo di una strega.
Nelle  850  lingue  della  Papua  Nuova
Guinea la magia nera ha tanti nomi, e su
queste montagne sangumaè tra quelli che
ricorrono più spesso. La suora, che ha un
brutto presentimento, raccoglie in fretta e
furia un gruppetto di collaboratori, li carica
su un’auto e segue la folla. Due giorni fa ha
provato a salvare Angela (il nome è inventato), una presunta strega, dalle grinie di una
banda di spietati inquisitori in cerca di un
capro espiatorio per la morte di due ragazzi.
L’avevano spogliata, bendata, ricoperta di
insulti e seviziata a colpi di machete. Legata
e inerme, l’avevano fatta salire su un banco
degli imputati improvvisato, una lastra arrugginita di onduline di ferro. Le foto scattate con il cellulare da un testimone mostrano che in mezzo al capannello di spettatori
immobili c’erano diversi poliziotti in divisa.
In Papua Nuova Guinea, paese del Paciico
a pochi chilometri dalla costa settentrionale dell’Australia, l’80 per cento degli oltre
sette milioni di abitanti vive in comunità
rurali e isolate. Molti non hanno accesso ai
servizi sanitari e scolastici di base e sopravvivono consumando o vendendo i prodotti
dell’orto. Le strade sono poche, ma una rete
iorente di ripetitori telefonici e cellulari a
buon mercato li tiene collegati al mondo.
Sempre che riescano ad attaccarli alla corrente e a scroccare un po’ di credito.
Il paese, ricco di risorse, è nel pieno di
un boom dell’attività estrattiva, ma il benessere non arriva alla maggioranza dei
papuani. In queste realtà, rimaste isolate
dal mondo esterno ino a un paio di generazioni fa, il pensiero tradizionale non ammette l’idea che la morte possa avvenire per
cause naturali, malattie o incidenti. È sempre colpa della magia nera. “Quando qualcuno muore, soprattutto se è un uomo, la
gente si chiede ‘di chi è la colpa’, non ‘perché’”, spiega Philip Gibbs, sacerdote cattolico, antropologo ed esperto di stregoneria
che vive da molti anni in Papua Nuova Guinea.
Nel 2012, al termine di un’inchiesta durata due anni, la commissione nazionale
per la riforma della costituzione e del diritto
ha concluso che in Papua Nuova Guinea è
molto difusa la credenza secondo cui la
stregoneria e gli incantesimi sarebbero la
causa di malattie e morti premature. Anche
molti papuani istruiti che vivono nelle città
credono alla stregoneria. Ma, come spiega
il direttore del quotidiano nazionale Post
Courier, Alexander Rheeney, la maggior
parte della gente che vive in città o nelle
campagne prova “paura e ribrezzo” di fronte ai linciaggi e agli atti di crudeltà come
quello al quale stava per assistere suor Gaudentia.
Gli accusatori di Angela – ragazzi arrivati da un’altra città e sotto l’efetto dei potenti stupefacenti degli altopiani e dello steam
(un liquore fatto in casa) – erano tornati a
riprenderla. Gaudentia sospettava che fossero gli stessi che avevano torturato una
giovane donna curata da lei qualche mese
fa. La ragazza si era trascinata ino alla clinica con i genitali bruciati e irreparabilmente deformati per il ripetuto inserimento di
ferri roventi.
L’idea di una squadra di torturatori seriali a caccia di streghe non si sposa con la
spiegazione, fornita dagli antropologi, delle
tradizionali “rivalse” contro la stregoneria
in alcune zone della Papua Nuova Guinea.
Le aggressioni, di solito, sono iniziative
spontanee di famiglie in lutto ispirate dal desiderio di vendetta e dalla paura che la
magia nera possa tornare a colpire. Ma, ammettono gli esperti, in Papua Nuova Guinea
ci sono sempre eccezioni alla regola. Tra i
più variegati mosaici etnici del mondo, la
Papua Nuova Guinea disorienta chi viene
da fuori e, mentre gli esploratori contemporanei provano a dare contorni precisi alla
storia passata, il paese cambia davanti ai
loro occhi.
Mano a mano che le atrocità legate alla
stregoneria trovano spazio sui mezzi d’informazione, nei forum delle Nazioni Unite
e nelle inchieste sui diritti umani, cresce il
timore che questo terrorismo sociale stia
cambiando pelle. Le aggressioni alle presunte streghe sembrano aver rotto i conini
tradizionali per difondersi anche in comunità dove prima non esistevano. Nonostante la mancanza di dati e il sospetto che solo
una parte dei casi sia stata efettivamente
documentata, secondo la relazione sugli
attacchi contro la stregoneria redatta nel
2012 dalla commissione per la riforma del
diritto, questo fenomeno è in crescita in
dagli anni ottanta. Si stimano circa 150 casi
di violenze e omicidi all’anno nella sola provincia di Simbu, un territorio selvaggio e
primitivo, noto per la coltivazione del cafè,
sull’accidentata dorsale del paese. Le cifre
variano ma, da una serie di rapporti pubblicati da agenzie delle Nazioni Unite, da organizzazioni come Amnesty international
e Oxfam e da diversi antropologi, emerge in
modo inequivocabile che le aggressioni a
presunti maghi e stregoni – qualche volta
uomini, ma quasi sempre donne – sono frequenti, feroci e il più delle volte mortali.
Il trauma del cambiamento
Il dottor Richard Eves, antropologo della
Australian national university, è un esperto
di Papua Nuova Guinea che sta organizzando una conferenza sul tema che si terrà a
giugno a Canberra. Secondo il cliché della
letteratura antropologica, spiega Eves, l’inluenza della magia e dell’incantesimo su
una società tende a scomparire con l’arrivo
della modernità, come è successo in Europa e in Nordamerica. Ma sembra che questo
non stia accadendo in Melanesia, e soprattutto in Papua Nuova Guinea. Gli studi, i fatti, mostrano che in alcuni luoghi questa
tradizione assume  contorni sempre più maligni, sadici e voyeuristici, alimentati da
una miscela esplosiva: l’inluenza di alcol e
droghe, la rabbia disperata di una gioventù
allo sbando, il rovesciamento dell’ordine
sociale provocato dal rapido sviluppo e dalla corsa frenetica all’accaparramento delle
risorse, l’arrivo dei soldi e della concorrenza, l’esasperazione nelle campagne per i
cattivi collegamenti stradali, il ruolo della
scuola e della sanità nell’emancipazione
delle donne dalla loro tradizionale condizione di silenzio – e il risentimento cupo,
spesso brutale, degli uomini, incapaci di
trovare il loro posto in uno scenario in grande trasformazione.
“Vivo  in  Papua  Nuova  Guinea  dal
1969”, dice suor Gaudentia. “La sanguma
c’è sempre stata, ma non ai livelli estremi di
oggi”. Anche secondo Gibbs, che ha scritto
molto sull’argomento, la brutalità è aumentata. “Un tempo buttavano la gente dai dirupi o cose simili. Si moriva lo stesso, ma
senza la tortura. Gli interrogatori e i processi pubblici in presenza dei bambini ormai
sono diventati uno spettacolo”. Il primo
giorno dell’ordalia di Angela, suor Gaudentia aveva chiesto ai poliziotti presenti di intervenire. Perché la polizia e i leader della
comunità non fanno niente? “Anche volendo, possono fare poco di fronte alle folle
inferocite, soprattutto se ci sono giovani
maschi sotto l’effetto di alcol e droghe”,
spiega Gibb Le forze di polizia papuane sono sottopagate, a corto di uomini e male addestrate,
oltre che notoriamente corrotte e violente.
Molti di loro credono alla stregoneria e alcuni considerano legittimi gli interrogatori
come quello di Angela. Questa posizione,
secondo qualcuno, è incoraggiata dalla discussa legge sulla stregoneria del 1971, che
riconosce l’esistenza della stregoneria e punisce penalmente sia chi la pratica sia le
aggressioni contro i presunti stregoni.
Durante il primo giorno del “processo”,
Angela è stata torturata, umiliata e interrogata. In un’assurda parodia di un tribunale,
è stata prima accusata di aver provocato le
morti, poi invitata a fare il nome della vera
strega (“kolim nem, kolim nem”, “dì il nome”, gridava la folla). A un certo punto, soprafatta dalla disperazione, ha gridato il
nome di un’altra donna, ma i suoi accusatori l’hanno ignorata. Per motivi non molto
chiari l’hanno lasciata andare, e il giorno
dopo suor Gaudentia ha saputo che era stata portata al commissariato di polizia, uicialmente  per  proteggerla.  La  suora  ha
chiesto di vedere Angela ma la cella era
chiusa e nessuno riusciva a trovare la chiave. “Ho pensato fosse al sicuro”. Poi, a un
certo punto, le hanno detto che l’avevano
rilasciata e che i suoi aggressori avevano
irmato una dichiarazione in cui promettevano di lasciarla in pace. Il giorno dopo,
all’ora di pranzo, la suora ha sentito il coro
agghiacciante dei bambini dalla finestra
della clinica. “Ho lasciato l’auto in cima alla
strada e siamo scesi al villaggio. O almeno
ci abbiamo provato”, racconta. C’era così
tanta gente che non si riusciva a passare.
“Perciò sono tornata alla macchina e sono
andata al commissariato per denunciare
che la stavano torturando un’altra volta. Al
che il comandante mi ha detto: ‘Non possiamo fare niente. Hanno promesso che
non l’avrebbero toccata’”.
Suor Gaudentia è risalita in macchina
ed è tornata al villaggio, portando con sé un
sacerdote. Questa volta si è fatta strada a
forza. “Ci saranno state 600 persone che
guardavano, uomini, donne e bambini”.
Angela era nuda, legata con le braccia e le
gambe divaricate su una pedana e bendata
accanto a una tanica in iamme. Il fatto di
non poter vedere aumentava la paura e il
senso di impotenza – il fumo in gola, le vampate del fuoco su cui i ferri venivano arroventati per poi ustionarla. L’avrebbero arsa
viva? Di certo sapeva che era già successo
ad altre donne. Presto sarebbe successo di
nuovo e le immagini avrebbero fatto il giro
del mondo.
Le fotografie delle torture di Angela
scattate dai testimoni sono raccapriccianti,
sia per la ferocia degli aggressori sia per
l’evidente passività degli spettatori. Uomini e donne dal volto di pietra e bambini con
gli occhi spalancati si accalcano sotto gli
ombrelli, riparandosi dall’aria umida delle
montagne mentre Angela si contorce tra le
catene, cercando di allontanarsi dal ferro
rovente che un ragazzo accosta ai suoi genitali.
Le superstiti
Angela ha quasi cinquant’anni e un bambino piccolo, spiega Philip Gibbs, che ha raccolto la sua testimonianza e quella di alcuni
presenti. Come molte vittime delle aggressioni e degli omicidi legati alla stregoneria
su queste montagne, vive ai margini della
comunità. Non ha un marito né un parente
a proteggerla. Secondo le usanze locali, una
donna quando si sposa abbandona la famiglia di provenienza e se il marito muore, se
ne va o la maltratta, si ritrova “in terra straniera”, senza riferimenti. Come Gibbs ha
documentato nei suoi libri, analizzando la
dinamica tra accusatori e accusati, “quando una famiglia si convince che la morte
non è avvenuta per cause naturali e cerca
un capro espiatorio, molto spesso punta il
dito su una donna che non ha fratelli inluenti nella comunità o igli nel pieno delle
forze”.
Sentendo le urla di Angela, suor Gaudentia ha provato a gridare, un po’ intimando agli inquisitori di fermarsi, un po’ scongiurandoli (li chiama i “ marijuana boys”) .
“Mi hanno trattenuta e mi hanno impedito
di raggiungerla”, racconta. Secondo la successiva ricostruzione di Gibbs, la suora ha
corso seri rischi: i torturatori hanno provato
a bruciare anche lei. Forse è stata la sua pelle chiara a salvarla. Veriicata l’impossibilità di mettere fine ai tormenti di Angela,
suor Gaudentia ha radunato i collaboratori
della clinica e si è rivolta alla folla. “Chi è
cattolico? Venite qui, reciteremo il rosario”.
Sullo sfondo della preghiera, i tormenti di
Angela creano un tragico contrasto tra le
consolazioni rituali di un sistema di valori e
le atrocità dell’altro.
“È arrivato un uomo da un altro villaggio e ci ha accompagnati in auto alla polizia.
Ancora una volta li abbiamo pregati di intervenire”, ricorda la suora. Era ancora al
commissariato mentre Angela veniva seviziata con il machete. Aveva cominciato a
piovere forte. Chissà, magari la pioggia
avrebbe un po’ stemperato la ferocia. Magari la polizia sarebbe intervenuta davvero.
Solo verso le cinque del pomeriggio, più di
quattro ore dopo l’aggressione, i “marijuana boys” hanno lasciato andare Angela.
Quando è arrivata sua madre, una signora
anziana, se la sono presa anche con lei,
spezzandole una gamba e il bacino. Più tardi un’auto della polizia ha accompagnato
Angela e la madre alla clinica di suor Gaudentia. “Le abbiamo curate. Arrivava gente
e ci chiedeva di portare fuori le donne, ma
noi ci siamo riiutati”. La folla è aumentata
e ha cominciato a gridare e a tirare sassi verso il tetto della clinica. Temendo che dessero fuoco all’edificio, suor Gaudenzia ha
chiamato la polizia. “È venuto un altro poliziotto, era davvero preoccupato. Abbiamo
trovato un accordo e abbiamo sistemato le
donne nell’auto della polizia per metterle al
sicuro. Poi le abbiamo fatte mangiare”.
Con l’aiuto del poliziotto sono riusciti a
portare via le due donne, sistemandole in
un altro ospedale a molti chilometri di distanza. Una volta guarita dalle ferite, Angela è stata trasferita di nuovo. Adesso fa parte
di un gruppo di “superstiti della stregoneria” che oltre ad aver subìto menomazioni
permanenti sono stati sradicati per sempre,
profughi nel loro stesso paese. Angela vive
ancora nascosta insieme a suo iglio.
Bruciata viva
“Bruciata viva!”, titolavano i giornali locali
il 7 febbraio. Sotto, le foto di una grande folla, piena di bambini, che osserva il corpo di
una giovane donna avvolto dalle iamme.
Tutto  è  successo  nell’affollato  snodo  di
Mount Hagen, nel cuore del paese. Kepari
Leniata, vent’anni, madre di due bambini,
è stata spogliata, torturata, legata, innaiata di benzina, gettata in una discarica, coperta di pneumatici e data alle fiamme.
L’omicidio sarebbe stato commesso dai parenti di un bambino di sei anni deceduto da
poco all’ospedale locale. Leniata era una
delle due donne sospettate di aver provocato la morte. I testimoni dicono che la folla
ha bloccato gli agenti di polizia e i vigili del
62 Internazionale 993 | 29 marzo 2013 fuoco che avevano cercato di intervenire.
La notizia ha destato la “profonda preoccupazione” dell’uicio per i diritti umani
delle Nazioni Unite e la condanna dei mezzi d’informazione di tutto il mondo. Il primo ministro papuano Peter O’Neill ha deinito  l’omicidio  un  gesto  “spregevole”  e
“barbarico” e ha detto di aver dato istruzioni alla polizia di usare tutti i mezzi a disposizione per assicurare gli assassini alla giustizia. Sui social network papuani è nata una
campagna in nome di Leniata che chiede di
afrontare il problema endemico della violenza  contro  le  donne.  Come  ha  scritto
Rheeney nel suo editoriale sul Post Courier,
il fatto che i testimoni non siano intervenuti
“per fermare e condannare l’operato degli
assassini è il segnale di un pericolo più grande: quello che i cittadini papuani iniscano
per considerare normali queste orribili stragi e accettabile questo modo di esercitare la
giustizia. Il rispetto dello stato di diritto e
quello dei diritti della persona sono le colonne portanti di ogni democrazia moderna, e vogliamo pensare che la Papua Nuova
Guinea rientri in questa categoria”. L’assassinio di Leniata, osserva Rheeney, solleva
una questione: “Crediamo che la giustizia
debba essere amministrata da un tribunale
istituito dalla legge o da individui accecati
dalla superstizione?”.
Dopo il precedente rogo a Mount Hagen, nel gennaio del 2009, il governo aveva
incaricato la commissione per la riforma
della costituzione e del diritto di aprire
un’inchiesta sulle violenze legate alla stregoneria e sui problemi giuridici connessi.
L’angoscia della comunità ha raggiunto il
suo apice quando si è difusa la notizia che
diverse persone accusate di stregoneria
erano state bruciate, crociisse, impiccate
in pubblico e uccise a bastonate, chiuse in
casa e date alle iamme, lapidate, gettate in
un iume e ammazzate a colpi di machete.
Una legge da abolire
L’editoriale di Rheeney rispecchia il pensiero di molti osservatori papuani e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani,
soprattutto per il suo invito al governo ainché provveda con la massima urgenza ad
applicare la raccomandazione chiave della
commissione: abolire la legge sulla stregoneria. La legge del 1971, nel suo preambolo,
riconosce “la convinzione difusa in tutto il
paese che la stregoneria esista, e che gli
stregoni abbiano poteri straordinari che a
volte possono essere usati a in di bene anche se più spesso accade il contrario”. Il testo distingue la “stregoneria innocente”,
esercitata per ini preventivi e curativi, dalla
“stregoneria proibita”. La legge, spiega la
relazione, ha prima di tutto l’obiettivo di riconoscere la realtà delle preoccupazioni dei
cittadini e di istituire un meccanismo che
permetta di far giudicare gli accusati da un
tribunale, invece che dai cittadini con processi sommari. Negli ultimi due anni diversi sondaggi nelle province papuane hanno
confermato che molte comunità si aspettano che la legge riconosca l’esistenza della
stregoneria e fornisca gli strumenti per processare e punire gli stregoni e i loro complici. Come osservò nel 1980 Buri Kidu, primo
presidente della corte suprema di Papua
Nuova Guinea, “in tante comunità guineane la credenza nella stregoneria è molto
forte e non possiamo ignorarla. Anche il
mio popolo ci crede e questa credenza genera una paura enorme”. La conclusione
della relazione è che la legge sulla stregoneria non ha né prevenuto la “magia cattiva”
né punito chi la esercita. L’unica cosa che ha
fatto è stato fornire una scappatoia legale
agli assassini che si sono appellati all’attenuante della stregoneria riuscendo a cavarsela con sentenze miti. Dopo aver preso in esame diverse opzioni di riforma della legge, la commissione ne ha consigliato l’abolizione, a patto però che i tribunali dei villaggi possano continuare a occuparsi delle
dispute sulla stregoneria. In tal senso è stata
diramata una bozza che il segretario della
commissione, il dottor Eric Kwa, spera sia
presentata al parlamento papuano nei prossimi mesi. “Sono sconvolto dagli ultimi episodi”, confessa Kwa. “È vergognoso che i
papuani non siano capaci di schierarsi dalla
parte dei deboli e di contrastare questa
grande piaga della nostra società. Speriamo
che con l’abolizione della legge sulla stregoneria, se mai si seguiranno le indicazioni
della commissione, le normali responsabilità penali si applicheranno a tutti i reati gravi come quelli a cui stiamo assistendo in
questi giorni”.
Migliorare le forze di polizia
Secondo molti osservatori non basterà riformare la legge per fermare la violenza. Ne
è convinto per esempio l’antropologo Philip
Gibbs, i cui studi sono stati abbondantemente citati dalla relazione della commissione. A livello nazionale Gibbs ha invitato
il governo a istituire un consiglio sui diritti
umani – una misura già promessa in passato
– e a creare dei corpi speciali di polizia per
inseguire gli assassini.
Le organizzazioni per i diritti umani e le
agenzie delle Nazioni Unite hanno più volte
criticato la polizia papuana per i mancati
interventi contro le aggressioni e per non
aver arrestato i sospetti. Ma sono le prime
ad ammettere che le forze dell’ordine hanno bisogno di grandi investimenti in formazione, risorse e attrezzature per essere eicaci.  Come  ha  sintetizzato  un  rapporto
delle Nazioni Unite del 2011, alla polizia papuana manca quasi tutto: dai salari adeguati, alle divise, agli alloggi, alla leadership. Di
conseguenza la corruzione imperversa e il
morale è molto basso. La capacità di raccogliere informazioni è quasi inesistente. Secondo le stime, la probabilità che un criminale sia punito è inferiore al 3 per cento.
Anche se ci sarà la volontà politica di investire in misure più eicaci per la tutela
della comunità, ci vorranno anni prima che
la caccia alle streghe scompaia da zone come Simbu, uno degli epicentri della violenza. Perino le stesse organizzazioni per la
cooperazione allo sviluppo sono state restie
ad afrontare il problema, spiega Richard
Eves. “Per molti anni la religione è stata un
tabù per i donatori. È una questione culturale molto complessa, perciò non è semplice mettere in piedi dei progetti a riguardo”.
Nel frattempo gruppi di cittadini, attivisti locali per i diritti umani e chiese studiano
interventi su base volontaria, a volte con
ottimi risultati, osserva Gibbs. Uno di questi progetti è patrocinato da Anton Bal, vescovo cattolico di Kundiawa, capoluogo di
Simbu. Nato e cresciuto nel sud della provincia, Bal sfrutta la sua rete di relazioni e la
sua profonda conoscenza della cultura locale per cercare di cambiare la mentalità
dall’interno. Collabora con lui il sacerdote e
chirurgo polacco Jan Jaworski, che da venticinque anni cura le ferite isiche e spirituali
della comunità, e per questo è diventato
una igura autorevole. Grazie ai suoi rapporti con le famiglie della diocesi, Bal è in
grado di misurare i danni della violenza
contro i presunti stregoni. Il numero delle
vittime supera di gran lunga quello dei morti. L’uicio del vescovo ha calcolato che il
10-15 per cento della popolazione è stata
costretta a emigrare a causa delle persecuzioni o delle aggressioni. Molti sono stati
cacciati e le loro case e i loro terreni sono
stati distrutti. Secondo il vescovo Bal il problema della stregoneria è che più se ne parla, più il suo fascino e la sua inluenza sulle
persone crescono. Per contrastare il fenomeno ha messo in piedi una rete di parroci
locali che agiscono come una sorta di forza
di resistenza, cercando di gettare acqua sul
fuoco tutte le volte che in una comunità c’è
un decesso e la gente comincia ad accusare
qualcuno. I sacerdoti vanno ai funerali e se
qualcuno solleva la questione della sangumacambiano argomento, parlano del tempo o tagliano corto. Oppure lanciano l’allarme.
Kundiawa è nominalmente un capoluogo di provincia, ma in realtà è una stazione
di servizio lungo l’unica arteria che attraversa il paese da est a ovest, la Highlands
highway, un’autostrada molto traicata che
si sta velocemente consumando sotto le
ruote dei camion piombati che fanno avanti e indietro dalle miniere. È anche lo snodo
commerciale e il cuore di una vasta comunità di paesini sparsi sulle pendici più alte,
ripide, aspre e lussureggianti della Papua
Nuova Guinea.
Al Kundiawa hospital, che grazie agli
sforzi ammirevoli dei suoi dipendenti è
considerato un modello tra le fatiscenti
strutture ospedaliere provinciali del paese,
Jaworski assiste almeno un paio di volte alla
settimana al ricovero di pazienti che sofrono di traumi legati alla stregoneria. “Di solito sono donne, ma non solo”. Dopo tanti
anni trascorsi in quello che può essere considerato il ground zerodella sanguma, non
c’è più niente che lo impressioni. Una parte
del suo metodo consiste nell’usare la sua
inluenza per spezzare il circolo vizioso di
accuse e processi sommari, andando a incontrare le famiglie in lutto e spiegandogli
le cause mediche della morte ogni volta che
ne ha l’occasione. La speranza è che il messaggio si difonda, attraverso il passaparola,
in tutta la comunità.
Recentemente è morto il fratello di un
leader politico locale. Una volta appreso
che circa 300 suoi familiari si erano messi
in cerca di un capro espiatorio, Jaworski è
sceso in strada e li ha afrontati. “Ho detto
ai familiari che era colpa sua se era morto:
era obeso e non si prendeva cura di sé. A
volte è meglio dare la responsabilità a chi
non c’è più, o ne farà le spese qualcun altro”.
In un’altra occasione ha afrontato la famiglia di una giovane donna morta di aids.
Quando era ancora una bambina, la famiglia l’aveva ceduta a un anziano della comunità. Era diventata la sua terza moglie, aveva preso l’hiv e poi si era ammalata, lasciando un bambino in fasce. “Ho detto alla famiglia che se era morta era colpa loro, perché l’avevano venduta, non della sanguma.
Allora lo zio della defunta si è fatto avanti e
mi ha ringraziato per la spiegazione. Era
una cosa diicile da accettare per loro (e,
ammette il sacerdote, ci è voluto un bel coraggio per dire una cosa del genere a una
famiglia di Simbu inferocita), ma altrimenti sarebbero stati torturati e uccisi degli innocenti”.
Le testimonianze, raccolte sempre con
grande diicoltà, parlano di un consistente
e crescente movimento sotterraneo di paladini dei diritti umani che lavorano all’interno delle comunità per trovare e nascondere
le potenziali vittime o i superstiti delle aggressioni. Nelle zone montane più a rischio
Oxfam è impegnata in vari programmi che
sostengono queste reti in evoluzione. Ma
chi lavora in questo settore lo fa a suo rischio
e pericolo. In un famoso caso del 2005, portato all’attenzione generale dall’Alto com missario dell’Onu per i diritti umani, Anna
Benny, una donna di Goroka nota per il suo
impegno in difesa delle vittime dello stupro, provò a difendere la cognata dalle accuse di stregoneria. Entrambe le donne furono uccise e la polizia non prese alcun
provvedimento.
Nelle sue interviste ai superstiti delle
aggressioni, tra cui Angela, la donna salvata
dall’intervento di suor Gaudentia e probabilmente anche dalla pioggia, Philip Gibbs
ha individuato un ilo conduttore incoraggiante. Tutte queste vittime devono la loro
vita a singoli agenti di polizia oppure a leader religiosi inluenti che sono intervenuti
in loro difesa. “Ciò signiica che, se suicientemente motivate, la polizia e le autorità civili, o la chiesa, sono in grado di difendere persone che altrimenti sarebbero indifese”.
Sostenere le persone che hanno la volontà e il coraggio di contrastare dal basso la
violenza in ogni sua manifestazione – domestica, sociale, legata alla stregoneria – è
l’obiettivo di Bal e Jaworski. I tanti esempi
di interventi andati a buon ine alimentano
le loro speranze. Ma anche loro, a volte, si
fanno prendere dallo sconforto. Secondo
Jaworski la causa principale dell’escalation
di violenza a tutti i livelli è un disagio sociale profondo – soprattutto la rabbia e la frustrazione dei giovani maschi – per il quale
non esistono risposte facili. “Oggi il 70-90
per cento dei giovani non ha un lavoro. Vanno a scuola ma per loro non c’è futuro. E
non sono più in grado di tornare a lavorare
la terra nei loro villaggi”. Senza prospettive
nel nuovo mondo, e senza le capacità per
afrontare il vecchio.
Nelle mattine più cupe, avanzando a fatica su strade dissestate piene di pietre dopo
una notte passata a combattere o a ricucire
le vittime in sala operatoria, Jaworski teme
che la rabbia dei giovani un giorno possa
riportare la comunità al tumbuna, il tempo
degli antenati. “Spero di essere un cattivo
profeta”. u

993 - A tavola con l’assassino Der Spiegel, Germania Foto di Thomas & Quentin

Grassi, sale e zucchero. Sono i tre ingredienti base
che l’industria alimentare usa nelle merende
e in altri prodotti di largo consumo, che creano
dipendenza e danneggiano la salute.
Un libro appena uscito negli Stati Uniti denuncia
le responsabilità delle grandi multinazionali


I
l sacchetto si apre con un fruscìo.
L’aroma di carne afumicata sale
nel naso. Ed eccole, le allettanti
patatine: sottilissime, vaporose,
spolverizzate di rosso. Appena la
prima tocca la lingua, in bocca si
difonde un piacevole gusto salato, che però
svanisce rapidamente. Cric, croc. Si scioglie in bocca, e in un attimo è già inita. Resta solo un leggero retrogusto. E la voglia di
mangiarne ancora. La mano corre di nuovo
al sacchetto.
Milioni e milioni di persone ogni giorno
cedono alla tentazione degli snack a base di
patate. Ma nessuna ha idea di quanti studi
si nascondano dietro a questa semplice
esperienza, a cui spesso non riesce a resistere neanche chi sa benissimo che le patatine fritte sono uno dei cibi ipercalorici più
malsani. I tedeschi ne consumano quasi
400 milioni di confezioni all’anno.
Perché  perdiamo  tanto  facilmente  il
senso della misura quando ci mettono sotto
il naso un sacchetto di patatine fritte? Non
può dipendere dalle patate: inora nessuno
ha mai sentito parlare di orge a base di patate sbucciate. E poi le patatine fritte confezionate hanno poco a che fare con le patate
vere. Nel processo di produzione, quasi nulla è lasciato al caso: sono un prodotto artiiciale rainato che grazie a una serie di trucchi induce le persone a mangiarne il più
possibile e il più spesso possibile.
Prendiamo  per  esempio  il  concetto
scientiico di “punto di rottura”. Le industrie alimentari hanno scoperto che la maggioranza dei consumatori preferisce una
patatina che si spezza sotto una pressione
di 276 millibar. È così che il croc dà il massimo del gusto e fa venir voglia di mangiare
subito un’altra patatina. Anche il fatto che il
boccone si disi all’istante, dissolvendosi
sotto i denti, è frutto di un calcolo. Tutti infatti tendiamo a credere che un cibo che si
scioglie rapidamente sulla lingua contenga
poche calorie. E così sgranocchiamo una
patatina dopo l’altra ino a vuotare il sacchetto.
Poi ci sono le sostanze che servono da
esca per il cervello. Per esempio un’abbondante dose di sale sulla supericie di certi
alimenti attiva il meccanismo neuronale
della ricompensa. Bliss pointo punto di beatitudine è il nome che le aziende danno
alla dose di sale che procura il massimo
“sballo”. L’amido, un tipo di zucchero che fa
aumentare e poi rapidamente scendere la
glicemia, aumenta l’appetito. Inine c’è il
grasso, di cui le patatine sono imbevute: è
quello che procura la piacevole sensazione
vellutata in bocca.
Non si può rimproverare l’industria alimentare se cerca di rendere appetitosi i suoi
prodotti o di incoraggiarne il consumo: è la
legge del mercato. Ma c’è da chiedersi se
questa politica non vada limitata in qualche
modo. Che dire dei produttori che mettono
a rischio intenzionalmente, o addirittura
dolosamente, la salute dei consumatori,
lanciando sul mercato prodotti che creano
dipendenza? Che fare quando gli scienziati
arrivano alla conclusione che il consumo di  

massa di alimenti industriali a basso prezzo
ha provocato la più grande crisi sanitaria
del nostro tempo?
Gli  scandali  alimentari  che  recentemente hanno scosso la Germania – la presenza di carne di cavallo in certe marche di
lasagne, l’imbroglio delle uova “biologiche”,  l’aggiunta  di  enzimi  ricavati
dall’Aspergillus, un fungo tossico, ai mangimi per l’allevamento – pongono al centro
dell’attenzione un’industria potente e globalizzata. La carne avariata nel kebab, il
into prosciutto sulla pizza, le sostanze chimiche cancerogene nelle patatine fritte:
quando si scoprono queste cose, l’opinione
pubblica protesta. Ma nel giro di qualche
giorno l’agitazione si placa. E la grande abbufata continua.
Ora però sembra che la situazione stia
cambiando. Sta nascendo un movimento
internazionale, a cui partecipano medici,
nutrizionisti, psicologi e associazioni per la
tutela dei consumatori, che vuole mettere
al centro dell’attenzione un tema molto più
importante.
Secondo gli esperti di salute, il vero problema non sono né le soisticazioni alimentari né le singole sostanze nocive, ma il generale aumento di peso delle persone. Gli
scienziati lo dicono chiaramente: le patatine piene di grasso, le bevande gassate zuccherate e i prodotti alimentari troppo rainati non sono diversi da altri due veleni altrettanto piacevoli e onnipresenti, il tabacco e l’alcol.
Nel suo nuovo libro Salt sugar fat: how
the food giants hooked us, appena uscito negli Stati Uniti, il premio Pulitzer Michael
Moss descrive tutti i trucchi con cui le industrie alimentari spingono le persone a mangiare sempre di più, ino ad ammalarsi. I
giganti dell’alimentazione, spiega Moss,
conoscevano gli efetti devastanti dei loro
prodotti sulla salute dei consumatori, e se
ne sono inischiati. Moss ha ricostruito un
incontro che si svolse l’8 aprile 1999 nel
quartier generale della Pillsbury, a Minneapolis. C’erano i capi dei più grandi gruppi
del settore: Nestlé, Kraft, Coca-Cola, Mars,
Nabisco, Pillsbury, General Mills e Procter
& Gamble. L’argomento all’ordine del giorno era l’allarmante aumento dell’obesità
nei bambini. Michael Mudd, uno dei vicepresidenti della Kraft, andò subito al sodo:
“Non ci sono risposte semplici alla domanda su cosa debbano fare i responsabili della
salute pubblica per arginare il problema, né
su cosa debba fare l’industria alimentare se
altri la accuseranno”. Solo una cosa è certa,
concluse, “non possiamo non fare niente”.
Alla ine del suo intervento Mudd propose
di limitare l’impiego di sostanze dannose
per la salute e ripensare le strategie di marketing delle aziende alimentari. Ma il suo
appello incontrò un netto riiuto, e la riunione si concluse con un nulla di fatto.
Irresistibili
A 14 anni di distanza, nel febbraio del 2012,
la rivista scientiica The Lancet ha pubblicato uno studio condotto da un’équipe internazionale di epidemiologi. I risultati sono agghiaccianti: gli impegni presi dall’industria alimentare, le tante buone intenzioni, non sono serviti a nulla. Come spiega
Rob Moodie dell’università di Melbourne,
che ha guidato la ricerca, sperare che le
aziende fabbricassero prodotti più sani e si
occupassero del benessere e dell’indice di
massa corporea dei consumatori è stato come “chiedere a dei ladri d’appartamento di
montare la serratura”. Finora la potente
lobby del settore alimentare è riuscita a sof focare sul nascere i tentativi dei politici europei e statunitensi di proteggere i cittadini
dall’invasione di calorie promossa dall’industria alimentare con l’aiuto di leggi o regolamenti. Associazioni per la difesa dei
consumatori, aziende sanitarie e pediatri
hanno preteso invano che i cibi dannosi per
la salute fossero almeno contrassegnati in
modo chiaro.
Intanto la situazione peggiora: nel 2010
quasi 35 milioni di persone nel mondo sono
morte di malattie non trasmissibili come il
cancro, l’infarto e il diabete. Nello stesso
anno il 65 per cento dei decessi era riconducibile almeno in parte ad abitudini di vita
malsane: fumo, alcol, scarso esercizio isico, ma anche assunzione di bombe caloriche ad alto tenore di grassi.
Il problema è particolarmente grave negli Stati Uniti: un adulto su tre è obeso, un
bambino su cinque è troppo grasso. Gli
americani malati di diabete di tipo 2 sono
26 milioni. Anche in Germania la situazione è preoccupante: un adulto su cinque e un
bambino su dieci sono obesi e secondo il
Robert Koch-Institut, un istituto di ricerca
biomedica tedesco, il 67 per cento degli uomini e il 53 delle donne sono sovrappeso.
Come siamo arrivati a questo punto?
Che ruolo ha avuto l’industria alimentare?
E soprattutto, come possiamo evitare la catastrofe? Lo abbiamo chiesto a David Kessler, il giurista e medico di Harvard che negli anni novanta, quando dirigeva la Food
and drug administration, l’ente statunitense per la tutela della saluta pubblica, ha
condotto una dura battaglia contro le lobby
del tabacco e ha contribuito a negoziare un
accordo miliardario tra i produttori di sigarette e 46 stati americani. Il suo ultimo libro, Overeating, è un atto di accusa contro
l’industria alimentare.
Oggi Kessler ha 61 anni e insegna pediatria  all’università  della  California  a  San
Francisco. Ci accoglie nella sua graziosa
villa, in una delle tipiche stradine ripide del
centro di San Francisco, e viene subito al
dunque. Prende un pezzo di carta e con la
biro abbozza un graico del tema centrale
del suo studio, la bulimia. Prende diversi
anni e confronta il peso corporeo e l’età delle persone: nei più giovani la curva si inarca
verso l’alto, proprio come una pancia. “Oggi i ventenni pesano almeno otto chili in più
rispetto a quarant’anni fa”, spiega. “Ho cercato di capire perché, e come mai molti trovano così diicile resistere a questo desiderio incontenibile di cibo”.
Per cominciare, Kessler ha studiato la
dieta dell’americano medio. Si è intrufolato
di notte nei ristoranti per frugare nella spazzatura e ha studiato le etichette dei cartoni
vuoti. Così ha capito cosa viene servito davvero ai tavoli. Si può riassumere in tre parole: sale, zucchero, grasso. Le stesse tre parole che ha scelto Michael Moss per il titolo
del suo libro. Lo ha scritto dopo quasi quattro anni di ricerche, centinaia di colloqui
con dirigenti e dipendenti di grandi industrie alimentari, chimici, nutrizionisti, studiosi del comportamento, esperti di marketing e lobbisti. Con il loro aiuto ha ricostruito in che modo, nei laboratori delle industrie, in pochi decenni siano stati creati, a
partire da cibi veri, dei prodotti artiiciali
pieni di zucchero, sale e grasso. “In realtà
volevo scrivere un libro sullo zucchero, perché lo consideravo l’elemento più dannoso
della nostra alimentazione”, spiega. “Ma
nel corso delle ricerche ho capito che anche
il grasso stimola le persone a mangiare
sempre di più, e che forse il sale è perino
più importante per l’industria alimentare”.
Ma questo basta per spiegare l’epidemia
di obesità? In fondo, nella loro forma pura,
né lo zucchero né il sale né il grasso hanno
mai mandato in estasi nessuno. Eppure
sembra che la voglia di dolce sia innata: i
neonati reagiscono con piacere quando gli
si mette in bocca qualche goccia di una soluzione zuccherata. Il fenomeno ha una
spiegazione perfettamente logica dal punto
di vista della biologia evolutiva: in natura il
sapore dolce contraddistingue soprattutto
gli alimenti ricchi di calorie. E per i nostri
antenati era consigliabile mangiare tutta la
frutta dolce che trovavano: era un piacere
raro.
Nell’epoca dell’abbondanza però le cose
sono diverse. Esperimenti condotti sui topi
hanno dimostrato che lo zucchero produce
nel cervello lo stesso schema di attività delle droghe che danno dipendenza. Il suo potenziale di assuefazione non è paragonabile
a quello dell’eroina o della cocaina, ma è
suiciente a far sì che la maggior parte delle
persone ceda alle molteplici e onnipresenti
tentazioni del gusto dolce.
Gli statunitensi consumano ogni anno
58 chili di zucchero a testa, i tedeschi circa
36, il doppio rispetto alla quantità consigliata dalla Società tedesca per la nutrizione.
L’83 per cento dello zucchero si nasconde
nei cibi precotti. I produttori lo usano non
solo perché stimola l’appetito, ma anche
perché, se aggiunto a certe sostanze aromatizzanti, può sostituire ingredienti più costosi, come la frutta e la verdura.
Ma torniamo ai neonati. Diicilmente la
somministrazione di una soluzione salina
suscita in loro reazioni entusiastiche, perché il desiderio di sale si sviluppa con il passare del tempo. Resta il fatto che il cloruro

di sodio è essenziale per la vita: nervi, reni,
ossa, ogni cellula del nostro corpo ne ha bisogno. Il sale che gli esseri umani perdono
con il sudore e con le altre escrezioni (da
uno a tre grammi al giorno) deve essere
reintegrato attraverso gli alimenti.
Molto tempo prima che i supermercati
si riempissero di patatine grasse e cibi pronti ultrasalati, il sale era raro e prezioso: nel
medioevo le città anseatiche costruirono il
loro benessere sull’“oro bianco”. Il sale serviva da moneta (da cui “salario”) e fu una
delle prime sostanze usate per conservare
gli alimenti. L’evoluzione ha iscritto questa
predilezione per il sale nei nostri circuiti cerebrali più primitivi. I nostri antenati, vivendo in un clima caldo, perdevano ogni
giorno molto sale attraverso il sudore, e non
sempre riuscivano a reintegrarlo. Ma l’assunzione di sale stimola la distribuzione
della dopamina nel diencefalo, un efetto
che spingeva gli uomini delle caverne a ricostituire le loro riserve di sale. In altri termini, il nostro corpo dispone di un sistema
di ricompensa che garantisce la nostra voglia di sale, a volte anche in quantità eccessive. Oggi, infatti, quasi tutti assumiamo
più sale del necessario, e solo il 10 per cento
circa del sale che assumiamo proviene dalla
saliera: il resto si annida nel pane e nei cracker, nelle patatine e nei pasti pronti da
scaldare al microonde. Insomma, nei prodotti di un’industria che ha capito da tempo
come trarre il massimo del proitto da istinti umani antichissimi.
Poi  c’è  il  grasso,  la  terza  esca  usata
dall’industria alimentare. Il grasso in primo
luogo fa da veicolo ai sapori, perché molte
sostanze aromatiche sono solubili nei grassi. Se uno schizzo di panna liquida migliora
il gusto di un sugo per la pasta, è per motivi
puramente biochimici. Ma il grasso determina anche la consistenza degli alimenti, la
sensazione che ci danno in bocca. Le persone a cui piace versarsi in bocca una bustina
di zucchero sono pochissime, ma nella giusta combinazione con il grasso, lo zucchero
può diventare irresistibile: pensate al gelato
o alla cioccolata.
In conclusione, zucchero, sale e grasso
dispiegano al massimo la loro forza d’attrazione quando sono abilmente mescolati tra
loro in combinazioni, quantità e forme diverse.  Un  esperimento  condotto  dallo
scienziato Barry Lewin presso la New Jersey medical school mostra il potere di queste sostanze. Lewin ha lavorato su un gruppo di topi di laboratorio che normalmente
smettono di mangiare quando sono sazi.
Quando però, al posto del solito mangime
in pellet, gli ha somministrato un composto

cremoso  di zucchero e grasso, tutte le dighe
sono crollate: “Non la inivano più di rimpinzarsi”, racconta Lewin.
Il commento di David Kessler è disincantato: “I cibi industriali sono composti da
tanti di quegli strati di grasso, zucchero e
sale, che sotto è diicile trovarci ancora del
cibo vero”. Secondo lui, più questi cibi sono
disgustosi e più è diicile resistergli. Kessler
sa di cosa parla: l’esperimento lo ha fatto su
se stesso. Ha comprato dei biscotti al cioccolato (cioè un concentrato di zucchero e
grasso più una presa di sale) e li ha posati sul
tavolo da pranzo davanti a sé. La tentazione
di prenderne uno, racconta, era enorme.
Ha resistito per ore, poi ha lasciato la confezione sul tavolo ed è andato in un cafè vicino a casa sua. A quel punto, di fronte ai dolci in vetrina, la sua determinazione è crollata e ha divorato un brownie.
Kessler si consola con una spiegazione
scientiica. Nel cervello abbiamo dei circuiti – lui li deinisce “circuiti della motivazione abituale” – che si formano quando siamo
bambini e sono attivati da speciiche condizioni che si veriicano nell’ambiente. Alcuni
cibi sono in grado di condizionare il nostro
cervello come quello di un tossicodipendente. Si tratta di cibi particolarmente desiderabili che stimolano la produzione di
dopamina. Al punto che dopo un po’ basta
vederli perché i circuiti si attivino. L’unica
via d’uscita da questa trappola alimentare,
secondo Kessler, è evitare per quanto possibile l’attivazione di questi circuiti. Lui stesso, quando va all’aeroporto di San Francisco, si tiene alla larga dalla tavola calda per
non vedere la vetrina dei ravioli fritti. Sa che
se ci si avvicina è perduto: “Un boccone di
quella roba equivale a un istante di beatitudine”, spiega. “Dimentichi ogni stress e
non t’importa più nulla. Un attimo dopo sei
lì che ti chiedi: perché l’ho fatto?”.
Ma è proprio questa la reazione che l’industria del cibo cerca. Nel suo libro Michael
Moss racconta quanto spendono le industrie per ottimizzare i loro prodotti. Prendono dei consumatori e li tengono per ore nei
loro laboratori ad assaggiare, gustare, sorseggiare, annusare e palpare. Ogni loro
sensazione viene accuratamente registrata
e inserita in un computer. Poi, con l’aiuto di
una procedura statistica detta analisi congiunta, ottengono la combinazione ottimale tra esaltatori del gusto, confezionamento
e colore del prodotto.
Ma gli strateghi dell’industria sanno anche che non devono idarsi delle prime reazioni delle loro cavie. Non sempre, infatti,
quello che gli piace istintivamente è anche
quello che alla ine mangeranno. La regola
generale è un’altra: un prodotto che si vende in grande quantità non può essere troppo buono. Gli esperti chiamano questa legge apparentemente paradossale “sazietà
sensorio-speciica”. Signiica che, quando
viene inondato da stimoli gustativi troppo
marcati, il cervello umano reagisce attenuando il desiderio di ripetere l’assunzione
del cibo che li provoca. Il miglior modo di
“ingannare” questa reazione, quindi, è proporre sapori familiari e non troppo intensi.
Kessler non ha dubbi sul fatto che i fabbricanti usino questi meccanismi in modo
consapevole: “Il business plandelle moderne industrie alimentari consiste nel produrre miscele di grasso, zucchero e sale, renderle disponibili 24 ore al giorno a ogni angolo di strada, e farlo sapere a tutti con una
campagna promozionale basata sulle emozioni”.
Kessler ha vinto una battaglia molto dura contro l’industria del tabacco. E pensa
che quella contro le multinazionali dell’alimentazione sia ugualmente dura, anche se
in modo diverso: “Il fumo si poteva proibire”, osserva. “Abbiamo demonizzato il tabacco, ma non si può demonizzare il cibo”. Kessler spera
invece di suscitare nell’opinione
pubblica  un  grande  dibattito
sull’alimentazione.  “La  prima
domanda da farsi dev’essere: quello che
mangiamo è davvero ancora cibo? La seconda è: quali sono i cibi che desideriamo
davvero mangiare?”. In altre parole, qualcosa cambierà solo quando i consumatori
impareranno a guardare le cose da mangiare sotto un’altra luce. È stato così anche per
le sigarette: “Prima vedevamo la sigaretta
come un’amica, qualcosa di desiderabile,
sexy e fascinoso. Ora la vediamo come un
prodotto mortale, schifoso, che dà dipendenza”.
Questione di vita o di morte
Secondo Robert Lustig, un collega di Kessler che insegna pediatria clinica all’università della California a San Francisco, suscitare un dibattito non basta. Nel 2009 Lustig, che oggi ha 56 anni, è diventato famoso
grazie a una conferenza tenuta alla sua università e intitolata “Zucchero: l’amara verità”. Il video della conferenza è stato visto su
YouTube più di tre milioni di volte. Lustig si
presenta al nostro incontro con una camicia
turchese brillante. Mi ha dato appuntamento alla mensa dell’Hastings college of law
dell’università: la frequenta da quando ha
chiesto un anno sabbatico per prendere un
master in giurisprudenza. La specializzazione gli serve per prepararsi alla battaglia
contro l’industria alimentare. “Il punto è: ci
sono vie legali per mettere i bastoni tra le
ruote all’industria alimentare? La risposta
è: assolutamente sì”.
Nella sua tesi, Lustig cercherà di proporre un parallelo con la campagna contro le
sigarette degli anni sessanta. Secondo lui la
battaglia contro l’industria alimentare dovrebbe seguire esattamente il “copione tabacco”: in entrambi i casi, infatti, si tratta di
una questione di vita o di morte. “Il problema non è che le aziende alimentari mettono
sul mercato prodotti irresistibili”, osserva.
“Il problema è che questi prodotti sono tossici e la gente ne muore”.
Mentre parla, Lustig si arrabbia. Oggi è
particolarmente nervoso, perché tra ventiquattr’ore presenterà insieme ad alcuni
colleghi uno studio che stabilisce un rapporto epidemiologico tra il consumo di zuccheri e il diabete. Gli studiosi hanno confrontato la quantità di zuccheri presente
negli alimenti con l’incidenza del diabete in
175 paesi negli ultimi dieci anni. Risultato:
più zuccheri nei cibi hanno determinato
ovunque tassi di diabete più elevati. La sorpresa è che il numero
delle persone obese non c’entra
proprio niente. Negli Stati Uniti i
disturbi del metabolismo riguardano più o meno lo stesso numero di normopeso e di obesi. “Lo zucchero è
veleno”, è la sua conclusione: “A prescindere dalla quantità di calorie”.
Lustig è un esperto di disturbi ormonali
e obesità nei bambini. È molto preoccupato
per  il  numero  crescente  dei  cosiddetti
“grassi di 6 mesi”, cioè i bambini che sono
sovrappeso già al momento di venire al
mondo o quasi. “In molti paesi, il peso dei
bambini alla nascita è signiicativamente
più alto rispetto a venticinque anni fa”, spiega. All’origine del problema, secondo lui,
c’è l’alimentazione sbagliata delle madri.
Ma non sono loro a dover inire sul banco
degli imputati: “I consumatori non hanno
scelta”, spiega. Sugli scafali dei supermercati statunitensi ci sono 60mila prodotti
alimentari diversi. Nell’80 per cento dei casi contengono zuccheri aggiunti. I cibi non
alterati sono rari, e più costosi: “Molte persone semplicemente non possono più permettersi il cibo vero”.Poi c’è l’imbroglio dei nomi degli ingredienti. Negli Stati Uniti ci sono 56 modi diversi per indicare la presenza di zucchero
negli alimenti. “Molti sono incomprensibili, e alcuni addirittura illegali”, dice Lustig.
Cosa sarà mai, per esempio, lo “zucchero di
canna evaporato”? Il produttore dello yogurt Chobani è al centro di una serie di cause collettive in California e nello stato di
New York perché stampa sui prodotti diciture come queste, che le autorità sanitarie
deiniscono “false e fuorvianti”. Nei procedimenti giudiziari, Lustig è intervenuto in
qualità di perito. “I fabbricanti hanno carta
bianca”, afferma sempre più arrabbiato.
“Possono mettere nei loro prodotti tutto lo
zucchero che vogliono”. Per cambiare serve
la pressione forte e compatta dell’opinione
pubblica: “Anche l’industria del tabacco ha
reagito solo quando non ha più potuto evitarlo”.
Il kebab di Ahmed
Ahmed è alto un metro e 70, pesa cento chili e si cura con otto farmaci diversi. Vive a
Berlino. Alla mano destra porta un guanto
protettivo perché le dita gli formicolano di
continuo: come molti pazienti affetti da
diabete di tipo 2, l’aumento della glicemia
gli ha danneggiato le terminazioni nervose.
Lo incontro nei locali del servizio di consulenza nutrizionale oferto dal reparto di endocrinologia, diabete e medicina del ricambio della clinica medica dell’ospedale della
Charité. Nell’ingresso, per i clienti “di peso” è a disposizione una poltrona avvitata al
pavimento con una seduta di 83 centimetri.
Gli incontri che si svolgono qui servono a
insegnare agli obesi a mangiare in modo
sano. Secondo Rotraud Zehbe, una snella
signora di 60 anni che fa la consulente nutrizionale, i professori sanno poco o nulla di
questo argomento. Zehbe tiene sul tavolo
un assortimento di inti panini, melanzane,
pomodori, carote e salsicce. I suoi pazienti
hanno una caratteristica in comune: siccome non sanno cucinare, si nutrono quasi
esclusivamente  di  cibi  pronti  o  nei  fast
food.
Ahmed giocherella con una bustina di
dolciicante e guarda Zehbe pieno d’aspettativa. “Quando assumiamo più energia di
quella che ci serve”, comincia lei, “aumentiamo di peso. Quindi per perdere peso
dobbiamo eliminare qualcosa”. Il paziente
annuisce. Molte persone non bevono abbastanza: per il buon funzionamento del metabolismo un adulto sano dovrebbe assumere ogni giorno, per ogni chilo di peso
corporeo, 35 millilitri di liquidi privi di zucchero: acqua o tè, ma niente alcol né succhi

di frutta o latte. Ahmed ogni giorno si scola
un litro di latte ed è convinto che contenga
soprattutto acqua. “Già”, ribatte Zehbe. “E
al lattosio non ci pensa?”.
E qui comincia a parlare di grassi: a una
donna ne bastano circa 60 grammi al giorno, a un uomo 80. L’olio d’oliva e di colza è
buono, i grassi animali no. Gli insaccati sono da evitare: troppo grassi. “Buttiamoli
nella spazzatura”, esorta Zehbe. Quando
comunica ad Ahmed che dovrà lasciar perdere anche la carne grondante di grasso del
kebab, lui la guarda avvilito. La carne va bene, purché sia magra, gli spiega Zehbe. La
sua regola generale è che ogni giorno si possono consumare dagli 80 ai 100 grammi di
proteine. L’azoto delle proteine viene eliminato con le urine sotto forma di urea, che
aiuta il metabolismo a bruciare più energia.
Per inire, Zehbe afronta le sostanze più
problematiche: i carboidrati. Sono generatori di energia che si annidano in molti alimenti. Troppi carboidrati fanno male, perché il fegato li trasforma in grasso, quello
che poi si accumula sulla pancia. Quindi
Ahmed dovrà rinunciare al muesli, ai dolci
e alla Nutella.
Ora Zehbe passa a spiegare, servendosi
dei suoi inti alimenti, cosa si può mangiare
ogni giorno per assumere la giusta quantità
di carboidrati: un panino spalmato di miele, una mela, due patate,
una grossa fetta di pane, un cestino di fragole e, “per il piacere”,
un minuscolo pezzetto di cioccolato. Ahmed non sembra convinto. Come per consolarlo, la nutrizionista
raccomanda al suo corpulento paziente di
mangiare verdure, sia cotte al vapore sia
crude. Serve a combattere la fame, spiega,
così come il formaggio quark magro. Mescolato con un po’ d’acqua e messo in vasetti di vetro, può essere una merenda da portare con sé al lavoro.
Certo, Ahmed sarebbe meno avvilito se
fare la spesa fosse un’impresa semplice. Se
i prodotti nei supermercati non avessero
etichette così diicili. Lo sanno tutti che il
riso integrale accompagnato da verdure
fresche cotte al vapore è sano: ma se uno
non ha tempo per cucinare? Quali sono i
cibi pronti che contengono solo zucchero,
sale e grasso, e quali si possono deinire il
male minore? Per esempio, se uno vuole a
tutti i costi fare una colazione a base di cereali, quali scegliere? Esiste uno yogurt alla
frutta che non sia troppo dolce né troppo
grasso?
Nel 2006 la Food standards agency britannica ha proposto, su incarico del parla-44 Internazionale 993 | 29 marzo 2013
mento, di contrassegnare le confezioni degli alimenti con dei piccoli semafori per far
capire quanto grasso, zucchero e sale contenessero 100 grammi di prodotto: rosso
per una percentuale nociva, giallo per una
media, verde nessun pericolo.
Dopo alcune esperienze positive nel Regno Unito, anche gli scienziati tedeschi
hanno proposto, nel novembre del 2005, un
sistema segnaletico simile, e hanno invitato
la lobby dell’industria alimentare a partecipare al progetto. Associazioni professionali
come quella dei medici pediatri, organizzazioni di consumatori e i Verdi si sono schierati a favore dei semafori, e così anche il 69
per cento dei cittadini interpellati in un
sondaggio.  Ma  Ilse  Aigner,  la  ministra
dell’alimentazione, dell’agricoltura e della
protezione dei consumatori, si è detta contraria, così il problema è stato sottoposto
all’Unione europea. A quel punto associazioni e imprese hanno cominciato a bombardare gli europarlamentari di telefonate,
email e documenti. I lobbisti hanno sostenuto che i valori limite
usati per classiicare gli alimenti
erano arbitrari. E alla ine sono
riusciti a far respingere la proposta dei semafori. Oggi in Germania la percentuale di grasso, zucchero e sale
presente negli alimenti è indicata esclusivamente da numeri.
I marchi della salute
L’esempio della Finlandia mostra che un
sistema di segnalazione può non solo modiicare i comportamenti delle persone, ma
forse salvargli perino la vita. Alla ine degli
anni settanta le autorità sanitarie inlandesi
registrarono un numero allarmante di infarti. Da alcuni studi emerse che l’alimentazione ricca di sale era un fattore di rischio
determinante. Oggi sugli alimenti poveri di
sale spicca un cuoricino rosso con la scritta
parempi valinta, “scelta migliore”, mentre
gli alimenti ad alto tenore di cloruro di sodio sono contrassegnati dall’avvertenza
voimakassuolainen(“molto salato”). L’introduzione di queste etichette ha avuto un
successo sbalorditivo: oggi i inlandesi consumano un terzo di sale in meno rispetto a
trent’anni fa e la mortalità per infarto e ictus è diminuita di circa l’80 per cento.
Invece in Germania le proposte di introdurre scritte chiare, i divieti di fare pubblicità ai cibi malsani, di tassarli o di stabilire
dei valori limite per gli ingredienti nocivi si
schiantano contro un muro. La lobby del
settore è troppo potente: la produzione e la
vendita di alimenti danno lavoro a circa due
milioni di persone, e il giro d’afari raggiunge i 170 miliardi di euro. Ma i consumatori,
turbati dagli scandali e dai loro problemi di
peso, sono diventati più attenti. L’immagine dell’industria alimentare non è mai stata
tanto negativa, e l’esigenza di chiarezza è
sempre più forte.
Stephan  Becker-Sonnenschein  è  da
qualche settimana il principale lobbista del
settore in Germania. Nei suoi uici ancora
spogli in Friedrichstraße, a Berlino, si occupa  di  rimettere  in  sesto  la  reputazione
dell’industria alimentare. Becker-Sonnenschein è il direttore dell’associazione Die
Lebensmittelwirtschaft (L’economia alimentare), di cui fanno parte sette delle più
potenti industrie del settore. Per questo
esperto di pubbliche relazioni di 56 anni la
sua nuova creatura è “una grande sida”.
Becker-Sonnenschein è abituato alle missioni diicili: è stato responsabile dell’immagine della Philip Morris (tabacco) e della
Rwe (centrali a carbone). E ha letto sul New
York Times un estratto del libro di Michael
Moss. “Molto di quello che scrive si riferisce agli anni ottanta e novanta”, spiega. Da
allora, secondo lui, sono cambiate molte
cose.
Mi racconta che nel periodo in cui lavorava per la Kraft Foods Deutschland l’azienda aveva modificato la composizione di
1.500 prodotti. La Coca-Cola rivendica di
aver ridotto il potere calorico della sua popolarissima bibita del 9 per cento dal 2000.
E anche la Nestlé avrebbe imboccato la
strada per diventare un’azienda salutista. Il
gruppo svizzero infatti ha avviato una collaborazione con l’università di Losanna per
creare prodotti salutari, per esempio yogurt
contenente sostanze utili a combattere i
sintomi dell’Alzheimer. La Danone, principale concorrente della Nestlé, ha allo studio
un prodotto simile. Tutti progetti di cui si
parla troppo poco, secondo Becker-Sonnenschein. In realtà, gruppi come Nestlé e
Coca-Cola fanno di tutto per inluenzare
l’opinione pubblica. Secondo alcune stime
la Nestlé spende circa tre miliardi di dollari
all’anno per la pubblicità.
Quando però si tratta di responsabilità,
i manager si tirano indietro. A volte si presentano con calcoli dei valori nutritivi talmente astrusi da far credere che anche i
cereali da colazione con più zuccheri aggiunti siano salutari. Altre volte si giustiicano dicendo che fanno di tutto per mantenere in forma i consumatori. La Coca-Cola,
per  esempio,  ha  lanciato  la  sua  Mission
Olympic per trovare la città “più attiva” della Germania. Il portavoce del gruppo ci indirizza da un certo Thomas Bach.
Bach è presidente dell’Unione tedesca
sport olimpici. Dunque è una specie di alto
dirigente dello sport tedesco, e anche una
sorta di ambasciatore della Coca-Cola. “Il
nostro obiettivo”, mi spiega, “è promuovere
l’attività sportiva, in collaborazione con i
nostri partner Coca-Cola Deutschland e
Samsung. Questo signiica incoraggiare la
cittadinanza ad abbracciare uno stile di vita
attivo”.
Ma al tempo stesso l’industria alimentare punta sui giovani, con una strategia che
ricorda quella dell’industria del tabacco.
Dai documenti interni che le multinazionali delle sigarette resero pubblici nel 1998, si
è appreso che le lobby del tabacco avevano
congegnato una campagna pubblicitaria
per difondere il fumo tra i giovani. Anche
l’industria alimentare investe molti soldi
per attirare bambini e ragazzi. L’associazione di consumatori tedeschi Foodwatch ha
individuato 1.514 prodotti che nei supermercati sono presentati in modo da attirare
i bambini. Circa il 73 per cento è costituito
da merendine piene di zuccheri o grassi: “I
piccoli vengono drogati per far girare la
macchina dei consumi”, aferma il vicedirettore di Foodwatch Matthias Wolfschmidt.
Dal punto di vista delle imprese è perfettamente logico. Le ricerche nutrizionali
mostrano che le abitudini alimentari si possono consolidare: una volta che si è scoperto il sapore di una caramella o di un cracker
al formaggio, gli si resta fedeli.
Lezione di omelette
Alla Gorch-Fock, una scuola di Blankenese,
alla periferia di Amburgo, è l’ora di educazione civica, eppure si sente il rumore di
una centrifuga per verdure. In cucina una
macchina  per  fabbricare  popcorn  sputa
fuori le sue palline bianche. La maestra Angela Wöbke-Hasenkamp ha il compito di
insegnare a quattordici alunni di quarta che
il gelato alla crema è fatto solo di zucchero e
latte e che la passata di mela fatta in casa è
buona  anche  senza  zucchero.  “Molti  di
questi bambini non hanno mai fatto neanche un uovo sbattuto”, dice. “Oggi nelle famiglie non si cucina più”.
“Pasta e pizza”, risponde una biondina
con gli stivaletti argentati a chi le domanda
quali siano i suoi cibi preferiti. È iglia unica, è molto iera del suo nuovo iPad mini e
scarica da iTunes le canzoni di Pink e di Psy.
A casa sua si cucina poco o niente: la sua
esperienza culinaria più importante, racconta, è stato “mettere il formaggio su una
pizza”.
Tutt’altro che facile, dunque, il compito
di Wöbke-Hasenkamp. Oggi la classe imparerà a fare i popcorn e i muin alla banana: bisogna pur scendere a qualche compromesso. “Voglio far capire ai bambini
che non va bene buttar via la roba da mangiare. Per esempio, che le banane, anche un
po’ scurite, vanno bene per dolcificare i
muin”.
Se  in  un  quartiere  benestante  come
Blankenese è diicile far capire ai bambini
cosa signiica mangiare sano, iguriamoci
quanto dovrà faticare l’assistente sociale
scolastica Jeanette Premper, che lavora alla
Hegelsbergschule di Kassel, nel nord della
Germania. Prima che li portasse in gita in
un’azienda agricola, la maggioranza dei
bambini non aveva mai visto una gallina né
una mucca. Oggi a lezione si fa l’omelette
con feta, pomodori e spinaci. In uno dei
quattro box della cucina didattica, Emir,
Büsra, Max e Kathrin mescolano le uova
con il latte. Un po’ di erbe aromatiche, un
cucchiaio d’olio nella padella, e ci siamo. O
no? Quella che ribolle sul fornello somiglia
più a una minestrina all’uovo: i cuochi hanno sbagliato a misurare la quantità di latte.
E alla ine della lezione, più che di erbe aromatiche, la cucina odora d’uovo bruciato.
“I bambini devono imparare che nessun
piatto riesce perfetto al primo tentativo”,
spiega Premper. La settimana scorsa, però,
gli spaghetti al pomodoro sono venuti subito bene, e il prossimo piatto in menù è la
zuppa di patate. Nel frattempo la maggior
parte degli alunni del corso di cucina ha
preso conidenza con i fornelli e prova a cucinare anche a casa: “Ho fatto la pastasciutta tutto da solo!”, dice Emir, 11 anni. Ma
quando gli chiedo quali altri piatti conosce,
risponde tutto fiero: “I Chicken McNuggets!”. u  ma

 

domenica 8 giugno 2014

992 - La salute precaria delle banche italiane

I
l 18 marzo i mercati inanziari stavano cercando di digerire una decisione senza precedenti: Bruxelles voleva far pagare le spese del salvataggio
delle banche cipriote a chi ha un conto corrente a Cipro. a quel punto si è aperto un
altro fronte della paura nella crisi del debito europea: lo stato di salute delle banche
italiane.
Le azioni delle grandi banche olandesi,
spagnole e francesi sono crollate in tutte le
borse europee e l’euro ha perso circa lo 0,8
per cento rispetto al dollaro. E anche gli interessi sui titoli di stato delle travagliate
economie dell’eurozona sono leggermente
aumentati.
a preoccupare di più erano le obbligazioni delle quattro maggiori banche italiane, delle quali gli investitori spaventati
hanno cercato di liberarsi. Il loro timore era
di subire ulteriori perdite a causa dell’atteggiamento di Bruxelles sul salvataggio
delle banche.
anche se è troppo presto per dire se i risparmiatori italiani, spagnoli e greci, preoccupati per quello che sta succedendo a
Cipro, ritireranno i loro soldi dai conti correnti, gli investitori che hanno obbligazioni
di banche spagnole e italiane stanno già
correndo ai ripar  In Italia, devastata da un’economia stagnante che ogni giorno costringe centinaia
di piccole imprese a chiudere, gli istituti di
credito hanno più problemi delle altre banche dell’eurozona a farsi restituire i prestiti.
Questo preoccupa le autorità di vigilanza e
ha innescato la tendenza a scommettere
sul ribasso dei titoli delle banche italiane.
Per ora non è previsto nessun salvataggio europeo degli istituti di credito italiani.
Ma dopo che l’anno scorso i problemi delle
piccole casse di risparmio spagnole sono
sfociati in una crisi richiedendo l’intervento della Banca centrale europea (Bce), sono
sempre di più gli analisti convinti che le
banche italiane più in diicoltà potrebbero
essere un pericolo per tutto il sistema creditizio italiano.
Il caso Monte dei Paschi
L’Italia è stata costretta a salvare il Monte
dei Paschi di Siena, la terza banca del paese, in seguito a una grossa perdita causata
da un investimento azzardato. Ma i problemi più generali che mettono a rischio il
Monte dei Paschi e gli altri istituti di credito
– il collasso delle piccole imprese, la diicoltà di concedere prestiti e l’eccessivo afidamento che si fa sull’indebitamento per
le operazioni inanziarie – non saranno risolti rapidamente.
Se gli investitori, preoccupati dai possibili prelievi forzosi sui conti correnti dei
ciprioti e dalla ine che hanno fatto gli azionisti nella recente acquisizione dell’istituto
di credito olandese Sns Reaal (il cui investimento è stato azzerato), decidessero di non
estendere i loro prestiti alle banche italiane, il passo successivo potrebbe essere un
salvataggio, che sicuramente supererebbe
i 37 miliardi di euro che la Spagna ha avuto
dall’Europa l’anno scorso.
“In Italia la percentuale di crediti ancora non riscossi dalle banche è molto più alta
della media europea, e queste piccole banche potrebbero aver bisogno di un aiuto”,
dice Gennaro Pucci della Pve Capital, un
fondo speculativo londinese.
A determinare il calo della borsa italiana il 18 marzo sono state le obbligazioni
subordinate (titoli che in caso di liquidazione o fallimento di chi li ha emessi sono rimborsati dopo i creditori ordinari) del Monte
dei Paschi e del Banco Popolare, che sono
scese entrambe del 3 per cento, mentre la
loro rendita, che varia in modo inversamente proporzionale al prezzo, è salita sopra l’8 per cento.
Il Monte dei Paschi è stato salvato poco
tempo fa dal governo italiano. Il Banco Popolare, un’importante banca cooperativa
di Verona con un capitale di 135 miliardi di
euro, ha denunciato il 15 marzo 2013 una
perdita di 627 milioni a causa di un recupero dei crediti minore del previsto. All’inizio
dell’anno, il 17 per cento dei suoi prestiti
era a rischio esigibilità, la percentuale più
alta tra quelle delle quattro maggiori banche italiane.
Gli  investitori  sono  delusi  anche
dall’Unicredit, la più grande banca italiana, che nel quarto trimestre dello scorso
anno ha annunciato una perdita di 553 milioni di euro dovuta a un aumento del 64
per cento di liquidità accantonata per fare
fronte a un numero più alto di prestiti a rischio.
Quando il governo olandese ha rilevato
la banca Sns Reaal, chi ci ha rimesso di più
sono stati i clienti che avevano le obbligazioni subordinate. E la stessa cosa succederà a Cipro se il piano di salvataggio sarà
messo in atto.
“Le obbligazioni subordinate vanno bene se una banca deve essere ricapitalizzata”, spiega Ivan Zubo, un analista della Bnp
Paribas di Londra. Ha appena scritto un
rapporto in cui invita gli investitori a stare
alla larga dal Banco Popolare e dal Monte
dei Paschi e da altre banche di medie dimensioni che hanno problemi con il loro
portafoglio prestiti.
Accantonamenti
Vista questa tendenza, la Banca d’Italia ha
chiesto a tutti gli istituti di credito del paese
di aumentare i loro accantonamenti per i
rischi sui crediti e, a quelli che hanno denunciato perdite, di non distribuire bonus
né dividendi. Ma molti economisti, convinti che l’Europa non abbia fatto abbastanza
per le banche con problemi di liquidità dovuti alla diicoltà di recuperare i crediti,
afermano che queste misure sono troppo
deboli e arrivano troppo tardi.
Questi economisti, inoltre, sostengono
che l’Europa sta ancora cercando di riprendersi a cinque anni dall’inizio della crisi del
debito, mentre gli Stati Uniti hanno reagito
meglio costringendo le grandi banche ad
accettare, volenti o nolenti, l’aiuto del governo.
“Il motivo principale per cui l’economia
statunitense sta andando meglio è che le
autorità di vigilanza hanno immesso capitali  direttamente  nelle  banche”,  dice
Adrian  Blundell-Wignall,  il  principale
esperto di banche e stabilità finanziaria
dell’Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse). “L’Europa
ha cercato di evitare il problema, e il risultato è stato che le banche hanno smesso di
concedere prestiti, e questo sta uccidendo
l’economia”.
Più  degli  altri  economisti,  BlundellWignall è consapevole dei rischi che le
banche più fragili possono costituire per
l’economia globale. Oltre a lavorare per
l’Ocse, fa parte di una speciale commissio ne di funzionari delle banche centrali del
Financial stability board con sede a Basilea, in Svizzera, che ha il compito di individuare in tutto il mondo i luoghi in cui possono scoppiare gravi crisi inanziarie.
Secondo Blundell-Wignall, per essere
considerati sicuri in base al suo modello,
che valuta il livello di rischio delle più grandi banche del mondo, gli istituti di credito
europei devono raccogliere altri 500 miliardi di euro. Un suo studio sulle banche
più a rischio, basato su dati del 2011, rivela
che tre di queste sono italiane: Unicredit,
Intesa San Paolo e Monte dei Paschi.
Non c’è da meravigliarsi se gli investitori sono diidenti. “Non ci sentiamo molto
tranquilli ad avere i titoli di queste banche”,
dice Philippe Kellerhals della Cairn capital
di Londra, un fondo che investe nelle obbligazioni subordinate delle banche europee.
“La percentuale di crediti non riscossi dalle
banche è alta e sta aumentando”.
Kellerhals ha avvertito altri investitori
di non dare per scontato che la Banca centrale europea andrà in aiuto degli istituti
italiani. “Molti pensano che la Bce interverrà e che alla ine le banche italiane se la
caveranno benissimo”, dice. “Ma è un gioco pericoloso”.

martedì 27 maggio 2014

Dove pesca la Cina Jordan Pouille, XXI, Francia Inquinamento e pesca selvaggia hanno svuotato i fondali cinesi. Così Pechino manda i pescherecci in giro per il mondo. In Marocco, per esempio, dove però gli equipaggi non riescono ad ambientarsi. Il reportage di XXI

S
eduto al volante della sua Buick, Pan accende l’autoradio
con il suo cd preferito e su un
allegro motivetto raisi lancia
a tutta velocità sul raccordo
sopraelevato del porto commerciale di Qingdao. Sei corsie di asfalto
che sorvolano una itta schiera di case per
atterrare davanti alle navi ormeggiate alla
banchina di Heze road. Lao Pan lavora qui,
come capitano di navi mercantili. Fino a sei
anni fa era un pescatore e lavorava nell’oceano Atlantico per conto dell’azienda ittica
di Qingdao, un’impresa statale gestita dal
comune della città. Capitano di lungo corso, Lao Pan ha lavorato per otto anni al largo
del Marocco, a dodicimila chilometri dalla
sua città natale. Con la marea prendeva il
largo e portava il suo grande peschereccio
lontano, verso sud, ino al largo delle coste
rocciose e desertiche del Sahara occidentale, vicino alla frontiera con la Mauritania. A
bordo, guidava una ventina di giovani marinai: igli di contadini arrivati dalle province cinesi del Sichuan o dello Henan, e catapultati nelle acque dell’Atlantico. Con le
reti ancora umide e le stive piene di anguille, polpi e calamari, il capitano tornava nel
porto di Agadir, ai piedi dell’ex casba decorata con la scritta: “Dio, la patria, il re”.
La pesca era miracolosa: “Prendevamo
tantissimi polpi, era incredibile. Li vendevamo a diecimila dollari alla tonnellata ai
giapponesi, che ne sono ghiotti, e spedivamo le anguille in Cina”. In quegli anni, tra la
metà degli anni novanta e la metà degli anni 2000, il Marocco – così come la Mauritania, il Ghana e la Guinea equatoriale – era
un vero e proprio Eldorado. “Le peschiere
di Agadir avevano noleggiato una sessantina di pescherecci sui quali lavoravano circa
mille marinai cinesi. Come i sudcoreani, i
nostri concorrenti”. Tra una battuta di pesca d’altura e l’altra, Lao Pan aveva tre giorni di riposo. Così, con i suoi abiti migliori,
andava al porto per mescolarsi ai turisti seduti sulle terrazze dei ristoranti. Il pomeriggio si chiudeva in un internet café per parlare attraverso una webcam con sua moglie
Mei e la loro iglia Lin, che oggi ha 19 anni.
La sera, mentre i suoi marinai si giocavano
lo stipendio a poker, il capitano russava sul
divano di cuoio della segreteria della sua
peschiera, un piccolo uicio a Charaf, una
cittadina a pochi minuti a piedi dal centro
della città. “Ogni tanto con un altro capitano di Qingdao e con gli uiciali di macchina
prendevamo l’auto del padrone e andavamo ino a Marrakech, a tre ore di macchina
da Agadir. Attraversavamo l’Atlante a tutto
gas, il panorama era magniico”.
Dal suo esilio africano, Lao Pan ha portato vari gioielli d’argento e due braccialetti
d’avorio per sua moglie, che li tiene in bella
vista su un mobile in salotto. Ha conservato
anche un album di foto e lo sfoglia con aria
nostalgica, come davanti a dei ricordi d’infanzia: “Qui sono io di fronte al Nilo blu, il
mio ristorante preferito. Qui sono davanti a
un albergo di lusso pieno di francesi e là davanti a un muro. Lì i muri sono bianchi, non
come in Cina, dove tutto è grigio”. Nel suo
ultimo anno in Marocco il capitano Pan
guadagnava  600  dollari  al  mese,  senza
contare i premi, cioè uno stipendio da due a
quattro volte più alto di quello di un capitano cinese che lavora in acque nazionali. “Ci
sono andato per questo. Oggi un capitano
guadagna il doppio, senza contare i premi”.
Ma alla ine Pan ha preferito tornare in Cina. Stanco di non poter vedere crescere la
sua unica iglia, alle prese con una madre
un po’ troppo apprensiva, Lao Pan ha preferito non rinnovare il suo contratto. “Mia iglia Lin ha 19 anni. Non ha mai avuto un
ragazzo e ha paura del mondo. Con i suoi
ottimi voti avrebbe potuto studiare a Pechino, ma è troppo legata alla famiglia”. Il fratello di Pan, che lavora in Giappone da sei
anni come operaio specializzato in una fabbrica di auto, ha gli stessi problemi: “Si svena per permettere al iglio di diventare tiratore scelto nella polizia. Sono sei anni che
non si vedono e credo che non tornerà molto presto” Rientrato a Qingdao nel 2006, il capitano ha rinunciato alla pesca. A dire il vero
non ha avuto molta scelta. A due anni dalle
Olimpiadi di Pechino del 2008, la grande
baia di nove milioni di abitanti si preparava
ad accogliere le gare nautiche. La città doveva  diventare  una  vetrina  mondiale  e
l’obiettivo principale era la crescita. I piccoli  porti  lungo  la  costa  di  Qingdao  sono
scomparsi uno dopo l’altro, così come le case sul mare, davanti alle quali le donne rammendavano le reti da pesca. Sulla costa
spianata dalle ruspe, sono stati costruiti
grattacieli residenziali con pannelli solari
sui tetti e condizionatori sui balconi. Qui il
sindaco ha sistemato le famiglie dei pescatori, che in cambio hanno dovuto sborsare
le indennità ricevute per le demolizioni delle loro case. Nella fretta della preparazione
delle Olimpiadi, l’isola del Grano, un isolotto nella baia ricoperto di acacie, era stata
promessa a un emiro di Dubai che voleva
farci costruire un albergo di lusso con suite
reali sottomarine. Ma l’imprenditore ha rinunciato. Così sull’isola sono state ammucchiate le migliaia di vecchi pescherecci di
legno di Qingdao. E nella fretta, l’isola si è
trasformata nel cimitero di un tempo ormai
scomparso.
I pescatori non si sono lamentati di questa modernizzazione travolgente. L’indennità di centomila yuan (12mila euro), che si
aggiunge a una pensione mensile di duemila yuan (250 euro), gli permette di vivere
modestamente negli spaziosi appartamenti di cemento. Nemmeno Lao Pan ha rimpianti. Anche senza le Olimpiadi, dice l’ex
pescatore, il cambiamento era inevitabile:
“Quando sono tornato in Cina, nel 2006, il
pesce era quasi completamente scomparso.
E oggi in mare non c’è più nulla. Anche la
moratoria di quattro mesi sulla costa non
viene rispettata”. Della sua esperienza passata ricorda i marocchini che “ributtavano
in acqua i pesci più piccoli. Noi invece tenia mo tutto. Così adesso mangiamo pesce di
allevamento nutrito con farina animale”.
La Buick di Pan è parcheggiata sulla
banchina. Il porto mercantile di Qingdao è
il quarto più importante della Cina. Con un
thermos pieno di tè, Lao Pan indossa la sua
tuta bianca con le strisce fosforescenti cuci­
te sulle spalle e sugli avambracci. Fino alle
17 è al timone di una pilotina, e aianca nel­
le manovre i bastimenti e le navi che arriva­
no da tutto il mondo. Un “Welcome” dipin­
to su tre silos di grano accoglie le navi all’en­
trata  dell’immenso  molo.  Un  traghetto
bianco e arancione in partenza per il Giap­
pone imbarca gli ultimi passeggeri. “Guido
all’entrata e all’uscita del porto navi che mi­
surano ino a 360 metri e che possono pesa­
re ino a 220mila tonnellate”, spiega Lao
Pan. Un affare redditizio per il porto di
Qingdao, che fattura mezzo yuan alla ton­
nellata, cioè ino a tredicimila euro per ac­
compagnare le navi più grosse. Ma gli ordini
e le commesse di prodotti made in China
cominciano a diminuire, e i grandi porta­
container sono sempre meno. Questa mat­
tina, per esempio, Lao Pan è impegnato in
una lunga partita di mah-jongcon i suoi col­
leghi. Dall’oblò della timoneria climatizza­
ta si sente lo sciabordio delle onde, i rumori
delle vecchie bagnarole che galleggiano, il
frastuono dei martelli pneumatici. Un ma­
rinaio a torso nudo cerca di far ripartire il
suo motore a martellate. Altri strappano le
alghe verdi che in estate si attaccano alle
reti e invadono le spiagge. Zhu, 53 anni e 35
di pesca locale alle spalle, abita in fondo alla
baia. Secco come una canna di bambù, pan­
cia e braccia coperte di cicatrici, dice di non
amare più la vita da marinaio: “Vorrei che il
mio quartiere fosse dichiarato ‘zona di svi­
luppo turistico’. Così potrei buttare via le
mie reti come gli altri”. A Qingdao, città
portuale di quasi dieci milioni di abitanti,
rimangono solo settemila pescatori.
Altri tempi
Agadir. In agosto la temperatura siora i 47
gradi e gli abitanti, già debilitati dal digiuno
del ramadan, evitano il sole. Anche i caccia­
tori di turisti preferiscono risparmiare le
energie. Chiusa nelle case o all’ombra delle
palme, la città è addormentata, tranne al
porto, dove c’è una grande attività. Tra
qualche ora rientreranno i grandi pesche­
recci cinesi, sotto la pioggia di guano dei
gabbiani eccitati dalle stive piene. Domani
comincia la “pausa biologica”, un divieto di
pesca di altura di almeno tre mesi decisa dal
re. Le risorse si stanno esaurendo. Il polpo,
“l’oro bianco” del mare marocchino, ri­
schiava di scomparire, e una drastica mora­
toria di otto mesi, imposta nel 2003, ha li­
mitato i danni. Ma le grandi battute di pesca
raccontate da Lao Pan appartengono al pas­
sato. Le navi della peschiera di Qingdao,
inviate a 12mila chilometri dal loro porto,
sono  scomparse.  Ormeggiate  da  mesi
all’estremità in cemento della banchina
principale, due barche hanno la carena ar­
rugginita e piena di buchi.
“Non escono da un bel po’”, osserva uno
scaricatore marocchino.
“Perché?”.
“Gli afari, gli afari!”.
Le barche rimangono a galla per mira­
colo. Mano a mano sono fatte a pezzi, can­
nibalizzate, usate per riparare le navi della
lotta cinese ancora in attività. All’improv­
viso le banchine si animano. Appena le bar­
che attraccano, gli uomini cominciano ad
agitarsi tra le grida dei gabbiani. Le casse di
preziosi polpi, già congelate e imballate, so­
no issate dalle stive per essere subito spedi­
te al migliore oferente in Europa o in Giap­
pone. Avvolti in tute multistrato per afron­
tare il freddo dei depositi, i magazzinieri
con passo nervoso e spedito entrano nel
ventre delle navi per togliere dall’oscurità
migliaia di casse da sistemare e ordinare in
tutta fretta. Sulla passerella i capitani cinesi
osservano in silenzio e con attenzione. Alla
ine delle operazioni gli uomini vengono
tutti perquisiti. Una volta sistemato il carico
a terra, la lotta si raccoglie in fondo al por­
to. Sono una sessantina di barche intorno ai
40 metri, ormeggiate una accanto all’altra
su quattro ile. Di fronte, un’armata vario­
pinta di piccoli gozzi marocchini.
Ad Agadir ci sono sei aziende ittiche ci­
nesi. La più importante, quella statale, pos­
siede 25 imbarcazioni riconoscibili dal colo­
re  azzurro  dello  scafo.  Il  comune  di
Shanghai dispone della seconda lotta in
ordine di importanza: undici barche opera­
tive e sei vecchie bagnarole. “Arriveranno
tre nuove barche a ine anno”, promettono
a ogni ispezione i responsabili di Shanghai.
Due pescherecci sono ormeggiati accanto
alle vecchie imbarcazioni di Qingdao. Ap­
pena uscite dai cantieri navali, nel 1991,
queste due barche dalla chiglia di legno e
lamiera si chiamavano Cna 2711 e Cna 2712.
Una famiglia marocchina importante nel
settore immobiliare e in società con i cinesi
– la sua licenza di pesca in cambio della me­
tà degli incassi – le ha ribattezzate Rahma I
e Rahma II.
Jin Zi You, 24 anni, arrivata ad Agadir
nove mesi fa, gestisce le due imbarcazioni
che suo zio, un ricco imprenditore, ha com­
prato dalle autorità del comune di Nantong
per un pezzo di pane e ha aidato a lei. Fi­
glia di un commissario di polizia che “ha
smesso di correre dietro i delinquenti dopo
una brutta caduta” e di una madre impiega­
ta all’uicio delle imposte, Jin Zi You stava
inendo un anno di stage presso un fabbri­
cante cinese di mazze da golf, quando suo
zio le ha proposto l’avventura africana. La
ragazza ha accettato “per lo stipendio, per
l’esperienza e per il curriculum”. Sul posto
Jin ha a disposizione una vecchia Bmw e tre
volte alla settimana una donna delle pulizie
marocchina che le prepara i suoi piatti pre­
feriti.
Una volta arrivata in Marocco, Jin si è
trovata un po’ spaesata. A eccezione del ca­
pitano e dell’uiciale di macchina, entram­
bi cinesi, l’equipaggio dei due pescherecci è
locale. Per far fronte alla disoccupazione, le
autorità del regno hanno imposto questa
misura sconosciuta ai tempi di Lao Pan. Ma
la ragazza ha imparato il suo nuovo mestie­
re sulle rive dell’Atlantico. La sua attività
quotidiana? Gestire uomini dal carattere
forte e riempire le varie pratiche burocrati­
che per ottenere le sovvenzioni dello stato
cinese, come l’importante contributo an­
nuale per il gasolio di 300mila yuan (37mila
euro). Gli afari, dice la ragazza, non vanno
più molto bene, ma il governo di Pechino
vuole che si rimanga sul posto, che si occupi
il terreno.
Jin non ha grande esperienza di pesca, e
ancora meno di politica. Nella sua città na­
tale, Qidong, a 70 chilometri da Nantong, ci
sono regolarmente delle manifestazioni.
Alla ine dell’estate diecimila abitanti ar­
rabbiati hanno occupato il comune per pro­
testare contro un progetto che voleva river­
sare 160mila tonnellate di acque nere nella
baia della città. Ma la ragazza dice di non
essere al corrente di quello che succede in
patria. Quando la giovane “padrona” arriva
sulle banchine del porto di Agadir con il suo
foulard di seta giallo, il suo berretto da base­
ball con la scritta New York City e i suoi oc­
chiali da sole tempestati di Swarowski, Jin

attira gli sguardi di tutti. Coperti di gasolio
e di resti di pesce fresco, i pescatori marocchini guardano con occhi increduli le Adidas rosa luorescenti, la borsa e la giacca di
jeans attillata che le protegge la pelle bianca
dai raggi del sole. Sotto una falsa aria altezzosa, l’orecchio incollato al cellulare, Jin ripete sempre le stesse frasi senza verbo, ma
insistendo su ogni sillaba: “Questo, non
d’accordo! Questo, troppo caro!”. Gli uomini, irritati, le rispondono in spagnolo, poi in
arabo quando cominciano ad arrabbiarsi.
La nipote dell’imprenditore non sopporta che una cassa di polpi sfugga alla sua
contabilità. La sua calcolatrice vocale dai
grossi tasti verdi non mente mai. In caso di
errore l’aiuta il suo ragazzo, che le fa da interprete. L’aspetto da primo della classe di
Shen Yu Wei non fa paura a nessuno. Lui è
cortese, paziente e sa essere diplomatico.
“Qui funziona così, tutti vogliono la loro
cassa e non vale la pena arrabbiarsi”. All’entrata del porto di Agadir i guardiani hanno
imparato a salutare Shen Yu Wei con il suo
nome  occidentale,  Christophe,  per  poi
chiedergli la mancia. Jin non va mai fuori
città: anche quando le sue barche sono fuori per una battuta di pesca, preferisce rimanere a casa, dove non fa niente. “Non mi
sento sicura. Al suk mi guardano tutti come
se fossi un animale allo zoo, ed è vero che
non somiglio ai soliti turisti francesi o russi”. Così preferisce evadere, malinconica,
sul touch screen del suo smartphone e su
RenRen, la versione cinese di Facebook,
conta i giorni del suo purgatorio marocchino. Se avrà buoni risultati, tra sei mesi potrebbe tornare a casa. A volte per rendere
più piacevole un pomeriggio e per combattere un po’ la nostalgia di casa, Jin propone
ai suoi due capitani e agli uiciali di macchina un corso di cucina sul ponte del Rahma II. Così mettono un telo di plastica sul
tavolo di ferro e preparano diversi chili di
ravioli con la carne di maiale e il sedano, da
cuocere per tre minuti nell’acqua bollente.
Ma oggi Qiu, l’uiciale di macchina di
46 anni, non ha voglia di giocare al cuoco.
Esce dalla sala macchine dove combatte da
ore con la stiva refrigerata per mantenerla
alla giusta temperatura ed è arrabbiato:
“Siamo in pieno ramadan ed è impossibile
avere dei meccanici! E quegli scansafatiche
di agenti portuali non vogliono anticipare lo
scarico della merce! Sono sicuro che dovrò
fare tutto da solo con quattro pezzi di corda
del cazzo!”. Ma il nervosismo scorbutico di
Qiu lascia Jin del tutto indiferente. Il marinaio insiste: “Bisogna essere malati per lavorare in questa nave di merda. È tutto talmente marcio, ci sono così tanti problemi che anch’io ho paura”. I suoi brontolii sono
coperti  dalla  grossa  risata  del  capitano
Miao. “Se continua così, iniamo come la
lotta di Qingdao che ha fatto le valigie in
primavera”. Le voci che circolano nel porto
dicono che il comune di Qingdao ha abban­
donato il paese lasciando dietro di sé, oltre
alle vecchie barche, un debito di un milione
di dollari: stipendi non pagati, benzina, spe­
se varie. Pare che l’equipaggio marocchino
rimasto a terra sia molto arrabbiato.
L’uiciale di macchina del Rahma II è
molto preoccupato, agita le braccia e batte
il pugno sul tavolo: “Se vuoi dei pezzi di ri­
cambio per la stiva frigorifera faresti meglio
a rivendere la tua Bmw. E con il resto mi ri­
servi un biglietto di sola andata per la Cina,
sono tre anni che mi rompo le scatole qui!”.
Le nuvole di farina sollevate a ogni pugno
sbattuto sul tavolo non sembrano disturba­
re Jin. Sbadigliando in modo ostentato, la
ragazza se ne va con il suo piatto di ravioli in
cucina, dove il capitano ha fatto bollire una
pentola d’acqua su un vecchio fornello a
gas. Entrambi sanno bene che tre chili di
profumati ravioli accompagnati da gambe­
ri lambé al whisky basteranno a calmare
Qiu. Almeno ino a domani.
L’uiciale di macchina ha un brutto ri­
cordo di una battuta di pesca recente. Con
un cavo arrugginito abbandonato a prua si è
tagliato la mano e ha dovuto amputarsi un
dito. Appena parla di Agadir, questa città
agli antipodi del suo mondo, comincia a
grattarsi nervosamente il collo con il suo
indice più corto. Non se ne rende conto, è
più forte di lui. A tavola è critico: “Qualcuno
potrebbe almeno riconoscere che i maroc­
chini non sono molto furbi. Se si esclude
l’aprire una cella frigorifera, mi chiedo che
cosa sappiano fare questi marinai”. Spesso
si annoia: “Qui non c’è niente da fare. Nes­
sun centro commerciale, nessun giardino
all’ombra dove sedersi. Solo una spiaggia,
dei bar e dei ristoranti per turisti. Ah sì, ci
sono anche due supermercati dove la birra
e il whisky sono più cari che in Cina. Biso­
gna essere pazzi per rimanere!”. Qiu si è
appena servito il quinto whisky.
In Cina Qiu ha un appartamento di 160
metri quadrati al piano terra di un ediicio
degli anni novanta in stile sovietico. Gli pia­
cerebbe poterlo rivendere per comprare a
sua moglie un appartamento moderno di
quattro stanze: “È molto attenta alle nuove
tendenze, passa le sue giornata nelle bouti­
que alla moda”. Per ora risparmia per gli
studi  della  sua  unica  figlia,  ammessa
all’università di Nanchino: “Ogni sei mesi
verso il mio denaro su un conto in Cina.
Questo mi permette di non spendere trop­
po qui”. Sul ponte del peschereccio illumi­
nato dalla luna piena, Qiu si accende un’ul­
tima sigaretta, e senza dire una parola torna
con passo titubante nella sua cabina. Il gior­
no dopo il capitano Miao, 52 anni, è immer­
so nella lettura delle sue email. Nella sua
cabina non ci sono bottiglie di whisky ma
un cesto di frutta, un binocolo, due compu­
ter portatili, un calendario illustrato di pae­
saggi idilliaci dello Yunnan e tre poster di
bellezze asiatiche più o meno succinte. Il
capitano vive qui tutto l’anno, e quando
esce chiude la porta con il lucchetto: “Mi
hanno già rubato un computer, e a Qiu han­
no preso il cellulare mentre era andato a
pisciare”.
I due pescherecci Rahma sono stati con­
cepiti per periodi di pesca d’altura e non per
abitarci. Gli spazi sono ristretti, il comfort
molto ridotto. La promiscuità quotidiana
aumenta le tensioni. Per evitare i problemi,
i marinai marocchini e gli ufficiali cinesi
fanno attenzione a non incrociarsi nei cor­
ridoi. Il giovane equipaggio del pescherec­
cio è andato a festeggiare il ramadan in fa­
miglia. Le piccole cabine collettive sono
coperte da almeno una decina di mani di
vernice. Ci sono foto di rapper americani
insieme a scritte a pennarello, “fuck the
world” o “motherfucker”. Ma c’è anche un
passaggio della sura Al Alaq del Corano, do­
ve si legge: “Hai visto colui che impedisce al
servo di eseguire l’orazione? (…) Non sa che,
invero, Allah vede? Stia in guardia: se non
smette, noi lo aferreremo per il ciufo. Il
ciufo mendace e peccaminoso!”. Miao si
arrabbia spesso con i suoi uomini perché
pregano cinque volte al giorno, prendono la
bussola per localizzare la Mecca e usano
l’acqua dolce per le abluzioni.
Sono passati sei anni dalla partenza di
Lao Pan, l’ex pescatore tornato nelle sue
terre, ma per i cinesi che l’hanno sostituito
la dolce vita marocchina è diventata una
sorta di miraggio. A volte Miao è demoraliz­
zato, come questa sera dopo una riunione
decisamente animata: “I marinai minac­
ciano di scioperare e di non occuparsi più
delle nostre barche, vogliono un capitano
locale.  E  i  nostri  soci  marocchini  fanno
pressione per non aumentare gli stipendi”,
spiega il capitano parlando con Jin, che do­
vrà decidere cosa fare.
Miao fugge dalle chiacchiere e gli piace
andare a mangiare in un vecchio ristorante
spagnolo. Il problema è che non può soddi­
sfare i piaceri della carne. Alcune donne li­
tuane ofrono i loro favori in tristi discote­
che sul mare, ma i tempi sono cambiati. La
clientela cinese non può più entrare. “I sud­
coreani bevevano come spugne e amavano
le risse. Adesso sono andati via tutti, ma i
buttafuori ci confondono ancora con loro”.
Qiu scoppia a ridere: “Comunque ci si di­
verte più ad Agadir che in Mauritania!”. Il
suo scalo preferito rimangono le Canarie:
“A Las Palmas ci sono spiagge dove sono
tutti nudi, è incredibile!”.
Jin e il suo ragazzo, Shen, vanno all’aero­
porto per accogliere un professore universi­
tario “molto rispettato in Cina”. Specialista
di risorse marine, lo scienziato conduce
delle ricerche che riguardano il futuro della
pesca cinese in Marocco. Il professore deve
determinare se la pesca della sardina, anco­
ra abbondante in queste acque, possa sosti­
tuire quella del polpo. “A quanto pare le
autorità marocchine ci chiedono di investi­
re e di spendere molto denaro, ma ingono
di ignorare che noi qui abbiamo già le no­
stre navi”. Se i marocchini accettassero di
condividere questa nuova ricchezza, allora
le aziende ittiche cinesi potrebbero manda­
re altre navi.
Le nuove leve
Qingdao. Al liceo professionale marittimo
della città ci si prepara all’invio di nuove
lotte in giro per il mondo. “Gli studenti bra­
vi sono indirizzati alla marina mercantile,
ma per i meno bravi la pesca d’altura rima­
ne la soluzione migliore”, spiega Mu Feng,
il segretario del partito del liceo, orgoglioso
di presentare il suo prestigioso istituto. Nel­
le aule, gli adolescenti in tuta da lavoro, da­
vanti a marinai diventati insegnanti, ma­
neggiano degli strumenti prima di riprodur­
li disegnandoli sotto tutte le prospettive. Al
quinto piano di un dormitorio lì accanto,
altri si riposano e sognano. Figlio di conta­
dini del Sichuan, Chang Zheng sogna, steso
sul suo letto, di vedere il mondo. Vuole di­
ventare pescatore e gli piacerebbe molto
vedere “l’Olanda e i suoi mulini”. A 19 anni
segue un corso gratuito di quattro anni. Un
giorno sostituirà Lao, Qiu e Miao. u  a