giovedì 13 novembre 2014

993 - A tavola con l’assassino Der Spiegel, Germania Foto di Thomas & Quentin

Grassi, sale e zucchero. Sono i tre ingredienti base
che l’industria alimentare usa nelle merende
e in altri prodotti di largo consumo, che creano
dipendenza e danneggiano la salute.
Un libro appena uscito negli Stati Uniti denuncia
le responsabilità delle grandi multinazionali


I
l sacchetto si apre con un fruscìo.
L’aroma di carne afumicata sale
nel naso. Ed eccole, le allettanti
patatine: sottilissime, vaporose,
spolverizzate di rosso. Appena la
prima tocca la lingua, in bocca si
difonde un piacevole gusto salato, che però
svanisce rapidamente. Cric, croc. Si scioglie in bocca, e in un attimo è già inita. Resta solo un leggero retrogusto. E la voglia di
mangiarne ancora. La mano corre di nuovo
al sacchetto.
Milioni e milioni di persone ogni giorno
cedono alla tentazione degli snack a base di
patate. Ma nessuna ha idea di quanti studi
si nascondano dietro a questa semplice
esperienza, a cui spesso non riesce a resistere neanche chi sa benissimo che le patatine fritte sono uno dei cibi ipercalorici più
malsani. I tedeschi ne consumano quasi
400 milioni di confezioni all’anno.
Perché  perdiamo  tanto  facilmente  il
senso della misura quando ci mettono sotto
il naso un sacchetto di patatine fritte? Non
può dipendere dalle patate: inora nessuno
ha mai sentito parlare di orge a base di patate sbucciate. E poi le patatine fritte confezionate hanno poco a che fare con le patate
vere. Nel processo di produzione, quasi nulla è lasciato al caso: sono un prodotto artiiciale rainato che grazie a una serie di trucchi induce le persone a mangiarne il più
possibile e il più spesso possibile.
Prendiamo  per  esempio  il  concetto
scientiico di “punto di rottura”. Le industrie alimentari hanno scoperto che la maggioranza dei consumatori preferisce una
patatina che si spezza sotto una pressione
di 276 millibar. È così che il croc dà il massimo del gusto e fa venir voglia di mangiare
subito un’altra patatina. Anche il fatto che il
boccone si disi all’istante, dissolvendosi
sotto i denti, è frutto di un calcolo. Tutti infatti tendiamo a credere che un cibo che si
scioglie rapidamente sulla lingua contenga
poche calorie. E così sgranocchiamo una
patatina dopo l’altra ino a vuotare il sacchetto.
Poi ci sono le sostanze che servono da
esca per il cervello. Per esempio un’abbondante dose di sale sulla supericie di certi
alimenti attiva il meccanismo neuronale
della ricompensa. Bliss pointo punto di beatitudine è il nome che le aziende danno
alla dose di sale che procura il massimo
“sballo”. L’amido, un tipo di zucchero che fa
aumentare e poi rapidamente scendere la
glicemia, aumenta l’appetito. Inine c’è il
grasso, di cui le patatine sono imbevute: è
quello che procura la piacevole sensazione
vellutata in bocca.
Non si può rimproverare l’industria alimentare se cerca di rendere appetitosi i suoi
prodotti o di incoraggiarne il consumo: è la
legge del mercato. Ma c’è da chiedersi se
questa politica non vada limitata in qualche
modo. Che dire dei produttori che mettono
a rischio intenzionalmente, o addirittura
dolosamente, la salute dei consumatori,
lanciando sul mercato prodotti che creano
dipendenza? Che fare quando gli scienziati
arrivano alla conclusione che il consumo di  

massa di alimenti industriali a basso prezzo
ha provocato la più grande crisi sanitaria
del nostro tempo?
Gli  scandali  alimentari  che  recentemente hanno scosso la Germania – la presenza di carne di cavallo in certe marche di
lasagne, l’imbroglio delle uova “biologiche”,  l’aggiunta  di  enzimi  ricavati
dall’Aspergillus, un fungo tossico, ai mangimi per l’allevamento – pongono al centro
dell’attenzione un’industria potente e globalizzata. La carne avariata nel kebab, il
into prosciutto sulla pizza, le sostanze chimiche cancerogene nelle patatine fritte:
quando si scoprono queste cose, l’opinione
pubblica protesta. Ma nel giro di qualche
giorno l’agitazione si placa. E la grande abbufata continua.
Ora però sembra che la situazione stia
cambiando. Sta nascendo un movimento
internazionale, a cui partecipano medici,
nutrizionisti, psicologi e associazioni per la
tutela dei consumatori, che vuole mettere
al centro dell’attenzione un tema molto più
importante.
Secondo gli esperti di salute, il vero problema non sono né le soisticazioni alimentari né le singole sostanze nocive, ma il generale aumento di peso delle persone. Gli
scienziati lo dicono chiaramente: le patatine piene di grasso, le bevande gassate zuccherate e i prodotti alimentari troppo rainati non sono diversi da altri due veleni altrettanto piacevoli e onnipresenti, il tabacco e l’alcol.
Nel suo nuovo libro Salt sugar fat: how
the food giants hooked us, appena uscito negli Stati Uniti, il premio Pulitzer Michael
Moss descrive tutti i trucchi con cui le industrie alimentari spingono le persone a mangiare sempre di più, ino ad ammalarsi. I
giganti dell’alimentazione, spiega Moss,
conoscevano gli efetti devastanti dei loro
prodotti sulla salute dei consumatori, e se
ne sono inischiati. Moss ha ricostruito un
incontro che si svolse l’8 aprile 1999 nel
quartier generale della Pillsbury, a Minneapolis. C’erano i capi dei più grandi gruppi
del settore: Nestlé, Kraft, Coca-Cola, Mars,
Nabisco, Pillsbury, General Mills e Procter
& Gamble. L’argomento all’ordine del giorno era l’allarmante aumento dell’obesità
nei bambini. Michael Mudd, uno dei vicepresidenti della Kraft, andò subito al sodo:
“Non ci sono risposte semplici alla domanda su cosa debbano fare i responsabili della
salute pubblica per arginare il problema, né
su cosa debba fare l’industria alimentare se
altri la accuseranno”. Solo una cosa è certa,
concluse, “non possiamo non fare niente”.
Alla ine del suo intervento Mudd propose
di limitare l’impiego di sostanze dannose
per la salute e ripensare le strategie di marketing delle aziende alimentari. Ma il suo
appello incontrò un netto riiuto, e la riunione si concluse con un nulla di fatto.
Irresistibili
A 14 anni di distanza, nel febbraio del 2012,
la rivista scientiica The Lancet ha pubblicato uno studio condotto da un’équipe internazionale di epidemiologi. I risultati sono agghiaccianti: gli impegni presi dall’industria alimentare, le tante buone intenzioni, non sono serviti a nulla. Come spiega
Rob Moodie dell’università di Melbourne,
che ha guidato la ricerca, sperare che le
aziende fabbricassero prodotti più sani e si
occupassero del benessere e dell’indice di
massa corporea dei consumatori è stato come “chiedere a dei ladri d’appartamento di
montare la serratura”. Finora la potente
lobby del settore alimentare è riuscita a sof focare sul nascere i tentativi dei politici europei e statunitensi di proteggere i cittadini
dall’invasione di calorie promossa dall’industria alimentare con l’aiuto di leggi o regolamenti. Associazioni per la difesa dei
consumatori, aziende sanitarie e pediatri
hanno preteso invano che i cibi dannosi per
la salute fossero almeno contrassegnati in
modo chiaro.
Intanto la situazione peggiora: nel 2010
quasi 35 milioni di persone nel mondo sono
morte di malattie non trasmissibili come il
cancro, l’infarto e il diabete. Nello stesso
anno il 65 per cento dei decessi era riconducibile almeno in parte ad abitudini di vita
malsane: fumo, alcol, scarso esercizio isico, ma anche assunzione di bombe caloriche ad alto tenore di grassi.
Il problema è particolarmente grave negli Stati Uniti: un adulto su tre è obeso, un
bambino su cinque è troppo grasso. Gli
americani malati di diabete di tipo 2 sono
26 milioni. Anche in Germania la situazione è preoccupante: un adulto su cinque e un
bambino su dieci sono obesi e secondo il
Robert Koch-Institut, un istituto di ricerca
biomedica tedesco, il 67 per cento degli uomini e il 53 delle donne sono sovrappeso.
Come siamo arrivati a questo punto?
Che ruolo ha avuto l’industria alimentare?
E soprattutto, come possiamo evitare la catastrofe? Lo abbiamo chiesto a David Kessler, il giurista e medico di Harvard che negli anni novanta, quando dirigeva la Food
and drug administration, l’ente statunitense per la tutela della saluta pubblica, ha
condotto una dura battaglia contro le lobby
del tabacco e ha contribuito a negoziare un
accordo miliardario tra i produttori di sigarette e 46 stati americani. Il suo ultimo libro, Overeating, è un atto di accusa contro
l’industria alimentare.
Oggi Kessler ha 61 anni e insegna pediatria  all’università  della  California  a  San
Francisco. Ci accoglie nella sua graziosa
villa, in una delle tipiche stradine ripide del
centro di San Francisco, e viene subito al
dunque. Prende un pezzo di carta e con la
biro abbozza un graico del tema centrale
del suo studio, la bulimia. Prende diversi
anni e confronta il peso corporeo e l’età delle persone: nei più giovani la curva si inarca
verso l’alto, proprio come una pancia. “Oggi i ventenni pesano almeno otto chili in più
rispetto a quarant’anni fa”, spiega. “Ho cercato di capire perché, e come mai molti trovano così diicile resistere a questo desiderio incontenibile di cibo”.
Per cominciare, Kessler ha studiato la
dieta dell’americano medio. Si è intrufolato
di notte nei ristoranti per frugare nella spazzatura e ha studiato le etichette dei cartoni
vuoti. Così ha capito cosa viene servito davvero ai tavoli. Si può riassumere in tre parole: sale, zucchero, grasso. Le stesse tre parole che ha scelto Michael Moss per il titolo
del suo libro. Lo ha scritto dopo quasi quattro anni di ricerche, centinaia di colloqui
con dirigenti e dipendenti di grandi industrie alimentari, chimici, nutrizionisti, studiosi del comportamento, esperti di marketing e lobbisti. Con il loro aiuto ha ricostruito in che modo, nei laboratori delle industrie, in pochi decenni siano stati creati, a
partire da cibi veri, dei prodotti artiiciali
pieni di zucchero, sale e grasso. “In realtà
volevo scrivere un libro sullo zucchero, perché lo consideravo l’elemento più dannoso
della nostra alimentazione”, spiega. “Ma
nel corso delle ricerche ho capito che anche
il grasso stimola le persone a mangiare
sempre di più, e che forse il sale è perino
più importante per l’industria alimentare”.
Ma questo basta per spiegare l’epidemia
di obesità? In fondo, nella loro forma pura,
né lo zucchero né il sale né il grasso hanno
mai mandato in estasi nessuno. Eppure
sembra che la voglia di dolce sia innata: i
neonati reagiscono con piacere quando gli
si mette in bocca qualche goccia di una soluzione zuccherata. Il fenomeno ha una
spiegazione perfettamente logica dal punto
di vista della biologia evolutiva: in natura il
sapore dolce contraddistingue soprattutto
gli alimenti ricchi di calorie. E per i nostri
antenati era consigliabile mangiare tutta la
frutta dolce che trovavano: era un piacere
raro.
Nell’epoca dell’abbondanza però le cose
sono diverse. Esperimenti condotti sui topi
hanno dimostrato che lo zucchero produce
nel cervello lo stesso schema di attività delle droghe che danno dipendenza. Il suo potenziale di assuefazione non è paragonabile
a quello dell’eroina o della cocaina, ma è
suiciente a far sì che la maggior parte delle
persone ceda alle molteplici e onnipresenti
tentazioni del gusto dolce.
Gli statunitensi consumano ogni anno
58 chili di zucchero a testa, i tedeschi circa
36, il doppio rispetto alla quantità consigliata dalla Società tedesca per la nutrizione.
L’83 per cento dello zucchero si nasconde
nei cibi precotti. I produttori lo usano non
solo perché stimola l’appetito, ma anche
perché, se aggiunto a certe sostanze aromatizzanti, può sostituire ingredienti più costosi, come la frutta e la verdura.
Ma torniamo ai neonati. Diicilmente la
somministrazione di una soluzione salina
suscita in loro reazioni entusiastiche, perché il desiderio di sale si sviluppa con il passare del tempo. Resta il fatto che il cloruro

di sodio è essenziale per la vita: nervi, reni,
ossa, ogni cellula del nostro corpo ne ha bisogno. Il sale che gli esseri umani perdono
con il sudore e con le altre escrezioni (da
uno a tre grammi al giorno) deve essere
reintegrato attraverso gli alimenti.
Molto tempo prima che i supermercati
si riempissero di patatine grasse e cibi pronti ultrasalati, il sale era raro e prezioso: nel
medioevo le città anseatiche costruirono il
loro benessere sull’“oro bianco”. Il sale serviva da moneta (da cui “salario”) e fu una
delle prime sostanze usate per conservare
gli alimenti. L’evoluzione ha iscritto questa
predilezione per il sale nei nostri circuiti cerebrali più primitivi. I nostri antenati, vivendo in un clima caldo, perdevano ogni
giorno molto sale attraverso il sudore, e non
sempre riuscivano a reintegrarlo. Ma l’assunzione di sale stimola la distribuzione
della dopamina nel diencefalo, un efetto
che spingeva gli uomini delle caverne a ricostituire le loro riserve di sale. In altri termini, il nostro corpo dispone di un sistema
di ricompensa che garantisce la nostra voglia di sale, a volte anche in quantità eccessive. Oggi, infatti, quasi tutti assumiamo
più sale del necessario, e solo il 10 per cento
circa del sale che assumiamo proviene dalla
saliera: il resto si annida nel pane e nei cracker, nelle patatine e nei pasti pronti da
scaldare al microonde. Insomma, nei prodotti di un’industria che ha capito da tempo
come trarre il massimo del proitto da istinti umani antichissimi.
Poi  c’è  il  grasso,  la  terza  esca  usata
dall’industria alimentare. Il grasso in primo
luogo fa da veicolo ai sapori, perché molte
sostanze aromatiche sono solubili nei grassi. Se uno schizzo di panna liquida migliora
il gusto di un sugo per la pasta, è per motivi
puramente biochimici. Ma il grasso determina anche la consistenza degli alimenti, la
sensazione che ci danno in bocca. Le persone a cui piace versarsi in bocca una bustina
di zucchero sono pochissime, ma nella giusta combinazione con il grasso, lo zucchero
può diventare irresistibile: pensate al gelato
o alla cioccolata.
In conclusione, zucchero, sale e grasso
dispiegano al massimo la loro forza d’attrazione quando sono abilmente mescolati tra
loro in combinazioni, quantità e forme diverse.  Un  esperimento  condotto  dallo
scienziato Barry Lewin presso la New Jersey medical school mostra il potere di queste sostanze. Lewin ha lavorato su un gruppo di topi di laboratorio che normalmente
smettono di mangiare quando sono sazi.
Quando però, al posto del solito mangime
in pellet, gli ha somministrato un composto

cremoso  di zucchero e grasso, tutte le dighe
sono crollate: “Non la inivano più di rimpinzarsi”, racconta Lewin.
Il commento di David Kessler è disincantato: “I cibi industriali sono composti da
tanti di quegli strati di grasso, zucchero e
sale, che sotto è diicile trovarci ancora del
cibo vero”. Secondo lui, più questi cibi sono
disgustosi e più è diicile resistergli. Kessler
sa di cosa parla: l’esperimento lo ha fatto su
se stesso. Ha comprato dei biscotti al cioccolato (cioè un concentrato di zucchero e
grasso più una presa di sale) e li ha posati sul
tavolo da pranzo davanti a sé. La tentazione
di prenderne uno, racconta, era enorme.
Ha resistito per ore, poi ha lasciato la confezione sul tavolo ed è andato in un cafè vicino a casa sua. A quel punto, di fronte ai dolci in vetrina, la sua determinazione è crollata e ha divorato un brownie.
Kessler si consola con una spiegazione
scientiica. Nel cervello abbiamo dei circuiti – lui li deinisce “circuiti della motivazione abituale” – che si formano quando siamo
bambini e sono attivati da speciiche condizioni che si veriicano nell’ambiente. Alcuni
cibi sono in grado di condizionare il nostro
cervello come quello di un tossicodipendente. Si tratta di cibi particolarmente desiderabili che stimolano la produzione di
dopamina. Al punto che dopo un po’ basta
vederli perché i circuiti si attivino. L’unica
via d’uscita da questa trappola alimentare,
secondo Kessler, è evitare per quanto possibile l’attivazione di questi circuiti. Lui stesso, quando va all’aeroporto di San Francisco, si tiene alla larga dalla tavola calda per
non vedere la vetrina dei ravioli fritti. Sa che
se ci si avvicina è perduto: “Un boccone di
quella roba equivale a un istante di beatitudine”, spiega. “Dimentichi ogni stress e
non t’importa più nulla. Un attimo dopo sei
lì che ti chiedi: perché l’ho fatto?”.
Ma è proprio questa la reazione che l’industria del cibo cerca. Nel suo libro Michael
Moss racconta quanto spendono le industrie per ottimizzare i loro prodotti. Prendono dei consumatori e li tengono per ore nei
loro laboratori ad assaggiare, gustare, sorseggiare, annusare e palpare. Ogni loro
sensazione viene accuratamente registrata
e inserita in un computer. Poi, con l’aiuto di
una procedura statistica detta analisi congiunta, ottengono la combinazione ottimale tra esaltatori del gusto, confezionamento
e colore del prodotto.
Ma gli strateghi dell’industria sanno anche che non devono idarsi delle prime reazioni delle loro cavie. Non sempre, infatti,
quello che gli piace istintivamente è anche
quello che alla ine mangeranno. La regola
generale è un’altra: un prodotto che si vende in grande quantità non può essere troppo buono. Gli esperti chiamano questa legge apparentemente paradossale “sazietà
sensorio-speciica”. Signiica che, quando
viene inondato da stimoli gustativi troppo
marcati, il cervello umano reagisce attenuando il desiderio di ripetere l’assunzione
del cibo che li provoca. Il miglior modo di
“ingannare” questa reazione, quindi, è proporre sapori familiari e non troppo intensi.
Kessler non ha dubbi sul fatto che i fabbricanti usino questi meccanismi in modo
consapevole: “Il business plandelle moderne industrie alimentari consiste nel produrre miscele di grasso, zucchero e sale, renderle disponibili 24 ore al giorno a ogni angolo di strada, e farlo sapere a tutti con una
campagna promozionale basata sulle emozioni”.
Kessler ha vinto una battaglia molto dura contro l’industria del tabacco. E pensa
che quella contro le multinazionali dell’alimentazione sia ugualmente dura, anche se
in modo diverso: “Il fumo si poteva proibire”, osserva. “Abbiamo demonizzato il tabacco, ma non si può demonizzare il cibo”. Kessler spera
invece di suscitare nell’opinione
pubblica  un  grande  dibattito
sull’alimentazione.  “La  prima
domanda da farsi dev’essere: quello che
mangiamo è davvero ancora cibo? La seconda è: quali sono i cibi che desideriamo
davvero mangiare?”. In altre parole, qualcosa cambierà solo quando i consumatori
impareranno a guardare le cose da mangiare sotto un’altra luce. È stato così anche per
le sigarette: “Prima vedevamo la sigaretta
come un’amica, qualcosa di desiderabile,
sexy e fascinoso. Ora la vediamo come un
prodotto mortale, schifoso, che dà dipendenza”.
Questione di vita o di morte
Secondo Robert Lustig, un collega di Kessler che insegna pediatria clinica all’università della California a San Francisco, suscitare un dibattito non basta. Nel 2009 Lustig, che oggi ha 56 anni, è diventato famoso
grazie a una conferenza tenuta alla sua università e intitolata “Zucchero: l’amara verità”. Il video della conferenza è stato visto su
YouTube più di tre milioni di volte. Lustig si
presenta al nostro incontro con una camicia
turchese brillante. Mi ha dato appuntamento alla mensa dell’Hastings college of law
dell’università: la frequenta da quando ha
chiesto un anno sabbatico per prendere un
master in giurisprudenza. La specializzazione gli serve per prepararsi alla battaglia
contro l’industria alimentare. “Il punto è: ci
sono vie legali per mettere i bastoni tra le
ruote all’industria alimentare? La risposta
è: assolutamente sì”.
Nella sua tesi, Lustig cercherà di proporre un parallelo con la campagna contro le
sigarette degli anni sessanta. Secondo lui la
battaglia contro l’industria alimentare dovrebbe seguire esattamente il “copione tabacco”: in entrambi i casi, infatti, si tratta di
una questione di vita o di morte. “Il problema non è che le aziende alimentari mettono
sul mercato prodotti irresistibili”, osserva.
“Il problema è che questi prodotti sono tossici e la gente ne muore”.
Mentre parla, Lustig si arrabbia. Oggi è
particolarmente nervoso, perché tra ventiquattr’ore presenterà insieme ad alcuni
colleghi uno studio che stabilisce un rapporto epidemiologico tra il consumo di zuccheri e il diabete. Gli studiosi hanno confrontato la quantità di zuccheri presente
negli alimenti con l’incidenza del diabete in
175 paesi negli ultimi dieci anni. Risultato:
più zuccheri nei cibi hanno determinato
ovunque tassi di diabete più elevati. La sorpresa è che il numero
delle persone obese non c’entra
proprio niente. Negli Stati Uniti i
disturbi del metabolismo riguardano più o meno lo stesso numero di normopeso e di obesi. “Lo zucchero è
veleno”, è la sua conclusione: “A prescindere dalla quantità di calorie”.
Lustig è un esperto di disturbi ormonali
e obesità nei bambini. È molto preoccupato
per  il  numero  crescente  dei  cosiddetti
“grassi di 6 mesi”, cioè i bambini che sono
sovrappeso già al momento di venire al
mondo o quasi. “In molti paesi, il peso dei
bambini alla nascita è signiicativamente
più alto rispetto a venticinque anni fa”, spiega. All’origine del problema, secondo lui,
c’è l’alimentazione sbagliata delle madri.
Ma non sono loro a dover inire sul banco
degli imputati: “I consumatori non hanno
scelta”, spiega. Sugli scafali dei supermercati statunitensi ci sono 60mila prodotti
alimentari diversi. Nell’80 per cento dei casi contengono zuccheri aggiunti. I cibi non
alterati sono rari, e più costosi: “Molte persone semplicemente non possono più permettersi il cibo vero”.Poi c’è l’imbroglio dei nomi degli ingredienti. Negli Stati Uniti ci sono 56 modi diversi per indicare la presenza di zucchero
negli alimenti. “Molti sono incomprensibili, e alcuni addirittura illegali”, dice Lustig.
Cosa sarà mai, per esempio, lo “zucchero di
canna evaporato”? Il produttore dello yogurt Chobani è al centro di una serie di cause collettive in California e nello stato di
New York perché stampa sui prodotti diciture come queste, che le autorità sanitarie
deiniscono “false e fuorvianti”. Nei procedimenti giudiziari, Lustig è intervenuto in
qualità di perito. “I fabbricanti hanno carta
bianca”, afferma sempre più arrabbiato.
“Possono mettere nei loro prodotti tutto lo
zucchero che vogliono”. Per cambiare serve
la pressione forte e compatta dell’opinione
pubblica: “Anche l’industria del tabacco ha
reagito solo quando non ha più potuto evitarlo”.
Il kebab di Ahmed
Ahmed è alto un metro e 70, pesa cento chili e si cura con otto farmaci diversi. Vive a
Berlino. Alla mano destra porta un guanto
protettivo perché le dita gli formicolano di
continuo: come molti pazienti affetti da
diabete di tipo 2, l’aumento della glicemia
gli ha danneggiato le terminazioni nervose.
Lo incontro nei locali del servizio di consulenza nutrizionale oferto dal reparto di endocrinologia, diabete e medicina del ricambio della clinica medica dell’ospedale della
Charité. Nell’ingresso, per i clienti “di peso” è a disposizione una poltrona avvitata al
pavimento con una seduta di 83 centimetri.
Gli incontri che si svolgono qui servono a
insegnare agli obesi a mangiare in modo
sano. Secondo Rotraud Zehbe, una snella
signora di 60 anni che fa la consulente nutrizionale, i professori sanno poco o nulla di
questo argomento. Zehbe tiene sul tavolo
un assortimento di inti panini, melanzane,
pomodori, carote e salsicce. I suoi pazienti
hanno una caratteristica in comune: siccome non sanno cucinare, si nutrono quasi
esclusivamente  di  cibi  pronti  o  nei  fast
food.
Ahmed giocherella con una bustina di
dolciicante e guarda Zehbe pieno d’aspettativa. “Quando assumiamo più energia di
quella che ci serve”, comincia lei, “aumentiamo di peso. Quindi per perdere peso
dobbiamo eliminare qualcosa”. Il paziente
annuisce. Molte persone non bevono abbastanza: per il buon funzionamento del metabolismo un adulto sano dovrebbe assumere ogni giorno, per ogni chilo di peso
corporeo, 35 millilitri di liquidi privi di zucchero: acqua o tè, ma niente alcol né succhi

di frutta o latte. Ahmed ogni giorno si scola
un litro di latte ed è convinto che contenga
soprattutto acqua. “Già”, ribatte Zehbe. “E
al lattosio non ci pensa?”.
E qui comincia a parlare di grassi: a una
donna ne bastano circa 60 grammi al giorno, a un uomo 80. L’olio d’oliva e di colza è
buono, i grassi animali no. Gli insaccati sono da evitare: troppo grassi. “Buttiamoli
nella spazzatura”, esorta Zehbe. Quando
comunica ad Ahmed che dovrà lasciar perdere anche la carne grondante di grasso del
kebab, lui la guarda avvilito. La carne va bene, purché sia magra, gli spiega Zehbe. La
sua regola generale è che ogni giorno si possono consumare dagli 80 ai 100 grammi di
proteine. L’azoto delle proteine viene eliminato con le urine sotto forma di urea, che
aiuta il metabolismo a bruciare più energia.
Per inire, Zehbe afronta le sostanze più
problematiche: i carboidrati. Sono generatori di energia che si annidano in molti alimenti. Troppi carboidrati fanno male, perché il fegato li trasforma in grasso, quello
che poi si accumula sulla pancia. Quindi
Ahmed dovrà rinunciare al muesli, ai dolci
e alla Nutella.
Ora Zehbe passa a spiegare, servendosi
dei suoi inti alimenti, cosa si può mangiare
ogni giorno per assumere la giusta quantità
di carboidrati: un panino spalmato di miele, una mela, due patate,
una grossa fetta di pane, un cestino di fragole e, “per il piacere”,
un minuscolo pezzetto di cioccolato. Ahmed non sembra convinto. Come per consolarlo, la nutrizionista
raccomanda al suo corpulento paziente di
mangiare verdure, sia cotte al vapore sia
crude. Serve a combattere la fame, spiega,
così come il formaggio quark magro. Mescolato con un po’ d’acqua e messo in vasetti di vetro, può essere una merenda da portare con sé al lavoro.
Certo, Ahmed sarebbe meno avvilito se
fare la spesa fosse un’impresa semplice. Se
i prodotti nei supermercati non avessero
etichette così diicili. Lo sanno tutti che il
riso integrale accompagnato da verdure
fresche cotte al vapore è sano: ma se uno
non ha tempo per cucinare? Quali sono i
cibi pronti che contengono solo zucchero,
sale e grasso, e quali si possono deinire il
male minore? Per esempio, se uno vuole a
tutti i costi fare una colazione a base di cereali, quali scegliere? Esiste uno yogurt alla
frutta che non sia troppo dolce né troppo
grasso?
Nel 2006 la Food standards agency britannica ha proposto, su incarico del parla-44 Internazionale 993 | 29 marzo 2013
mento, di contrassegnare le confezioni degli alimenti con dei piccoli semafori per far
capire quanto grasso, zucchero e sale contenessero 100 grammi di prodotto: rosso
per una percentuale nociva, giallo per una
media, verde nessun pericolo.
Dopo alcune esperienze positive nel Regno Unito, anche gli scienziati tedeschi
hanno proposto, nel novembre del 2005, un
sistema segnaletico simile, e hanno invitato
la lobby dell’industria alimentare a partecipare al progetto. Associazioni professionali
come quella dei medici pediatri, organizzazioni di consumatori e i Verdi si sono schierati a favore dei semafori, e così anche il 69
per cento dei cittadini interpellati in un
sondaggio.  Ma  Ilse  Aigner,  la  ministra
dell’alimentazione, dell’agricoltura e della
protezione dei consumatori, si è detta contraria, così il problema è stato sottoposto
all’Unione europea. A quel punto associazioni e imprese hanno cominciato a bombardare gli europarlamentari di telefonate,
email e documenti. I lobbisti hanno sostenuto che i valori limite
usati per classiicare gli alimenti
erano arbitrari. E alla ine sono
riusciti a far respingere la proposta dei semafori. Oggi in Germania la percentuale di grasso, zucchero e sale
presente negli alimenti è indicata esclusivamente da numeri.
I marchi della salute
L’esempio della Finlandia mostra che un
sistema di segnalazione può non solo modiicare i comportamenti delle persone, ma
forse salvargli perino la vita. Alla ine degli
anni settanta le autorità sanitarie inlandesi
registrarono un numero allarmante di infarti. Da alcuni studi emerse che l’alimentazione ricca di sale era un fattore di rischio
determinante. Oggi sugli alimenti poveri di
sale spicca un cuoricino rosso con la scritta
parempi valinta, “scelta migliore”, mentre
gli alimenti ad alto tenore di cloruro di sodio sono contrassegnati dall’avvertenza
voimakassuolainen(“molto salato”). L’introduzione di queste etichette ha avuto un
successo sbalorditivo: oggi i inlandesi consumano un terzo di sale in meno rispetto a
trent’anni fa e la mortalità per infarto e ictus è diminuita di circa l’80 per cento.
Invece in Germania le proposte di introdurre scritte chiare, i divieti di fare pubblicità ai cibi malsani, di tassarli o di stabilire
dei valori limite per gli ingredienti nocivi si
schiantano contro un muro. La lobby del
settore è troppo potente: la produzione e la
vendita di alimenti danno lavoro a circa due
milioni di persone, e il giro d’afari raggiunge i 170 miliardi di euro. Ma i consumatori,
turbati dagli scandali e dai loro problemi di
peso, sono diventati più attenti. L’immagine dell’industria alimentare non è mai stata
tanto negativa, e l’esigenza di chiarezza è
sempre più forte.
Stephan  Becker-Sonnenschein  è  da
qualche settimana il principale lobbista del
settore in Germania. Nei suoi uici ancora
spogli in Friedrichstraße, a Berlino, si occupa  di  rimettere  in  sesto  la  reputazione
dell’industria alimentare. Becker-Sonnenschein è il direttore dell’associazione Die
Lebensmittelwirtschaft (L’economia alimentare), di cui fanno parte sette delle più
potenti industrie del settore. Per questo
esperto di pubbliche relazioni di 56 anni la
sua nuova creatura è “una grande sida”.
Becker-Sonnenschein è abituato alle missioni diicili: è stato responsabile dell’immagine della Philip Morris (tabacco) e della
Rwe (centrali a carbone). E ha letto sul New
York Times un estratto del libro di Michael
Moss. “Molto di quello che scrive si riferisce agli anni ottanta e novanta”, spiega. Da
allora, secondo lui, sono cambiate molte
cose.
Mi racconta che nel periodo in cui lavorava per la Kraft Foods Deutschland l’azienda aveva modificato la composizione di
1.500 prodotti. La Coca-Cola rivendica di
aver ridotto il potere calorico della sua popolarissima bibita del 9 per cento dal 2000.
E anche la Nestlé avrebbe imboccato la
strada per diventare un’azienda salutista. Il
gruppo svizzero infatti ha avviato una collaborazione con l’università di Losanna per
creare prodotti salutari, per esempio yogurt
contenente sostanze utili a combattere i
sintomi dell’Alzheimer. La Danone, principale concorrente della Nestlé, ha allo studio
un prodotto simile. Tutti progetti di cui si
parla troppo poco, secondo Becker-Sonnenschein. In realtà, gruppi come Nestlé e
Coca-Cola fanno di tutto per inluenzare
l’opinione pubblica. Secondo alcune stime
la Nestlé spende circa tre miliardi di dollari
all’anno per la pubblicità.
Quando però si tratta di responsabilità,
i manager si tirano indietro. A volte si presentano con calcoli dei valori nutritivi talmente astrusi da far credere che anche i
cereali da colazione con più zuccheri aggiunti siano salutari. Altre volte si giustiicano dicendo che fanno di tutto per mantenere in forma i consumatori. La Coca-Cola,
per  esempio,  ha  lanciato  la  sua  Mission
Olympic per trovare la città “più attiva” della Germania. Il portavoce del gruppo ci indirizza da un certo Thomas Bach.
Bach è presidente dell’Unione tedesca
sport olimpici. Dunque è una specie di alto
dirigente dello sport tedesco, e anche una
sorta di ambasciatore della Coca-Cola. “Il
nostro obiettivo”, mi spiega, “è promuovere
l’attività sportiva, in collaborazione con i
nostri partner Coca-Cola Deutschland e
Samsung. Questo signiica incoraggiare la
cittadinanza ad abbracciare uno stile di vita
attivo”.
Ma al tempo stesso l’industria alimentare punta sui giovani, con una strategia che
ricorda quella dell’industria del tabacco.
Dai documenti interni che le multinazionali delle sigarette resero pubblici nel 1998, si
è appreso che le lobby del tabacco avevano
congegnato una campagna pubblicitaria
per difondere il fumo tra i giovani. Anche
l’industria alimentare investe molti soldi
per attirare bambini e ragazzi. L’associazione di consumatori tedeschi Foodwatch ha
individuato 1.514 prodotti che nei supermercati sono presentati in modo da attirare
i bambini. Circa il 73 per cento è costituito
da merendine piene di zuccheri o grassi: “I
piccoli vengono drogati per far girare la
macchina dei consumi”, aferma il vicedirettore di Foodwatch Matthias Wolfschmidt.
Dal punto di vista delle imprese è perfettamente logico. Le ricerche nutrizionali
mostrano che le abitudini alimentari si possono consolidare: una volta che si è scoperto il sapore di una caramella o di un cracker
al formaggio, gli si resta fedeli.
Lezione di omelette
Alla Gorch-Fock, una scuola di Blankenese,
alla periferia di Amburgo, è l’ora di educazione civica, eppure si sente il rumore di
una centrifuga per verdure. In cucina una
macchina  per  fabbricare  popcorn  sputa
fuori le sue palline bianche. La maestra Angela Wöbke-Hasenkamp ha il compito di
insegnare a quattordici alunni di quarta che
il gelato alla crema è fatto solo di zucchero e
latte e che la passata di mela fatta in casa è
buona  anche  senza  zucchero.  “Molti  di
questi bambini non hanno mai fatto neanche un uovo sbattuto”, dice. “Oggi nelle famiglie non si cucina più”.
“Pasta e pizza”, risponde una biondina
con gli stivaletti argentati a chi le domanda
quali siano i suoi cibi preferiti. È iglia unica, è molto iera del suo nuovo iPad mini e
scarica da iTunes le canzoni di Pink e di Psy.
A casa sua si cucina poco o niente: la sua
esperienza culinaria più importante, racconta, è stato “mettere il formaggio su una
pizza”.
Tutt’altro che facile, dunque, il compito
di Wöbke-Hasenkamp. Oggi la classe imparerà a fare i popcorn e i muin alla banana: bisogna pur scendere a qualche compromesso. “Voglio far capire ai bambini
che non va bene buttar via la roba da mangiare. Per esempio, che le banane, anche un
po’ scurite, vanno bene per dolcificare i
muin”.
Se  in  un  quartiere  benestante  come
Blankenese è diicile far capire ai bambini
cosa signiica mangiare sano, iguriamoci
quanto dovrà faticare l’assistente sociale
scolastica Jeanette Premper, che lavora alla
Hegelsbergschule di Kassel, nel nord della
Germania. Prima che li portasse in gita in
un’azienda agricola, la maggioranza dei
bambini non aveva mai visto una gallina né
una mucca. Oggi a lezione si fa l’omelette
con feta, pomodori e spinaci. In uno dei
quattro box della cucina didattica, Emir,
Büsra, Max e Kathrin mescolano le uova
con il latte. Un po’ di erbe aromatiche, un
cucchiaio d’olio nella padella, e ci siamo. O
no? Quella che ribolle sul fornello somiglia
più a una minestrina all’uovo: i cuochi hanno sbagliato a misurare la quantità di latte.
E alla ine della lezione, più che di erbe aromatiche, la cucina odora d’uovo bruciato.
“I bambini devono imparare che nessun
piatto riesce perfetto al primo tentativo”,
spiega Premper. La settimana scorsa, però,
gli spaghetti al pomodoro sono venuti subito bene, e il prossimo piatto in menù è la
zuppa di patate. Nel frattempo la maggior
parte degli alunni del corso di cucina ha
preso conidenza con i fornelli e prova a cucinare anche a casa: “Ho fatto la pastasciutta tutto da solo!”, dice Emir, 11 anni. Ma
quando gli chiedo quali altri piatti conosce,
risponde tutto fiero: “I Chicken McNuggets!”. u  ma

 

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