martedì 22 ottobre 2013

SCIENZA -- Dennis Overbye, The New York Times, Stati UnitiLe eterne domande sull’universo

Il tempo è un’illusione? C’è un
solo universo o ce ne sono
molti? Sapremo mai le risposte
a questi interrogativi? E
soprattutto: ci servirebbe
davvero conoscerle?



S
econdo il isico danese Niels Bohr,
una grande verità è un’afermazio-ne il cui contrario è a sua volta una
grande verità. Queste parole col-gono abbastanza bene lo spirito sfuggente
delle norme che governano il mondo suba-tomico, dove la luce può essere un’onda,
anzi una particella, insomma quello che ci
pare, a seconda dell’esperimento che vo-gliamo fare. Inoltre sembrano riassumere
gran parte della storia della scienza e della
ilosoia, due settori in cui l’opinione degli
addetti ai lavori continua a oscillare tra teo-rie dell’esistenza opposte ma interdipen-denti: libero arbitrio e destino, mutazione
ed eternità, atomicità e continuità.
Il isico teorico Lee Smolin ha da poco
pubblicato Time reborn, un libro che riapre il
dibattito teoricamente chiuso da Einstein e
dai suoi discepoli nel secolo scorso: il tem-po è reale o è un’illusione? Nel frattempo
altri fisici hanno sostenuto che per com-prendere l’energia oscura o la massa di una
particella scoperta di recente bisogna ipo-tizzare che il nostro universo faccia parte di
un insieme quasi ininito di universi, cia-scuno con le sue caratteristiche.
Quelle sulla realtà del tempo e sulla plu-ralità dei mondi sono appena due delle co-siddette domande eterne. La natura è di-screta o continua? L’universo è inito o ini-nito? La vita è prevedibile o è un evento
fortuito?  Troveremo  mai  compagnia  nel
cosmo? La risposta deinitiva a una qualun-que di queste domande sarebbe una pietra
miliare nel progresso della conoscenza, ma
può anche darsi che il non riuscire a trovare
le risposte faccia parte della natura umana
e che si debbano accogliere entrambe le
possibilità in una sorta di rinuncia hegelia-na. Viviamo nella tensione tra gli opposti.
Prendiamo, per esempio, la storia della
cosmologia. Appena un secolo fa si pensava
che l’universo fosse eterno e immutabile.
Poi è stata avanzata la teoria dell’universo
in espansione e del big bang.
Il cosmologo Fred Hoyle e i suoi colleghi
avevano elaborato la teoria dello stato sta-zionario  dell’universo,  una  versione
dell’eternità  in  cui  la  materia  si  crea  nei
vuoti lasciati dalle galassie che si allontana-no, in modo che il cosmo resti complessiva-mente lo stesso. Negli anni sessanta la teo-ria dello stato stazionario è naufragata e ha
vinto il big bang. Oggi prevale una nuova
versione del big bang nota come inlazione
eterna, in cui un numero ininito di universi
sgorga impetuosamente da uno sfondo di
energia primordiale detta in gergo “falso
vuoto”.
Un’idea confortante
Dunque un cambiamento incessante che si
manifesta come eternità. Decidere qual è
l’aspetto più signiicativo dipende da come
ci si considera: cittadini di questo pianeta e
di questo universo oppure creature delle
ininite possibilità dell’esistenza in un certo
luogo e tempo. L’ultima novità cosmologica
è l’energia oscura, che accelera l’allontana-mento delle galassie, e la questione impor-tante  è  se  risucchierà  la  luce  e  l’energia
dall’universo ino al punto che tra qualche
miliardo di anni non resterà niente, nessun
ricordo neppure di Omero, Gesù, Mozart,
Elvis o Nelson Mandela, per non parlare di
tutti noi. È dunque questa la ine del tempo,
almeno nel nostro angolino di multiverso?
Nella realtà quadridimensionale della
relatività einsteiniana, gli altri tempi, dal
big bang al big freeze (la morte termica), sono
reali quanto gli altri luoghi. Nulla cambia,
noi siamo di passaggio. Come scrisse Ein-stein: “Per noi che crediamo nella isica la
divisione tra passato, presente e futuro ha
solo il valore di un’ostinata illusione”.
Come molti altri ilosoi, anche Smolin
lamenta il fatto che questa fredda formula-zione matematica non rende giustizia alla
nostra  esperienza  di  esistere  nel  tempo.
L’unico modo per capire perché le leggi del-la isica sono come sono, aferma Smolin, è
immaginare il loro cambiamento nel tempo
cosmico. Il tempo reale. Ma né lui né nes-sun altro sa spiegare come.
Per molti isici teorici, oggi tempo e spa-zio sono “approssimazioni” che scaturisco-no da un’entità più primaria, forse le infor-mazioni  contenute  in  qualche  processo
quantistico. Per John Archibald Wheeler, il
isico di Princeton discepolo di Bohr, futuro
e passato sono pura teoria. Esistono solo nei
documenti e nei pensieri del presente, dove
iniscono e cominciano tutte le storie.
Un singolo istante d’intuizione, bellezza
o grazia può illuminare l’eternità. Dipende
tutto dai punti di vista. u sd

PERSONAGGI - La guerra di Miyazaki The Economist, Regno Unito

l nuovo ilm di Hayao Miyazaki
racconta la storia dell’ingegnere
che progettò il leggendario
caccia giapponese Zero



S
evera indagine  sull’amore,  la
responsabilità e la morte, Kaze
tachinu (Si alza il vento) è stato
descritto  come  il  primo  film
d’animazione di Hayao Miya-zaki adatto anche a un pubblico di adulti. 
Dopo aver trascorso metà della sua vita a
creare splendidi ilm per bambini, come
Princess Mononoke e La città incantata, Mi-yazaki, che ha 72 anni e viene considerato
il  più  grande  genio  vivente  del  cinema
giapponese, afronta la storia vera di un
costruttore  di  aeroplani  nella  seconda
guerra mondiale. Il titolo è tratto da un ce-lebre verso di Il cimitero marino (3) di Paul
Valéry: “Si alza il vento, bisogna tentare di
vivere”. Il vento è un presagio per i disastri
che si susseguono nel ilm: il terremoto del
1923 che rase al suolo gran parte delle città
di Tokyo e Yokoama, uccidendo più di cen-tomila persone, e la terribile guerra com-battuta dal Giappone quasi due decenni
più tardi, la seconda guerra mondiale.
Sognando di volare
Nonostante la sua ambientazione storica,
nel mondo reale, il ilm trabocca delle fan-tastiche creazioni di Miyazaki. Ed è tenuto
insieme dai sogni. Comincia quando il pro-tagonista, Jiro Harikashi, ha solo dieci anni
e immagina di volare sopra la sua casa in
provincia prima di essere svegliato dalle
bombe di un possente combattimento ae-reo. Durante lo svolgimento del ilm lo ve-dremo camminare in mezzo al paesaggio
devastato  del  Giappone  al  tempo  della
guerra, un incubo in parte plasmato dai vo-li sognati da bambino.
Ingegnere brillante ma ingenuo, il per-sonaggio di Jiro è basato sulla storia vera
del progettista del caccia giapponese Mit-subishi A6M Zero. A lungo considerato il
miglior aereo da combattimento in circo-lazione, durante la seconda guerra mon-diale era temutissimo dai piloti statuniten-si. Inoltre lo Zero contribuì in modo decisi-vo all’ingresso degli Stati Uniti in guerra,
visto  che  fu  usato  dai  piloti  giapponesi
nell’attacco a sorpresa a Pearl Harbor il 7
dicembre del 1941.
Alla ine del conlitto, nel 1945, quando
lo Zero aveva ormai perso la sua suprema-zia tecnologica, i giovanissimi piloti kami-kaze lo impiegavano per i loro attacchi sui-cidi contro la lotta statunitense che si av-vicinava al Giappone.Nel ilm, Jiro realizza le sue fantasie in-fantili  costruendo  un  aeroplano.  Il  suo
amore per il volo viene descritto come pu-ro ed elementare. Le scene aeree hanno
una qualità sensuale, erotica; il suo amore
in boccio per la idanzata Naoko è illustrato
dall’alto volo di aeroplanini di carta. Il ri-morso per aver creato una perfetta mac-china da guerra sopraggiunge solo nelle
scene inali.
Nato  nell’anno  dell’attacco  di  Pearl
Harbor, Miyazaki, come molti giapponesi
della sua generazione, è segnato da un pro-fondo paciismo. I suoi ilm sono spesso
vere e proprie celebrazioni del mondo na-turale e contengono ammonimenti sui pe-ricoli che lo assediano. I suoi eroi di solito
sono bambini puri di spirito che ci mettono
in guardia dai pericoli dell’avidità e del mi-litarismo, e che sono per lo più ignorati da
un mondo adulto sordo e distratto.
La contraddizione del paciista
Alcuni fan del maestro giapponese si sono
chiesti come mai il grande paciista abbia
realizzato un ilm che sembra mitizzare un
costruttore di armi. Miyazaki dal canto suo
ha afermato di essere stato conquistato
dalla storia di uno dei grandi geni eccentri-ci del Giappone. “Era sbagliato andare in
guerra”, ha spiegato a giugno. “Ma è inutile
incolpare Jiro per questo”.
In un paese dove i politici agitano rego-larmente i fantasmi del passato, il ilm ha
alimentato un acceso dibattito. In un suo
articolo recente Miyazaki sostiene di esse-re “disgustato” dai progetti del governo di
raforzare l’esercito giapponese e “scon-volto” dall’ignoranza della storia mostrata
dai leader del paese.
Pur senza nominarlo, l’attacco era evi-dentemente diretto contro Shinzo Abe, il
primo ministro giapponese. I conservatori
si sono limitati a invitare Miyazaki a resta-re  fuori  dalla  politica.  Altri  hanno  fatto
peggio, attaccando il ilm, deinito “noio-so” per il suo stile lento e l’assenza di fuo-chi artiiciali digitali.
Il ilm di Miyazaki ha un sapore perso-nale. Suo padre dirigeva un’azienda che
produceva i timoni dello Zero. E, come Ji-ro, il direttore era cresciuto con l’ossessio-ne degli aeroplani.
Come un canto del cigno artistico e po-litico, Kaze tachinu, Si alza il vento, potreb-be librarsi al di sopra dei suoi critici.
Intanto in Giappone è stato un successo
al botteghino, ed è stato selezionato per il
concorso del festival del cinema di Vene-zia. u gim


Due miti decaduti del cinema
britannico hanno trovato asi-lo alla settantesima edizione
della Mostra del cinema di
Venezia (che si inaugura il 28
agosto con la proiezione del
thriller fantascientiico esi-stenziale Gravity di Alfonso
Cuarón). Terry Gilliam tor-nerà al Lido con The zero theo-rem, pellicola su un genio ma-tematico interpretato da
Christoph Waltz. Jonathan
Glazer irma l’adattamento
del romanzo di Michel faber
Sotto la pelle, con Scarlett Jo-hansson. Nel concorso princi-pale, oltre al ilm d’animazio-ne di Hayao Miyazaki, tro-vano spazio anche James
Franco, che ha adattato per
lo schermo il romanzo di Cor-mac McCarthy Figlio di dio,
Stephen Frears con il suo
Philomena, The unknown
known, documentario di Er-roll Morris su Donald Rum-sfeld, La jalousie di Philippe
Garrel, Ana Arabia di Amos
Gitai, Tracks di John Cur-ran, la commedia L’intrepido
di Gianni Amelio e il ilm
che la regista teatrale Emma
Dante ha tratto dal suo libro
Via Castellana Bandiera.
Molto attesi, fuori concor-so, il provocatorio ilm di
Kim Ki-duk, Moebius, che ha
già fatto scandalo in Corea
del Sud, e The canyons di Paul
Schrader, dramma erotico
alitto da numerosi problemi
di produzione in cui Lindsay
Lohan recita accanto al por-nodivo James Deen. Resta da
vedere se le polemiche e le di-scussioni più accese riguarde-ranno solo i ilm. I professio-nisti del cinema italiano han-no organizzato diverse mani-festazioni contro i tagli al cre-dito di imposta decisi dal go-verno, minacciando di abban-donare la sala se a una proie-zione ci dovesse essere un
rappresentante dell’esecuti-vo. The Guardian

Sacriici di classe Zhang Moning, Nanfeng Chuang, Cina Foto di Zhang Kechun Per chi non è nato benestante, far parte della nuova classe media richiede grandi investimenti. Ma il divario tra ricchi e poveri è sempre più ampio e molti non riescono a tenere il passo

Q
uello che Tian Qiu teme di
più è dover invitare i colle-ghi a mangiare fuori. Lavo-ra in un’azienda pubblica e
ha uno stipendio modesto
ma stabile che le permette
di condurre una vita confortevole. Però è
una delle poche nel suo uicio a provenire
da una famiglia qualunque; gli altri sono
per la maggior parte igli o nipoti di dirigen-ti di altre aziende statali. Ogni sera, a ine
giornata, le sue colleghe cominciano a con-sultarsi su dove possono andare a cena. È il
momento in cui Tian Qiu è più tesa perché
spera di essere invitata ma non riesce a non
pensare a quanto le costerà entrare nel giro:
“Se vuoi andare a mangiare con loro, una
volta ogni tanto devi ofrire tu, e quando
tocca a te spendi centinaia di yuan se ti va
bene, ma puoi anche superare i mille (più di
120 euro)”.
Tian Qiu è stanca di questo rituale. In
più tutti questi incontri e festeggiamenti a
cui sono abituati i ricchi per lei sono incon-cepibili: “Una volta è la festa per la laurea,
un’altra la festa delle donne, un’altra il com-pleanno: ogni occasione è buona per un in-vito a cena”. Il colmo è stato in occasione
dell’anniversario  dell’assunzione  di  una
collega, che è arrivata a pagare ottomila
yuan per una cena. A meno che non si deci-da di cambiare lavoro, è impossibile sot-trarsi, così Tian Qiu ha cominciato a pensa-re a come adeguarsi. Una volta, a ine gior-nata, ha provato a invitare a cena una colle-ga  con  delle  buone  conoscenze,  ma  non
aveva pensato all’eventualità che lei esten-desse l’invito ad altre persone. Per gente
del genere era solo una cena allegra in com-pagnia, mentre Tian, dentro di sé, sapeva
di non poterselo permettere. Tian Qiu non
è vanitosa e da tempo limita le sue esigenze
allo stretto necessario. L’anno scorso aveva
prenotato in anticipo un biglietto del treno
per andare a Hangzhou per la festa del pri-mo maggio, ma vedendo che i prezzi degli
hotel continuavano ad aumentare, alla ine
aveva rinunciato. Le persone che frequenta
hanno vari appartamenti, guidano auto co-stose e indossano abiti irmati, mentre lei
non ha neanche la forza di provare invidia:
“So che in futuro le cose andranno meglio,
ma non potrò mai competere con loro, le
diferenze di partenza sono troppo grandi”.
Vorrebbe solo non essere emarginata Chi non appartiene alla classe media fa
di tutto per mescolarsi ai ricchi. Ma accu-mulare contatti e conoscenze ha un costo.
In un sistema in cui i contatti sono conside-rati una risorsa essenziale, la tutela e l’allar-gamento della propria cerchia di conoscen-ze è ormai una parte centrale della vita.
Consumi superlui
Per He Jia, insegnante d’inglese in una pic-cola città, è ancora più diicile reggere la
pressione. Il suo stipendio mensile non ar-riva a duemila yuan, ma considerando do-ve vive non è poco. Con qualche risparmio
riuscirebbe a mantenersi senza problemi,
se non fosse che i suoi studenti si sposano
uno dopo l’altro. Spesso si trova a spendere
metà dello stipendio in regali di nozze.
I consumi superlui stanno travolgendo
la piccola borghesia che fatica a mettere da
parte i risparmi. Temendo che i igli non
riescano a emergere, li iscrivono a corsi di
perfezionamento di ogni tipo. Arrancano
per stare al passo con le tendenze nei con-sumi e procurarsi tutti gli ultimi modelli di
gadget elettronici. I frequenti problemi di
sicurezza alimentare (come il caso del latte
contaminato, che ha spinto molta gente a
comprare  latte  in  polvere  importato),  la
transizione a un sistema d’istruzione orien-tato verso il mercato e un sistema di valori
che tende a legare la natura dell’individuo
ai suoi consumi sono tutti fenomeni che
hanno accentuato il lato irrazionale della
società cinese.
Viviamo in un’epoca in cui si raggiunge
la tranquillità solo comprandola, generan-do un consumo sfrenato. Così il costo della
vita per la piccola borghesia è aumentato
ino a diventare diicilmente gestibile. E le
spese  da  affrontare  non  finiscono  qui.  I
prezzi  degli  appartamenti  di  fascia  alta
hanno indebolito non solo le famiglie della
classe medio-bassa, ma anche quelle della
classe media. La diminuzione del potere
d’acquisto, l’aumento delle tasse e dei costi
dei servizi pubblici – come l’acqua e l’elet-tricità – sono fattori che hanno ridotto le
possibilità di successo della piccola bor-ghesia.
Wang  Tianfu,  docente  di  sociologia
dell’Università Tsinghua, ha analizzato i
dati recenti sui redditi e sui consumi delle
famiglie cinesi che vivono in città e, con-frontando i diversi strati sociali, sono emer-se alcune peculiarità sui risparmi accumu-lati. Innanzitutto, le famiglie con entrate
maggiori, pur consumando di più rispetto a
quelle a basso reddito, diventano ancora
più ricche e più velocemente. Prendendo in
considerazione i dati del 2005, più del 50 er cento dei risparmi complessivi genera-ti dalle famiglie cinesi è inito nelle mani
del 20 per cento delle famiglie, quelle con
un reddito alto. Secondo Wang Tianfu, la
relazione tra la diferenza di reddito e la
frammentazione del tessuto sociale è evi-dente. E l’inluenza che il divario tra i con-sumi e quello tra i risparmi hanno sulla so-cietà  è  ancora  più  profonda  e  nascosta.
Questo non solo perché tocca la vita quoti-diana e le possibilità di ascesa sociale delle
persone, ma soprattutto perché le diferen-ze di ricchezza tra le famiglie si ripercuote-ranno sull’ineguaglianza sociale delle ge-nerazioni future.
Puntare sulle nuove generazioni
La trasmissione e il permanere della disu-guaglianza spaventa la maggioranza degli
appartenenti alla piccola borghesia. Consi-derando le disparità dettate da un sistema
in cui chi è povero diventa sempre più po-vero e chi è ricco diventa sempre più ricco,
ai loro occhi emerge un’unica, cruda realtà le  ripercussioni  sono  inevitabili.  Così  la
piccola borghesia è costretta a fare ogni ti-po di sforzo per investire sulle nuove gene-razioni e opporsi alla minaccia dell’irrigidi-mento degli strati sociali.
Fan Jiguang insegna all’Università cine-se di scienze politiche e legge. È nato nella
campagna  di  Xuzhou,  nella  regione  del
Jiangsu. L’istruzione ha cambiato il suo de-stino e quello della sua famiglia: nel 1997 è
entrato  all’istituto  di  studi  giuridici
dell’Università di Pechino, dove ha ottenu-to un dottorato. Sa bene che con ogni pro-babilità sua iglia non potrà ripetere il suo
percorso, perché oggi è raro che la carriera
accademica permetta di uscire dalla pover-tà. Nel processo di maturazione e di cresci-ta di una persona la posizione di partenza è
più importante dell’impegno e degli sforzi
dei singoli.
Fan sta investendo molto per far cresce-re bene la iglia di cinque anni: “Spendo
tanto per lei, ogni volta che vado a Hong
Kong per lavoro compro confezioni di latte
in polvere e rinuncio a comprarmi un abito
nuovo; mi farò bastare quelli che ho ancora
per qualche anno”. Fan è convinto di non
essere un caso isolato: prima di sposarsi le
persone  spendono  senza  pensarci,  ma
quando arrivano i igli cominciano a rispar-miare. Sua iglia non ha ancora cominciato
le elementari ma sa già andare sui pattini,
disegnare e studia pianoforte. “Oggi molte
scuole richiedono delle abilità particolari,
così i genitori cercano di far emergere i ta-lenti dei igli. Però non si basano sugli inte-ressi dei bambini, pensano solo a cosa potrà
aiutarli nella carriera scolastica”.
Tra tutte le attività svolte dalla iglia di
Fan, la più costosa è la musica. “Per comin-ciare basta un pianoforte da dieci-ventimi-la yuan, ma è uno strumento che serve solo
a divertirsi. Se si vuole migliorare, serve
almeno un pianoforte da 30mila yuan. Nel
corso degli studi anche questo va sostituito
e per un buono strumento servono almeno
200-300mila yuan. Poi ci sono le spese per
le lezioni, che sono alte. La zona dove vivia-mo alla periferia nord di Pechino è abba­
stanza economica, ci hanno chiesto cento
yuan per mezz’ora di lezione, ma in centro
se ne pagano duecento. E più si va avanti
negli studi, più le spese scolastiche aumen­
tano”. Fan Jiguang ha fatto qualche calcolo:
per  permettere  a  sua  figlia  di  arrivare
all’esame del nono livello, dovrà spendere
almeno centomila yuan.
Ora deve iscrivere la bambina alle ele­
mentari. In base alla divisione amministra­
tiva di Pechino, Fan Jiguang potrebbe deci­
dere se farla studiare a Changping, dove
vive, o vicino alla sede centrale dell’univer­
sità dove lavora, in città. Per mandarla in
città, l’unica possibilità è quella di iscriver­
la  alla  quarta  scuola  elementare  di
Zhongguancun, un istituto migliore rispet­
to a quello di Changping, ma non tra i più in
vista della zona. Secondo sua moglie do­
vrebbero farsi raccomandare per iscrivere
la figlia alla prima scuola elementare di
Zhongguancun, un istituto ancora più quo­
tato. Questa scuola però non rientra nella
zona dell’università e per iscriverla lì do­
vrebbero pagare una tassa. Inoltre, se tutta
la famiglia si trasferisse in città, i costi au­
menterebbero troppo. Dopo aver rilettuto
a lungo, Fan Jiguang ha deciso di rinunciare
e di iscrivere la iglia alla scuola di Chang­
ping.
Borghesia sotterranea
Tian Qiu a volte si sente frastornata. Tutte
le famiglie delle persone che conosce, indi­
pendentemente dalle condizioni economi­
che e dal livello culturale, spendono solo in
funzione dei igli. La iglia di alcuni parenti
ha appena cominciato le scuole medie e ha
già una pila di attestati in diverse discipli­
ne, dal nuoto alla musica, che mette in im­
barazzo Tian Qiu. Ogni ine settimana Tian
Qiu va a trovare i suoi parenti ma non riesce
mai a vedere la cuginetta, sempre impe­
gnata a perfezionare qualche suo talento.
Anche lei spera che in futuro, quando avrà
un iglio, potrà fargli frequentare una buo­
na scuola.
La cultura familiare tradizionale cinese,
riassumibile nel motto “spero che mio i­
glio diventi un drago”, è ancora molto radi­
cata. Le famiglie riconducono i motivi della
loro insoddisfazione e della chiusura dei
canali di ascesa sociale a una condizione di
partenza troppo svantaggiata. Per questo
ce la mettono tutta per allevare le nuove
generazioni al meglio, sperando di riuscire
ad accumulare denaro sufficiente a per­
mettergli di competere equamente con i
igli dei dirigenti pubblici e delle famiglie
ricche, rinnovando così il tessuto sociale del futuro. Negli ultimi anni in tutto il mon­
do si è discusso dell’impoverimento della
piccola borghesia, che lo studioso giappo­
nese Atsushi Miura chiama “borghesia sot­
terranea”.
Secondo Miura, negli ultimi decenni la
borghesia giapponese si è contratta. Tra le
nuove  generazioni,  i  ragazzi  in  grado  di
passare dalla classe media ai livelli superio­
ri sono sempre meno, mentre quelli che
precipitano “sottoterra” sono tanti. Il con­
cetto di “società sotterranea” è stato adot­
tato dagli studiosi cinesi per deinire la stra­
tiicazione sociale in Cina. A ridurre note­
volmente la vitalità sociale stimolata da
trent’anni di riforme hanno contribuito sia
la monopolizzazione del potere e delle ri­
sorse da parte di una minoranza di persone
sia il processo di redistribuzione della ric­
chezza deinito dal principio “rubare ai po­
veri per dare ai ricchi”.
Ma allora, in questa lotta solitaria, ci so­
no altre vie per raggiungere il successo?
Una risposta potrebbe arrivare proprio da
Fan Jiguang. Recentemente, un post che
aveva scritto nel 2007 sul suo blog ha di
nuovo iniammato la rete. Nel post Fan rac­
contava l’odissea per ottenere il certiicato
di nascita e quello di residenza (hukou) del­
la iglia, nata un mese prima. “Quando ho
saputo che tua madre era incinta, per me è
stata una sorpresa grande e inattesa; poi
però la realtà mi ha fatto capire che metter­
ti al mondo non è afatto una cosa semplice.
Tuo padre, questo piccolo dottore di ricer­
ca dell’Università di Pechino, con il suo
stipendio di appena cinque­seimila yuan al
mese non ha modo di creare per te un am­
biente di vita idilliaco”. A quel tempo, dato
che Fan era residente a Pechino perché la­
vorava lì (non perché ci era nato), non ave­
va potuto comprare casa e, di conseguenza,
non aveva potuto registrare la iglia come
residente. Solo dopo molti tentativi c’è riu­
scito. La freddezza e il disinteresse con cui
si era scontrato l’avevano spinto a sfogarsi
sul suo blog.
All’epoca Fan Jiguang non poteva sape­ re che oggi non solo avrebbe avuto una ca­
sa, una macchina e nemmeno un debito,
ma che sarebbe riuscito a far crescere la i­
glia in un ambiente sano. “Mia iglia mi di­
ce spesso che vorrebbe andare a Dysney­
land a Hong Kong, ma non troviamo mai il
tempo.  Però  sappiamo  che  la  spesa  del
viaggio, dieci o ventimila yuan, potremmo
permettercela”.
Secondo Fan Jiguang, la cosiddetta clas­
se media forse non dovrebbe essere così in
ansia per i soldi. Non potrà mai dimentica­
re il suo stato d’animo quando sei anni fa
scrisse quel post, ma ormai si è lasciato i
tempi duri alle spalle. “Probabilmente tutti
hanno attraversato momenti simili, a quel
tempo ero entrato da un anno all’universi­
tà. Non solo non avevo soldi, ma dovevo
saldare anche un debito di diecimila yuan e
dovevamo prenderci cura di quattro geni­
tori”.
Un caso fortunato
In confronto agli altri colleghi giovani, Fan
Jiguang deve ritenersi fortunato. Insegna
diritto tributario ed è diventato senza osta­
coli professore associato. Va all’estero per
tenere conferenze e ha sempre più oppor­
tunità per divulgare le sue ricerche. Nella
stessa università gli insegnanti d’inglese o
quelli d’informatica per lo più si mantengo­
no ancora con dei salari ordinari, mentre
lui ha già raggiunto obiettivi al di sopra del­
le sue prime aspettative. “Ci sono docenti
che vivono solo del loro stipendio”, raccon­
ta Fan Jiguang, “e che dopo molti anni non
sono ancora diventati associati. Tra ricer­
catore e professore associato c’è solo uno
scatto, ma tra gli stipendi c’è un abisso”.
Solo entrando nelle categorie che hanno
accesso alle risorse sociali è possibile por­
tare a termine “l’accumulazione originaria
di capitale” individuale. La strada che ha
seguito Fan Jiguang è l’emblema della via
per  raggiungere  il  successo  nella  nostra
epoca.
Quest’anno Tian Qiu e il suo ragazzo
hanno smesso di cercare appartamenti in
aitto e hanno inalmente comprato casa. I
genitori  hanno  sostenuto  il  grosso  della
spesa, e loro dovranno restituire alla banca
più di settemila yuan al mese. Il mutuo non
gli dà tregua, ma Tian Qiu è soddisfatta;
almeno per quanto riguarda l’abitazione, la
distanza tra lei e le colleghe più ricche si è
ridotta un po’. Anche se la sua casa è lonta­
na dall’uicio – ogni giorno deve prendere
la metropolitana e camminare per più di
venti minuti – quando rientra la sera e si
stende sul divano prova un conforto senza
pari. u mcr

SCIENZA - Chi ti credi DI essere

Jan Westerhof, New Scientist, Regno Unito
Foto di Eric Flogny
La percezione intuitiva che abbiamo di noi stessi
è un’esperienza umana fondamentale. Ma in
realtà è solo un’elaborata illusione. E alcuni
studiosi sostengono che il sé proprio non esiste



c
i sono  poche  cose  che
consideriamo più sicure
del  fatto  che  esistiamo.
Possiamo essere scettici
sull’esistenza del mondo
che ci circonda, ma come
potremmo mai dubitare della nostra stessa
esistenza? Il dubbio non è forse reso im-possibile dal fatto che c’è qualcuno che du-bita di qualcosa? E chi può essere questo
qualcuno, se non noi?
Se da una parte è innegabile che dob-biamo pur esistere in qualche modo, le co-se si complicano quando cerchiamo di ca-pire meglio cosa signiica davvero avere un
sé.
La nostra percezione di quello che sia-mo si basa su tre convinzioni fondamenta-li. In primo luogo, ci consideriamo immu-tabili e continui. Questo non equivale a
dire che rimaniamo sempre identici, ma
che nel cambiamento c’è qualcosa che re-sta costante e che ci rende oggi la stessa
persona che eravamo cinque anni fa e che
saremo tra cinque anni.
In secondo luogo, ci consideriamo co-me l’elemento uniicante che tiene tutto
insieme. Il mondo si presenta a noi come
una cacofonia di visioni, suoni, odori, im-magini mentali, ricordi e così via. Nel sé
tutte queste cose si integrano, e quella che
emerge è l’immagine di un unico mondo
unito.
Terzo, il sé è un agente. È quello che
pensa i nostri pensieri e compie le nostre
azioni. È il luogo in cui la rappresentazione
del mondo, uniicata in un tutto coerente,
viene usata per consentirci di intervenire
su quel mondo.
Queste tre convinzioni sembrano asso-lutamente evidenti e indiscutibili. Ma esa-minandole più da vicino diventano sempre
meno scontate.
Potrebbe sembrare ovvio afermare che
la nostra esistenza è un continuum, dai pri-mi attimi nell’utero materno ino alla mor-te. Eppure, nel corso della sua esistenza il
nostro sé subisce cambiamenti sostanziali
in materia di convinzioni, capacità, desi-deri e stati d’animo. Per esempio, il sé feli-ce di ieri non può essere proprio uguale al
sé tormentato di oggi. Ma oggi abbiamo
certamente lo stesso sé che avevamo ieri.
Per approfondire l’argomento possia-mo usare due modelli del sé: una collana di
perle e una corda. Secondo il primo model-lo, il sé è qualcosa di costante che, pur as-sumendo  caratteristiche  diverse,  resta
sempre uguale a se stesso. Come un ilo
che passa attraverso le perle di una collana,
il sé attraversa ogni singolo momento della
nostra vita, dandole un centro e un’unità.
Ma il problema con questo modello è che
non può rappresentare la maggior parte
delle cose che secondo noi ci deiniscono.
Essere tristi o felici, parlare cinese, preferi-re le ciliegie alle fragole, perfino essere
coscienti: sono tutti stati mutevoli e la loro
scomparsa non dovrebbe modiicare il sé,
così come la scomparsa di una singola per-la non dovrebbe modiicare il ilo della col-lana.  Poi  però  diventa  difficile  spiegare
perché un sé così “ridotto al minimo” deb-ba avere l’importanza centrale che tendia-mo ad attribuirgli.
Il secondo modello è basato sul fatto
che una corda non si sfalda, anche se non è
formata da ibre che la percorrono in tutta
Chi ti credi d
Jan Westerhof, New Scientist, Regno Unito
Foto di Eric Flogny
La percezione intuitiva che abbiamo di noi stessi
è un’esperienza umana fondamentale. Ma in
realtà è solo un’elaborata illusione. E alcuni
studiosi sostengono che il sé proprio non esiste
la sua lunghezza, ma da una serie di ibre
più corte sovrapposte. Analogamente, il
nostro sé potrebbe essere solo la continuità
di eventi mentali che si sovrappongono. Si
tratta di una visione anche plausibile, ma
con i suoi difetti. Di solito diamo per scon-tato  che  quando  pensiamo  qualcosa  o prendiamo una decisione siamo noi nella
nostra interezza a farlo, non solo una parte
di noi. Eppure, secondo la visione della
corda, il sé non è mai interamente presente
in nessun momento, proprio come i ili che
compongono la corda non ne coprono l’in-tera lunghezza.
A questo punto, non ci resta che la sgra-devole scelta tra un sé continuo ma tal-mente lontano da tutto quello che siamo
che a malapena ci accorgeremmo della sua
mancanza; e un sé costituito da compo-nenti della nostra vita mentale, ma senza
una parte costante con cui poterci identii-care. Per ora, l’evidenza empirica sembra
supportare il modello della corda, ma la
questione resta aperta. Ancora più impor-tante, e altrettanto problematica, è la se-conda convinzione fondamentale riguardo
al sé, che cioè sia l’elemento che tiene tutto
insieme  facile trascurare la rilevanza di questo
aspetto,  ma  il  cervello  svolge  un  lavoro
estremamente complesso per produrre un
mondo dall’aspetto uniicato. Pensate per
esempio che, anche se la luce viaggia mol-to più veloce del suono, gli stimoli visivi
richiedono un tempo di elaborazione più
lungo rispetto a quelli sonori. Quindi, le
immagini e i suoni di un evento di solito
diventano accessibili alla nostra coscienza
in momenti diversi (solo immagini e suoni
di eventi che avvengono ad almeno dieci
metri di distanza ci arrivano contempora-neamente). E questo signiica che l’impres-sione della simultaneità nel sentire la voce
di qualcuno che parla e vedere le sue labbra
che si muovono, per esempio, dev’essere
costruita dal cervello.
Intuitivamente,  il  risultato  di  questo
processo  rimanda  a  un  teatro.  Come  lo
spettatore seduto davanti a un palcosceni-co, il sé percepisce un mondo unitario che
in realtà è composto da una varietà di dati
sensoriali. Se non fossero prima uniicati,
questi dati produrrebbero una sensazione
di confusione: sarebbe come se a teatro
uno spettatore sentisse le battute di un at-tore prima di vederlo sul palco.
L’intuizione, pur essendo convincente,
pone diversi problemi.
Prendiamo un caso semplice, il “feno-meno beta”. Se si accende un punto lumi-noso in un angolo di uno schermo e subito
dopo compare un punto uguale all’angolo
opposto, l’impressione può essere quella
di un punto che abbia attraversa-to lo schermo in diagonale. La
spiegazione è semplice: spesso,
il  cervello  riempie  di  elementi
una scena sulla base di congettu-re.  Ma  una  variante  di  questo
esperimento genera uno strano efetto. Se
i puntini sono di colore diverso – per esem-pio un punto rosso seguito da uno verde –
gli osservatori vedono un puntino in movi-mento che più o meno a metà della diago-nale  cambia  colore  all’improvviso.  È  un
fenomeno molto particolare. Se il cervello
riempie le posizioni mancanti lungo la dia-gonale a beneicio del sé in platea, come fa
a sapere che il colore cambierà prima an-cora di aver visto il puntino verde?
Un modo per spiegare il fenomeno beta
è pensare che la nostra esperienza vada in
scena nel “teatro” con un piccolo ritardo. Il
cervello non trasmette subito l’informa-zione sui punti luminosi, ma la trattiene
per  un  breve  lasso  di  tempo.  Quando  il
punto verde è stato elaborato, entrambi i
punti entrano a far parte di una versione
percettiva che mostra un punto in movi-stante  manchi  una  base  fattuale  che  lo
confermi.  Insomma,  molte  idee  su  noi
stessi non reggono alla prova di un esame
più attento. Questo costituisce una grossa
sfida  per  come  ci  vediamo  ogni  giorno,
perché fondamentalmente suggerisce che
non siamo reali. Il nostro sé è paragonabile
a un’illusione, ma senza che ci sia qualcu-no a fare l’esperienza dell’illusione.
Forse non abbiamo altra scelta che spo-sare le nostre convinzioni sbagliate. Il no-stro intero modo di vivere si fonda sull’idea
che siamo individui immutabili, coerenti e
autonomi. L’illusione del sé non è solo uti-le, potrebbe anche essere necessaria. u
mento che cambia colore. Questa versione
montata viene poi proiettata nel teatro del-la coscienza.
Purtroppo, questa teoria non si adatta
granché alle prove sul funzionamento del-la  percezione.  Le  risposte  coscienti  agli
stimoli visivi possono avvenire a una velo-cità quasi ininitesimale. Se aggiungiamo il
tempo che l’informazione impiega ad arri-vare al cervello e a essere elaborata, non ne
resta abbastanza per giustiicare il feno-meno beta.
Forse c’è qualcosa di sbagliato nella no-zione di un sé che percepisce un lusso uni-forme di informazioni dal mondo circo-stante. Forse, più semplicemente, ci sono
processi  neurologici  che  avvengono  nel
cervello, e vari processi mentali che avven-gono nella mente, senza che ci sia un’agen-zia centrale dove tutto viene assemblato in
un preciso momento, il cosiddetto “ora”
percettivo. È molto più facile spiegare il
fenomeno beta se non c’è un attimo preci-so in cui il contenuto percettivo appare nel
teatro del sé, perché non c’è nessun tea-tro.
La terza, profonda convinzione è che il
sé  sia  il  luogo  del  controllo.  Eppure,  la
scienza cognitiva ha ampiamente dimo-strato che la nostra mente, a posteriori, può
attribuire un’intenzione anche ad azioni
involontarie.
In un esperimento è stato chiesto a una
persona di muovere lentamente un curso-re su uno schermo su cui comparivano cin-quanta piccoli oggetti, e di fer-mare  il  cursore  su  un  oggetto
all’incirca ogni trenta secondi. Il
mouse che controllava il cursore
era mosso in comune con un al-tro volontario, come se fosse una
lancetta sopra una tavola in una seduta spi-ritica. Attraverso una cuia, il primo volon-tario udiva delle parole, alcune riferite a
oggetti sullo schermo. Ma non sapeva che
il suo compagno di mouse era uno dei ri-cercatori e che ogni tanto spingeva delibe-ratamente il cursore verso un’immagine,
senza che il volontario se ne accorgesse.
Se il cursore era stato “spinto” dal ricer-catore sull’immagine di una rosa, il volon-tario che pochi secondi prima aveva senti-to la parola “rosa” sosteneva di aver mosso
intenzionalmente il mouse in quella dire-zione.
Ora qui non ci interessa capire come e
perché si produca questo efetto: la cosa
importante è che svela come non sempre il
cervello ci indica le reali operazioni che
compie. Invece, produce una versione a
posteriori del tipo “ho fatto questo”, nono-QUANDO
Pensi di vivere
nel presente?
Jan Westerhof
A
noi  sembra ovvio  che  esistiamo
nel presente. Il passato è passato e
il futuro deve ancora succedere,
quindi dove altro potremmo trovarci? Ma
forse non dovremmo esserne così sicuri.
Le informazioni sensoriali ci arrivano a
velocità diverse, anche se sembrano mani-festarsi insieme, in un unico momento. I
segnali nervosi hanno bisogno di tempo
per essere trasmessi e di tempo per essere
elaborati dal cervello. E ci sono eventi – co-me una luce che lampeggia o qualcuno che
schiocca le dita – che accadono più in fretta
di quanto il nostro cervello ci mette per ela-borarli. Quando recepiamo il lampo o lo
schiocco delle dita, l’evento è già passato.
La prova ce la dà l’“illusione del lash”.
In una versione di questo esperimento, su
uno schermo si vede un disco rotante con
una freccia che punta verso l’esterno. Vici-no al disco c’è un punto luce programmato
per lampeggiare nel preciso istante in cui
la freccia lo oltrepassa. Eppure, questo non
è quello che noi percepiamo: ci sembra che
la luce si accenda in ritardo, dopo il passag-gio della freccia.
Una possibile spiegazione è che il cer-vello si proietti nel futuro. L’elaborazione
degli stimoli visuali richiede tempo, così il
cervello compensa facendo una previsione
su dove sarà la freccia. Il lampo di luce sta-tico – che il cervello non è in grado di anti-cipare – sembra rimanere indietro.
Per quanto eicace, questa spiegazione
non può essere esatta. Lo ha dimostrato
una  variante  dello  stesso  esperimento,
messa a punto da David Eagleman del Bay-lor college of medicine di Houston, in Te-xas, e Terrence Sejnowski del Salk institute
for biological studies di La Jolla, in Califor-nia.
Se il cervello prevedesse la traiettoria
della freccia rotante, le persone percepi-rebbero un ritardo anche se la freccia si
fermasse nel preciso istante in cui indica il
punto luminoso. Ma in questo caso il ritar-do non si veriica. Inoltre, se la freccia par-te da ferma e si muove in una o nell’altra
direzione subito dopo il lampo di luce, il
movimento viene percepito prima della
luce. Se il movimento comincia solo dopo
il lampo di luce, come fa il cervello a preve-derne la direzione?
La spiegazione è che più che dedurli dal
futuro, il cervello inserisce eventi nel pas-sato, costruendo a posteriori una narrazio-ne degli eventi. La percezione di quello che
succede al momento del lampo è determi-nata da quello che succede al disco subito
dopo. Sembra un paradosso, ma altri test
hanno confermato che ciò che viene perce-pito come accaduto in un dato momento
può essere inluenzato da ciò che accade
dopo.
Tutto questo è leggermente inquietan-te se seguiamo il buonsenso, che ci induce
a immaginare il nostro sé collocato nel pre-C
hiudete gli occhi e domandatevi:
dove mi trovo? Non in senso geo-grafico,  ma  esistenziale.  Quasi
sempre risponderemo di essere dentro il
nostro corpo. Dopo tutto, osserviamo il
mondo da una prospettiva unica e perso-nale, creata nella nostra mente, e la diamo
per scontata.
Non saremmo così ottimisti se sapessi-mo  che  questa  sensazione  di  abitare  un
corpo è una coerente costruzione del cer-vello. Comunque, anche se abitiamo den-tro il nostro corpo non signiica che la per-cezione che abbiamo di noi stessi sia co-stretta dentro i suoi conini isici.
Progettando esperimenti che manipo-lano i sensi possiamo indagare il modo in
cui il cervello disegna e ridisegna i contor-ni del “luogo” in cui risiede il nostro sé.
Uno dei metodi più semplici per osser-vare questo fenomeno è un esperimento
che ormai è diventato popolare nelle neu-roscienze: l’illusione della mano di gom-ma. La preparazione è semplice: la mano
di un volontario viene posata su un tavolo e
nascosta dietro a un pannello, mentre di
fronte a lui è ben visibile una mano di gom-ma. Se accarezziamo contemporaneamen-te la mano nascosta e quella inta, possia-mo produrre nel volontario la sensazione
che la mano di gomma sia la sua.
Perché succede? Il cervello integra sen-si diversi per deinire aspetti del nostro sé
corporeo.  Nell’illusione  della  mano  di
gomma, il cervello elabora il tatto, la vista
e la propriocezione, cioè la percezione del-la posizione relativa delle parti che costitu-iscono il nostro corpo. In questo caso, di
fronte a un conlitto di informazioni, il cer-vello risolve il problema appropriandosi
della mano di gomma.
Ne deriva che i conini del sé tracciati
dal cervello possono facilmente estendersi
ino a includere un oggetto estraneo. E le
strane peregrinazioni del sé fuori dal corpo
non iniscono qui.
Avete mai sognato di avere il corpo dn’altra  persona?  Il  vostro  cervello
può  esaudire  questo  desiderio.  Henrik
Ehrsson e i suoi colleghi del Karolinska in-stitutet  di  Stoccolma  hanno  trasportato
alcuni volontari fuori dai loro corpi e den-tro un manichino a grandezza naturale.
Il manichino aveva due videocamere al
posto degli occhi, e qualunque cosa “ve-desse” appariva su un display montato sul-la testa di un volontario. Lo sguardo del
manichino era rivolto verso il basso, all’al-tezza dell’addome. Quando i ricercatori
accarezzavano contemporaneamente l’ad-dome del manichino e quello del volonta-rio che guardava nel display, spesso il se-condo aveva la sensazione di essere il ma-nichino.
Nel 2011, la stessa équipe ha ripetuto
l’esperimento, ma questa volta monitoran-do l’attività cerebrale dei volontari con una
risonanza magnetica. E ha scoperto che
l’attività di alcune aree dei lobi frontali e
parietali era collegata al cambiamento del-la nostra percezione corporea.
Cosa succede, allora? Studi sui macachi
dimostrano che in queste aree del cervello
ci sono neuroni che integrano la vista, il
tatto e la propriocezione. L’ipo-tesi di Ehrsson è che questi neu-roni si attivano solo quando nelle
immediate vicinanze del nostro
corpo si manifestano sensazioni
tattili  e  visive  simultanee,  che
evidentemente inluenzano la nostra per-cezione corporea. Intervenendo sulle in-formazioni che arrivano al cervello, dun-que, possiamo intervenire anche sul modo
in cui percepiamo il nostro corpo.
Questione di prospettiva
Tuttavia, nell’esperimento di Ehrsson an-che la persona “dentro” al manichino ave-va una prospettiva soggettiva: il suo sé era
collocato dentro un corpo, anche se quel
corpo non era il suo. Potrebbe essere possi-bile proiettare il proprio sé in una dimen-sione in cui il corpo manca del tutto?
Possiamo perino far credere al nostro
sé di stare sospeso a mezz’aria fuori dal
corpo. Nel 2011, Olaf Blanke e i suoi colle-ghi dello Swiss federal institute of techno-logy di Losanna, hanno chiesto ad alcuni
volontari di stendersi supini su un letto e di
guardare attraverso un visore il video di
una persona che gli somigliava, che veniva
accarezzata sulla schiena. Nel frattempo,
un braccio robotico installato all’interno
del letto accarezzava nello stesso modo la
schiena del volontario.
I volontari descrivevano un’esperienza
notevolmente più coinvolgente della sem-plice visione delle immagini del corpo di
un altro. Avevano la sensazione di luttuare
sopra il loro corpo, e alcuni provavano un
efetto particolarmente strano. Anche se
erano tutti distesi sulla schiena, alcuni ave-vano la sensazione di luttuare a faccia in
giù in modo tale da poter vedere la loro
parte posteriore. “Guardavo il mio corpo
dall’alto”, ha dichiarato un partecipante.
“La sensazione di essere separato dal mio
corpo era piuttosto debole, ma si avverti-va”.
“Per noi è stato veramente emozionan-te, perché era qualcosa di molto vicino alla
classica esperienza extracorporea di guar-dare dall’alto il proprio corpo”, racconta
una delle ricercatrici, Bigna Lenggenha-ger, oggi all’università di Berna, in Svizze-ra. Ulteriori conferme sono venute ripe-tendo l’esperimento dentro un apparec-chio per la risonanza magnetica, che ha
dimostrato che la regione del cervello chia-mata giunzione temporo-parietale (Tpj) si
comportava  in  modo  diverso  quando  il
soggetto diceva di luttuare fuori dal pro-prio corpo. Questo risultato si lega chiara-mente a studi precedenti sulle lesioni neu-rologiche in persone che riferi-vano esperienze extracorporee:
anche in questi casi emergeva un
coinvolgimento della Tpj.
La Tpj ha una caratteristica in
comune con altre aree del cer-vello che i ricercatori associano alle illusio-ni corporee: aiuta a integrare le sensazioni
visive, tattili e propriocettive con i segnali
inviati dall’orecchio interno, che ci danno
il senso dell’equilibrio e dell’orientamento
nello spazio. Una dimostrazione in più che
la capacità del cervello di integrare stimoli
multisensoriali svolge un ruolo chiave nel
collocare il sé nel corpo.
Il ilosofo Thomas Metzinger dell’uni-versità Johannes Gutenberg di Magonza,
in  Germania,  ritiene  che  capire  come  il
cervello esegue questa operazione sia il
primo passo per comprendere come co-struisce il nostro sé autobiograico, cioè la
percezione di noi stessi come entità che
esistono da un passato ricordato a un futu-ro immaginato. “Questi esperimenti sono
estremamente importanti”, aferma, “per-ché manipolano dimensioni del sé basilari
come l’autocollocazione e l’autoidentiica-zione”.
La sensazione di possedere e abitare un
corpo è forse uno degli aspetti più elemen-tari dell’autoconsapevolezza, e potrebbe
essere il fondamento su cui poggiano gli
aspetti  più  complessi  del  sé.  Il  corpo,  a
quanto pare, genera il sé. u



Come mai 
sei così?
Michael Bond


L
a prima volta che un bambino sorri-de, intorno ai due mesi di età, per i
genitori è un momento bellissimo e
intenso: forse è il primo vero segno di rico-noscimento del loro amore e della loro de-dizione. E potrebbe essere altrettanto im-portante per il bambino: un primo passo
sulla lunga strada verso l’identità e la con-sapevolezza di sé.
Spesso l’identità è ritenuta un prodotto
della memoria, il risultato del nostro tenta-tivo di elaborare le esperienze vissute in
una  narrazione  coerente.  Oggi,  però,  è
sempre più difusa l’idea che la percezione
di sé sia una conseguenza diretta del no-stro rapporto con gli altri. “Abbiamo una
profonda pulsione a interagire che ci aiuta
a scoprire chi siamo”, dichiara lo psicologo
dello sviluppo Bruce Hood dell’università
di Bristol, autore di The self illusion: why
there is no “you” inside your head (Consta-ble 2012). E questo processo non comincia
con  la  formazione  dei  primi  ricordi  del
bambino, ma quando il bambino impara
per la prima volta a imitare il sorriso dei
genitori e a rispondere agli altri in modo
empatico.
Che la percezione di sé sia legata al rap-porto con gli altri è un fatto intuitivo. “Non
possiamo interagire con gli altri se non ab-biamo un sé”, spiega Michael Lewis, che
studia  lo  sviluppo  infantile  alla  Robert
 Wood  Johnson  medical  school  di  New
Brunswick,  New  Jersey.  “Per  interagire
con qualcuno devo sapere alcune cose di
lui, e l’unico modo per farlo è sapere alcu-ne cose di me”.
Oggi  alcuni  studi  confermano  che  il
cervello funziona così. Degli indizi sono
emersi dall’osservazione delle persone af-fette da autismo. Di solito, questo disturbo
è associato alla diicoltà di capire i segnali
non verbali, ma sembra che comprometta
anche la capacità di autoriconoscimento:
crescendo, la persona autistica impara più
tardi delle altre a riconoscersi allo specchio
e tende a formare meno memorie autobio-graiche. Signiicativamente, quando l’au-tistico cerca di svolgere queste operazioni
e quando cerca di capire le reazioni degli
altri sembra che le stesse regioni cerebrali
– le aree della corteccia prefrontale – abbia-no  un’attività  ridotta.  Si  conferma  così
l’ipotesi che alla base di queste due facoltà  ci sia lo stesso meccanismo cerebrale.
  Un’ulteriore  conferma  arriva  dalla
University of Southern California, dove lo
psicologo Antonio Damasio ha scoperto
che emozioni sociali come l’ammirazione
e la compassione, che nascono dall’osser-vazione  dei  comportamenti  degli  altri,
tendono ad attivare le cortecce postero-mediali, un’altra serie di regioni cerebrali
ritenute importanti nella costruzione della
percezione di sé.
Geograia dei pensieri
Il risultato è che il nostro sé non parla solo
di noi, ma anche delle persone che ci cir-condano e di come ci relazioniamo con lo-ro: è quello che Damasio chiama “il me
sociale”. È una scoperta che ha implicazio-ni profonde. Se una delle funzioni primarie
dell’autoconsapevolezza è quella di aiutar-ci a costruire relazioni, allora la natura del
sé non può che dipendere dall’ambiente in
cui si sviluppa.
Le prove arrivano dalla psicologia cul-turale. Nel suo libro Il Tao e Aristotele. Per-ché asiatici e occidentali pensano in modo
diverso  (Rizzoli  2007),  Richard  Nisbett
dell’università del Michigan ha presentato
i risultati di alcuni esperimenti di laborato-rio dai quali emerge che i cinesi e altri po-poli dell’Asia orientale tendono a concen-trarsi sul contesto di una situazione, men-tre gli occidentali analizzano i fenomeni
isolandoli: prospettive diverse che incido-no sul modo in cui percepiamo noi stessi.
I ricercatori che studiano la memoria
autobiograica, per esempio, hanno sco-perto che è più probabile che i cinesi si con-centrino su eventi di carattere storico-so-ciale, mentre europei e americani privile-giano memorie di eventi e successi perso-nali. Altri studi indicano che i giapponesi
sono più inclini ad adattare la descrizione
di sé alle situazioni, cosa che suggerisce
un’identità più luida e meno strutturata
rispetto a noi occidentali, che non siamo
altrettanto inluenzati dal contesto.
Queste diferenze possono emergere
già nei primi anni di vita. Alcuni studi an-tropologici citati da Lewis rivelano che “i
terribili due anni” – l’età in cui si pensa che
il bambino sviluppi una volontà indipen-dente – sono meno problematici in culture
che non mettono al centro l’autonomia in-dividuale. Un dato che sembra dimostrare
che la cultura plasma il sé in dalle prime
esperienze di vita.
L’esistenza di una così grande diversità
di atteggiamenti e forme mentali sembra
suggerire che la nostra stessa identità – “ciò
che io sono” – sia culturalmente determi-nata. “Io sono un maschio, un professore,
un anziano, un marito, un padre e un non-no”, osserva Lewis. “Ma tutte queste cose
che dovrebbero deinirmi sono, in realtà,
costrutti culturali”. È evidente che non esi-ste  un’unica  concezione  universale  di
identità. Anche se Hazel Markus, che stu-dia l’interazione tra la cultura e il sé alla
Stanford University, in California, sottoli-nea come le personalità umane abbiano un
forte tratto comune: la capacità di plasma-re costantemente l’ambiente sociale, e di
esserne plasmate.
Mentre aumentano le prove sperimen-tali  dell’esistenza  del  “me  sociale”,  non
tutti sono convinti che questo sia un bene.
Per la scrittrice e psicologa Susan Black-more, il sé potrebbe essere un sottoprodot-to delle relazioni, semplicemente qualcosa
che si manifesta nell’interazione sociale,
mentre impariamo a entrare in rapporto
con gli altri. E se da una parte questo ci dà
la sensazione di “esserci”, dall’altra ha i
suoi svantaggi. Il sé può costringerci a re-stare nevroticamente aggrappati a emo-zioni e pensieri che compromettono la no-stra felicità complessiva.
Ma  cambiare  strada  significherebbe
annullare le certezze di una vita.u dic

La libertà limitata dei dissidenti birmani

Il governo birmano ha promesso
che libererà tutti i prigionieri
politici entro la ine dell’anno.
Ma quelli già rilasciati sono
sottoposti a restrizioni molto
severe
J



 I
l 15 luglio, durante una visita nel Re-gno Unito,  il  presidente  birmano
Thein Sein si è impegnato a liberare
gli ultimi prigionieri politici entro la
ine dell’anno. La dichiarazione ha seguito
solo di poche ore l’arresto, nello stato del
Rakhine, di Kyaw Hla Aung, un noto avvo-cato musulmano impegnato nella difesa
dei diritti umani. L’attivista è colpevole di
aver partecipato a una manifestazione con-tro le leggi discriminatorie sulla cittadinan-za in vigore nello stato, teatro di violenze
contro la minoranza musulmana.
L’8 agosto è stato il 25° anniversario del-la rivolta del 1988. Nata come un movimen-to studentesco, la rivolta assunse tutt’altra
dimensione quando monaci, funzionari e
semplici cittadini organizzarono uno scio-pero generale contro la giunta militare al
potere. L’episodio non è ricordato solo per
La libertà limitata
dei dissidenti birmani
Il governo birmano ha promesso
che libererà tutti i prigionieri
politici entro la ine dell’anno.
Ma quelli già rilasciati sono
sottoposti a restrizioni molto
severe
Jake Scobey-Thal, The Nation, Stati Uniti
KHIN MAUNg WIN (Ap/LApReSSe)
Due prigionieri politici all’uscita del carcere di Rangoon, 23 luglio 2013
la violenta repressione che ne seguì, ma
anche per la nuova generazione di dissi-denti che generò. Da allora attivisti, scrit-tori, dissidenti sono in prigione per aver
osato chiedere riforme democratiche.
Negli ultimi due anni e mezzo molto è
cambiato. A partire dalle elezioni del 2010
– le prime pluripartitiche in vent’anni – il
governo ha realizzato delle riforme signii-cative, e ha rilasciato migliaia di prigionieri
politici.  probabilmente,  per  un  governo
che sta cercando di disfarsi delle sanzioni
internazionali e d’incoraggiare gli investi-menti stranieri, la liberazione dei prigio-nieri è la mossa più facile per dimostrare le
proprie buone intenzioni. Molti attivisti,
però, sostengono che la liberazione dei dis-sidenti è solo uno specchietto per le allodo-le rivolto all’occidente, una mossa diplo-matica che nasconde abusi dei diritti uma-ni tuttora commessi. Si stima che in carcere
ci siano ancora un centinaio di prigionieri
politici.
La promessa di liberare tutti, inoltre, è
stata messa in dubbio da una recente onda-ta di arresti. A giugno una corte ha condan-nato Myint Aung, segretario di una ong, a
un anno di lavori forzati per aver protestato
contro l’espansione della miniera di rame
di Letpadaung. Myint Aung è accusato di
aver organizzato una manifestazione non
autorizzata, illegale secondo una norma
del 2011 sulle assemblee paciiche. La nuo-va legge, apprezzata dai governi occidenta-li, tutela il diritto di riunirsi liberamente ma
contiene ancora diversi punti critici. per
esempio, un paciico atto di protesta diven-ta criminale se si dice qualcosa che può
danneggiare lo stato o se disturba il trai-co.
Oltre a Myint Aung, altre 13 persone so-no state accusate di aver organizzato un
corteo nella giornata internazionale della
pace. gli attivisti avevano provato a richie-dere un’autorizzazione, che gli era stata
negata. Oggi nel paese sarebbero circa 200
le  persone  accusate  di  aver  manifestato
senza permesso. per Tomas Ojea Quinta-na, il relatore speciale delle Nazioni Unite
sulla situazione dei diritti umani in Birma-nia, gli attivisti fermati recentemente pos-sono essere deiniti prigionieri politici.
All’inizio del 2013, per rispondere alle
pressioni della comunità internazionale e
dei gruppi di difesa dei diritti umani, il go-verno ha messo in piedi un comitato per il
“vaglio degli ultimi prigionieri di coscien-za”, che dovrebbe far luce sui singoli casi
ma che nei fatti, secondo gli attivisti, ha un
raggio d’azione molto limitato ed è solo un
altro esempio di come il governo usi i pri-gionieri politici per rifarsi un’immagine.
Secondo Bi Kyi dell’Associazione di assi-stenza ai prigionieri politici, “questo comi-tato è una vetrina per convincere gli Stati
Uniti a ritirare tutte le sanzioni”. In efetti,
sono sempre le sanzioni a spingere le rifor-me politiche in Birmania.
Ancora molto da fare
Secondo Human rights watch (Hrw), inol-tre, il governo impone restrizioni severe ai
prigionieri liberati. Alcuni, per esempio,
non possono uscire dal paese o iscriversi
all’università. Inoltre, il governo non ha in-tenzione di risarcire economicamente chi
ha subìto delle torture negli anni di prigio-nia. Ma mentre il governo cerca di far di-menticare gli abusi commessi in passato
dalla  giunta  militare,  non  può  ignorare
quelli compiuti nel presente. “purtroppo
molti governi della comunità internaziona-le pensano che la liberazione dei prigionie-ri sia la ine di una brutta storia e applaudo-no al presidente, mentre in realtà c’è anco-ra molto lavoro da fare”, commenta David
Scott Mathison di Hrw. u

venerdì 11 ottobre 2013

PERSONAGGI - Zahi Hawass Vita da faraone --- Joshua Hammer, Smithsonian, Stati Uniti

Per più di dieci anni è stato il
padrone assoluto del
patrimonio archeologico
egiziano. Poi è arrivata la
primavera araba, ed è stato
emarginato. Ma sta già
preparando il suo ritorno


A
ll’interno  della  camera
funeraria della piramide
a gradoni del re Djoser,
costruita cinquemila an-ni fa, Zahi Hawass indos-sa i suoi tipici abiti da sa-fari e il cappello a falde larghe. L’enorme
sala è immersa nella penombra ed è piena
di ponteggi. Il progetto di restauro e conser-vazione, avviato da Hawass nel 2002 nel
sito archeologico di Saqqarah, nei pressi del
Cairo, ha permesso di evitare il crollo del
soitto e delle pareti, ma ormai i tempi sono
cambiati.
Oltre ad aver rovesciato Hosni Muba-rak, la rivoluzione scoppiata all’inizio del
2011 ha messo ine al discusso regno di Ha-wass come responsabile della gestione dei
reperti archeologici dell’antico Egitto.
L’archeologo si guarda intorno con aria
sconsolata. I lavori di conservazione della
piramide sono fermi. In un tentativo dispe-rato  di  arginare  le  proteste,  Moustapha
Amine, successore di Hawass alla guida del
consiglio supremo per le antichità, nomina-to del governo dei Fratelli musulmani a ot-tobre del 2011, ha usato il denaro destinato
ai restauri per assumere migliaia di diplo-mati in archeologia. In sostanza “non ha
fatto nulla”, accusa Hawass mentre esami-na il tetto e le pareti di calcare. Nella sua
voce si percepisce un pizzico di maligna
soddisfazione.  Hawass illumina con la sua
torcia il sarcofago di granito del faraone
Djoser. Nel frattempo, io avanzo gattoni
lungo un cunicolo che fa parte di una rete di
tunnel lunga quasi otto chilometri, scavata
sotto la piramide nel ventisettesimo secolo
avanti Cristo. L’aria è piena di polvere. “Il
faraone defunto doveva percorrere queste
gallerie e afrontare le creature selvagge per
diventare Osiride, il dio dell’oltretomba”,
mi spiega Hawass mentre ritroviamo l’usci-ta e la luce del sole.
Secondo la mitologia egizia, Osiride re-gnò sulla terra ino a quando suo fratello, il
malvagio e geloso Seth, lo uccise e usurpò il
suo trono. La caduta di Osiride scatenò un
vortice di rivalità e vendette al termine del
quale Seth fu inalmente sconitto e Osiride
riportato in vita. Soltanto con il ritorno del
re l’ordine poteva tornare in Egitto.
La rivoluzione
Per più di dieci anni, Hawass è stato una
specie di Osiride dei reperti egizi. Ibrido
bizzarro tra un uomo di spettacolo e un eru-dito, ha regnato su un universo misterioso
fatto di sepolcri e templi. Nel frattempo, ha
condotto trasmissioni televisive seguitissi-me in cui indagava sui misteri del passato,
come il luogo della sepoltura di Antonio e
Cleopatra o la causa della morte di Tutank-Per più di dieci anni è stato il
padrone assoluto del
patrimonio archeologico
egiziano. Poi è arrivata la
primavera araba, ed è stato
emarginato. Ma sta già
preparando il suo ritorno
Joshua Hammer, Smithsonian, Stati Uniti
hamon. Con il passare degli anni, anche la
sua megalomania è diventata leggendaria. 
Nel programma “Sulle tracce delle mum-mie: le straordinarie avventure di Zahi Ha-wass”, trasmessa dal canale statunitense
History Channel, si vede l’archeologo men-tre impartisce ordini ai suoi collaboratori
con un tale sfoggio di autocelebrazione che
un critico del New York Times ha scritto:
“Speriamo che il dottor Hawass scopra una
scatola di antiche pillole calmanti e ne butti
giù una buona dose”.
In ogni caso, non ci sono dubbi sul fatto
che Hawass è riuscito a conquistarsi la sti-ma dei suoi colleghi e l’ammirazione di mi-lioni di egiziani. Nel 2001 la National Geo-graphic society l’ha nominato explorer in
residence, un riconoscimento che premia
scienziati ed esploratori in tutto il mondo.
Ha scritto molti libri, alcuni dei quali sono
diventati dei best seller, e ino a qualche
tempo fa chiedeva dai diecimila ai cinquan-tamila dollari per partecipare a una confe-renza. “Tutankhamon e l’età d’oro dei fara-oni”, una mostra itinerante che Hawass ha
messo in piedi a partire da circa sessanta
reperti custoditi nel museo egizio del Cairo,
ha portato nelle casse dello stato egiziano
circa 110 milioni di dollari al termine di una
tournée in sette città europee e statunitensi.
È stata una delle mostre più riuscite della
storia dal punto di vista economico.
Ma poi è arrivata la rivoluzione. Durante
i giorni delle proteste contro Mubarak al
Cairo, nel gennaio del 2011, Hawass è stato
violentemente attaccato dai manifestanti,
che l’hanno deinito “il Mubarak dei reperti
archeologici”, e l’hanno accusato di corru-zione. Un gruppo formato da dipendenti
pubblici del settore archeologico e laureati
disoccupati ha assediato l’uicio di Hawass
e  ha  chiesto  le  sue  dimissioni  gridando:
“Non dimenticarti il cappello”. Nel luglio
del 2011, dopo aver servito sotto due gover ni del post Mubarak, Hawass è stato costret-to a rinunciare alle sue funzioni. “L’hanno
scortato fuori del ministero attraverso una
porta nascosta e caricato su un taxi, bersa-gliato dagli insulti e dagli slogan dei giovani
archeologi”, racconta un blogger egiziano.
La scena è stata ilmata, e migliaia di egizia-ni hanno potuto vederla su internet.
Oggi Hawass paragona la sua caduta a
quella di Osiride. “Avevo molti nemici, i ne-mici del successo. Sono gli amici del dio
Seth,  il  dio  del  male  dell’antico  Egitto”.
Molti esponenti della comunità archeologi-ca sembrano condividere questa opinione.
“I risultati di qualsiasi altro egittologo im-pallidiscono davanti ai suoi. La sua carriera
e la sua notorietà hanno scatenato il risenti-mento di alcune persone”, spiega Peter La-covara, studioso dell’università Emory, ad
Atlanta, e amico di Hawass da molti anni.
“Le persone erano gelose del suo succes-so”, dice un egittologo statunitense che ha
chiesto di restare anonimo. Altri sono con-vinti che la sua caduta sia dovuta alla sfac-ciataggine e al modo di fare sprezzante, in-sieme alla totale incapacità di comprendere
il malcontento della popolazione alla vigilia
della rivolta contro Hosni Mubarak.
Qualunque siano i motivi, l’allontana-mento  di  Hawass  ha  generato  una  certa
preoccupazione per il futuro dei reperti egi-zi. L’archeologo ha suscitato molta ostilità,
ma è stato anche un competente e appas-sionato amministratore del patrimonio na-zionale, capace di “aggirare la burocrazia”,
come ricorda Naguib Amin, suo amico e
consigliere. Oggi, numerosi progetti (tra cui
quello di Saqqarah) sono a un punto morto,
e c’è chi sostiene che la caduta di Hawass
abbia avuto conseguenze negative sia per il
inanziamento sia per la gestione dei tesori
dell’Egitto. Il turismo rappresenta una fetta
importante dell’economica egiziana, e ri-spetto al 2010 il numero di turisti si è prati-camente dimezzato. “Il suo carisma faceva
scorrere il denaro”, sostiene Ali Asfar, diret-tore dell’istituto che si occupa della gestio-ne delle Piramidi. “Oggi nessuno può pren-dere il suo posto”.
Passione americana
Incontro Hawass in una fresca mattinata di
dicembre, nel suo uicio al nono piano di
un palazzo malmesso in un vivace quartiere
della capitale, vicino al Nilo. L’appartamen-to di due stanze si trova in fondo a un corri-doio lugubre impregnato da un forte odore
di cucina. Oltre ad Hawass, ci lavorano un
assistente e Tarek al Awady, suo collabora-tore storico. Uno degli obiettivi di Hawass è
sempre stato quello di rompere il monopo-lio occidentale sull’archeologia, che dura
dai tempi di Napoleone. Per riuscirci, l’ar-cheologo ha “favorito la formazione di gio-vani egiziani e gli ha oferto opportunità
senza precedenti”, spiega Lacovara.
Al Awady mi accompagna nel modesto ui-cio di Hawass. L’ex faraone dell’archeologia
egiziana è vestito di jeans e se ne sta seduto
dietro a una scrivania carica di documenti.
Parla  al  telefono  con  i  rappresentanti  di
un’emittente televisiva russa, che vogliono
intervistarlo. All’improvviso comincia a ur-lare in arabo. Il suo sfogo dura una ventina
di secondi. Diventa subito paonazzo, poi
chiude la telefonata e mi guarda con aria
imbarazzata.  “Un  imbecille”,  sentenzia
scuotendo la testa. Mi spiega che stava pro-vando a dare indicazioni all’autista della
troupe russa, ma quello non smetteva di in-terromperlo. I suoi scatti di rabbia sono fa-mosi, ma rimango sorpreso dal fatto che mi
abbia presentato questo lato della sua per-sonalità al nostro primo incontro.
Hawass combatte ancora con i problemi
giudiziari cominciati durante la rivoluzio-ne. Nella primavera del 2012 il procuratore
generale gli ha proibito di lasciare il paese
in attesa dei risultati di alcune indagini su
presunte irregolarità ed episodi di corruzio-ne. L’archeologo è accusato di aver sperpe-rato denaro pubblico e messo a repentaglio
i tesori egizi facendoli uscire dal paese sen-za autorizzazione. Inoltre, dopo che qualcu-no  ha  sottolineato  un  possibile  conflitto
d’interessi, Hawass ha interrotto il suo con-tratto con National Geographic, che gli frut-tava 200mila dollari all’anno. Eppure, Ha-wass mi assicura di non essere mai stato
così  felice.  Finalmente  è  libero  da  tutte
quelle responsabilità amministrative e so-prattutto  dall’infinità  di  intrighi  politici
contro cui ha dovuto combattere per anni.
“L’unica cosa che mi manca sono gli scavi.
Ma non mi pento di nulla, non ho nessuna
intenzione di lamentarmi della mia sorte”.
Poi si fa prendere dalla rabbia e sbatte la
mano sul tavolo. “Non sono mai stato de-presso, mai. In tutta la mia vita”.
Zahi Hawass è nato nel 1947 in un villag-gio nei pressi della città di Damietta, sul
delta del Nilo. Dopo aver scartato l’idea ini-ziale di diventare avvocato, si è laureato in
egittologia all’università del Cairo e in ar-cheologia greca e romana all’università di
Alessandria, prima di lavorare come ispet-tore delle Piramidi. A 33 anni si è aggiudica-to una borsa di studio Fulbright e ha prose-guito gli studi all’università della Pennsyl-vania, dove ha ottenuto un dottorato. È in
quel periodo che è cominciata la sua lunga
storia d’amore con gli Stati Uniti.
Contro Sarkozy
Hawass ha trascorso la maggior parte dei
suoi sette anni americani a studiare e a la-vorare. “Vivevo all’università”, racconta.
All’interno del campus guidava l’Unione
degli studenti egiziani. Viaggiava spesso
per partecipare a molte conferenze. Negli
Stati Uniti, ha stretto contatti che più tardi
gli sono tornati estremamente utili per le
sue raccolte di fondi, e ha anche sviluppato
una formidabile capacità oratoria. Nel cor-so degli anni la sua ammirazione per gli Sta-ti Uniti non ha mai smesso di crescere. “Ho
scoperto che gli americani sono le persone
migliori del mondo. Laggiù è facile stringe-re amicizie che durano una vita”.
Hawass è rientrato in Egitto nel 1987 e
ha subito cominciato a lavorare come diret-tore dei siti archeologici di Giza e Saqqarah.
Tre anni più tardi, non lontano dalla Singe,
è arrivata la sua prima grande scoperta: un
cimitero antico con 600 tombe e 50 sepol-cri appartenenti ai costruttori delle Pirami-di, alle loro famiglie e ai loro sorveglianti.
Ricco di gerogliici che descrivono le oferte
rituali e le attività quotidiane, il cimitero ha
rivelato una grande quantità di informazio-ni preziose sulla vita degli egiziani durante
la quarta e la quinta dinastia. Nel 2002 Ha-wass è stato scelto per dirigere il consiglio
supremo per le antichità, diventando re-sponsabile di migliaia di siti archeologici
sparsi nel paese. Da quel momento, la sua
celebrità non ha fatto che aumentare. In
quel periodo il lusso turistico verso l’Egitto
era notevolmente diminuito a causa dell’at-tentato terroristico del 1997 al tempio di
Hatshepsout, alla periferia di Luxor, costa-to  la  vita  a    62  persone,  e  degli  attacchi
dell’11 settembre del 2001. Zahi Hawass è
l’uomo che più di ogni altro si è impegnato
per far tornare i turisti nel paese. Le sue tra-smissioni tv, le sue mostre itineranti, i suoi
scavi prestigiosi e le sue strategie di promo-zione “hanno restituito dinamismo all’egit-tologia”, spiega Rainer Stadelmann, vec-chio amico di Hawass e direttore dell’Istitu to archeologico tedesco del Cairo.  Hawass
ha anche lanciato un’energica campagna
per riportare in Egitto gli oggetti trafugati
dagli europei (come il busto di Nefertiti, og-gi al Neues museum di Berlino, o la stele di
Rosetta, conservata al British museum di
Londra), provocando l’ostilità di alcuni lea-der mondiali e allo stesso tempo alimen-tando la sua fama. Nel 2009 ha chiesto al
Louvre la restituzione di cinque afreschi su
calcare, rubati da una tomba di Luxor negli
anni ottanta e acquisiti dal museo nel 2000
e nel 2003. Davanti al riiuto del direttore
del Louvre, Hawass ha bloccato un cantiere
di  scavi  finanziato  dal  museo  parigino  a
Saqqarah. “Quella volta ho scatenato un
putiferio. Una mattina, alle nove meno un
quarto, stavo per intervenire a una confe-renza quando ho ricevuto una telefonata di
Mubarak. Mi ha detto: ‘Zahi, ho appena i-nito di parlare con Sarkozy. Che sta succe-dendo?’. Gli ho spiegato la situazione e lui
mi ha risposto: ‘Allora fai bene a comportar-ti così’”. Qualche mese dopo il Louvre ha
restituito le opere d’arte. “Il ritorno degli
afreschi è diventato un simbolo”,  mi spie-ga l’archeologo.
Da solo sotto i rilettori
Hawass adorava essere famoso. Girava per
le vie del Cairo a bordo di un 4x4 con auti-sta, beveva vini da trecento dollari, si vanta-va della sua amicizia con l’attore Omar Sha-rif e ogni tanto partecipava ai ricevimenti
nella villa di Mubarak. Nel 2009 ha fatto da
guida delle Piramidi per Barack Obama, ha
perino messo in vendita una replica del suo
cappello alla Indiana Jones e ha concluso
un accordo con un’azienda statunitense per
produrre una linea di abbigliamento. L’afa-re è saltato a causa della rivoluzione, quan-do per i suoi nemici è arrivato il momento
della vendetta.
I difensori del patrimonio culturale han-no  accusato  Hawass  di  aver  trasformato 
luoghi antichi come Luxor e Saqqarah in
parchi tematici, decidendo di usare mate-riali moderni e inadatti come il cemento, i
mattoni, il legno e i metalli. La sua scelta di
restringere l’accesso ad alcuni siti archeolo-gici per proteggerli dai furti e dal vandali-smo  (per  esempio,  ha  fatto  costruire  un
muro intorno alle Piramidi) è stata giudica-ta da alcuni come una sorta di apartheid.
“Ha innalzato un muro sia reale sia simbo-lico tra gli egiziani e il loro patrimonio cul-turale”,  ha  detto  Monica  Hanna,  una  ex
collega di Hawass che oggi insegna archeo-logia all’università Humboldt di Berlino.
Altre persone hanno criticato la sua de-cisione di approvare e annunciare perso-nalmente tutte le scoperte degli altri arche-ologi.  Quando  un’egittologa  britannica
dell’università di York si è ribellata e ha co-municato al pubblico, senza avvisare Ha-wass,  di  aver  identificato  la  mummia  di
Nefertiti tra quelle ritrovate nell’ottocento
in una tomba nei pressi di Luxor, Hawass ha
deinito la scoperta una “bufala”, criticando
apertamente la ricercatrice e impedendole
di lavorare in Egitto. Per i sostenitori di Ha-wass, però, un approccio di questo tipo era
necessario. “I suoi avversari dicono che si è
attribuito il merito di tutte le scoperte fatte
in Egitto, ma in realtà le ha fatte conoscere
al mondo e ha difuso le informazioni attra-verso i canali appropriati”, dice Peter Laco-vara. Alcuni colleghi l’hanno accusato di
aver monopolizzato i rilettori. “Cosa posso
farci? Dio mi ha dato il carisma, perché do-vrei regalarlo ad altri? Chi è oggi la stella
dell’egittologia? Sai dirmi il nome dell’at-tuale responsabile delle antichità egizie?”.
Il 31 gennaio 2011, in piena rivoluzione,
Ahmed Shaiq, primo ministro durante la
transizione militare, ha chiesto ad Hawass
di assumere la guida del nuovo ministero
per le antichità, all’interno di un governo
nato in fretta e furia. Il cambiamento al ver-tice rispondeva al tentativo di calmare i ma-nifestanti  e  allo  stesso  tempo  di  salvare
Mubarak. Hawass ricorda così quel perio-do: “Shaiq diceva: ‘Abbiamo visto la faccia
di  Zahi  in  tutti  gli  schermi  televisivi  del
mondo, gli egiziani lo adorano. Se creiamo
questo nuovo ministero non potrà riiutare’.
Ho pensato che il mio paese aveva bisogno
di me, e non potevo restare senza fare nulla.
Così ho accettato”.
Alcuni colleghi ritengono che abbia sba-gliato a dire di sì. “Credeva di dover fare il
suo dovere, ma non ha capito la rabbia del
popolo contro Mubarak e ha dato prova di
ingenuità politica”, spiega l’egittologo tede-sco  Rainer  Stadelmann.    Da  allora  sono
passati due anni. Zahi Hawass non rinnega
il suo passato, ma ribadisce di “non essere
mai stato vicino” all’ex presidente. “Ho sof-ferto molto a causa del regime di Mubarak.
I ministri mi attaccavano sul piano perso-nale”. Hawass riconosce che Mubarak ha
commesso gravi errori negli ultimi anni del
suo mandato, ma è convinto che solo lui po-teva governare l’Egitto. “Mubarak non era
un uomo malvagio. Ha fatto cose positive,
ma tre decenni al potere sono troppi”.
Incontro di nuovo Hawass in una sala da
ballo dell’hotel Four Seasons del Cairo, un
sabato sera. È molto nervoso, anche perché
il suo futuro è ancora incerto. Ripete di non
avere nessuna intenzione di puntare al vec-chio incarico, ma non smette di parlarmi
del declino del ministero dopo il suo allon-tanamento. “Quando c’ero io il palazzo era
un formicaio. La gente lavorava dalle 9 alle
18, tutti i giorni. Oggi nessuno fa niente”.  In
realtà, Zahi Hawass sembra già pronto per
la sua personale resurrezione. Nel 2012, mi
spiega, c’è stato il centesimo anniversario
del  trasferimento  del  busto  di  Nefertiti
dall’Egitto a Berlino. Hawass ha chiesto più
volte la restituzione del capolavoro. Le au-torità tedesche hanno respinto la sua richie-sta, ma l’archeologo non si arrende. “Sto
scrivendo un articolo su Nefertiti”. Mentre
mi parla, i camerieri girano per i tavoli della
sala, e l’orchestra comincia a suonare. “Vo-glio far capire ai tedeschi che la battaglia
non è ancora inita”. Come Osiride, Zahi
Hawass è certo che il trionfo di Seth può es-sere solo temporaneo. u a

Nel paese dei dati Mehdi Atmani, Le Temps, Svizzera Foto di Emanuele Cremaschi I danesi hanno un enorme patrimonio di informazioni raccolte dalle amministrazioni pubbliche. E vogliono sfruttarlo per l’innovazione nel campo dei servizi e per creare posti di lavoro

L
e grida che arrivano dal par-co  divertimenti  Tivoli  at-traversano il viale H.C. An-dersen.  Una  frenesia  che
contrasta con la calma del
Danish design center, pro-prio sull’altro lato della strada. Appena var-cata la porta dell’ediicio, progettato dal
celebre architetto Henning Larsen, il visi-tatore è travolto dalle eccellenze del design
locale. Al pianoterra le lampade Louis Poul-sen sono sistemate accanto alle sedie in
plastica di Verner Panton, agli stereo Bang
& Olufsen e ai mattoncini del Lego. “Begli
oggetti del passato. Ma il futuro è alle sue
spalle”, mi fa notare Nille Juul-Sørensen.
Un rapido giro su me stesso e capisco im-mediatamente la battuta dell’architetto e
direttore del centro. Di fronte a noi su un
muro giallo ci sono scritte delle parole chia-ve  a  lettere  nere:  tecnologia,  materiali,
gruppo di cervelli, innovazione, big data.
Sono le parole che devono orientare la dire-zione che prenderà la società danese, spie-ga Juul-Sørensen: “La Danimarca non deve
più essere conosciuta solo per il design dei
suoi mobili, ma deve essere all’avanguar-dia del design informatico”.
Alla ine del 2012 questo architetto in-novatore e idealista ha inaugurato il Data
Viz, una sorta di accademia che riunisce i
migliori hacker, designer, architetti, im-prenditori, graici e informatici danesi. In-sieme raccolgono e analizzano la grande
massa di dati pubblici e privati custoditi
dalle  pubbliche  amministrazioni  e  dalle
imprese del paese. Lo scopo è innovare e
creare nuovi servizi per migliorare la quali-tà della vita dei danesi.
Design e tecnologia
Open data e big data sono due espressioni
molto di moda oggi in Danimarca. La pri-ma deinisce tutti i dati raccolti dalla pub-blica  amministrazione,  come  il  tasso  di
criminalità per quartiere, l’eicienza ener-getica degli ediici o il numero di contri-buenti sotto una determinata soglia di età.
La seconda indica le tracce digitali che ci
lasciamo alle spalle quando facciamo ac-quisti, navighiamo su internet o usiamo il
cellulare:  sono  tutti  dati  accuratamente
memorizzati nei server delle imprese, dei
motori di ricerca e degli operatori di telefo-nia. Gli open data e i big data sono la nuova
miniera  d’oro  della  Danimarca.  Ma  per
sfruttarli appieno bisogna ancora sviluppa-re gli strumenti adatti.
La sida è stata raccolta da Juul-Søren-sen, che ormai passa tutto il suo tempo a
incontrare imprenditori e amministratori
pubblici e a cercare di convincere hacker e
designer del potenziale valore dei dati. Di
recente il comune di Copenaghen lo ha an-che incaricato di sostituire una parte dei
semafori della città. “Un semaforo non de-ve limitarsi a lampeggiare”, spiega Juul-Sørensen. “Deve avere un collegamento
wii e sensori che registrano in tempo reale
il numero di auto e di biciclette che passa-no. In questo modo si possono raccogliere
enormi quantità di dati per gestire la città in
modo più eiciente”.
Un importante passo avanti verso l’in-novazione tecnologica la Danimarca lo ha già fatto dotandosi di una piattaforma na-zionale open data, la Odis, che dal 1 gennaio
2013 mette gratuitamente i dati pubblici a
disposizione di tutti. Quest’importante no-vità è dovuta in gran parte alla determina-zione di Cathrine Lippert, che ci riceve nel
suo uicio nel centro di Copenaghen, al nu-mero 4 di Landgreven, poco distante dal
Danish design center.
Lippert è la igura di spicco della Digita-liseringsstyrelsen, l’agenzia del ministero
delle inanze che si occupa di rendere uti-lizzabili i dati nascosti nei server delle am-ministrazioni. Un’iniziativa unica nel suo
genere perché, mentre negli Stati Uniti, nel
Regno Unito o in Francia si insiste solo sulla
trasparenza,  la  Danimarca  vuole  invece
usare i dati in suo possesso per creare posti
di lavoro. “L’obiettivo è economico, non
abbiamo problemi di trasparenza”, aferma
Cathrine Lippert. “L’economia del paese è
basata soprattutto sulle piccole e medie im-prese,  che  non  sono  ancora  consapevoli
dell’importanza dei dati che raccolgono e
del potenziale offerto dall’open data”. Il
compito dell’Odis è rendere disponibili e
standardizzare i dati pubblici per il settore
privato. “Vogliamo fornire alle imprese le
risorse digitali su cui poter costruire e inno-vare. In futuro questo signiicherà più cre-scita e più occupazione”. In quest’ambito,
la Danimarca si distingue dagli altri paesi
perché ha approvato leggi che favoriscono
l’accesso gratuito e lo scambio dei dati. Per
esempio, ino al 1 gennaio 2013 per avere i
dati del catasto in 3d si dovevano sborsare
centinaia di migliaia di corone. Oggi è tutto
gratuito.
Un altro fattore importante è il volume
dei dati raccolti. Grazie alle dimensioni del
suo settore pubblico, il regno dispone di
una  grande  quantità  di  informazioni  di
buona qualità. A questo si deve aggiungere
la capillare difusione di internet tra i dane-si. “La Danimarca è seduta su un tesoro di
informazioni che bisogna sfruttare in ma-niera intelligente”, spiega Cathrine Lip-pert. Il problema è convincere il primo mi-nistro, la socialdemocratica Helle Thor-ning-Schmidt.
Giovani imprese crescono
Il successo del progetto di Christian Lanng
ha  dell’incredibile.  Nell’aprile  del  2010
questo ex funzionario dell’agenzia del go-verno danese per le telecomunicazioni ha
rivoluzionato il mondo del commercio on-line. Con i suoi amici Mikkel Hippe Brun e
Gert Sylvest ha fondato la startup Trade-shift, una piattaforma online di fatturazio-ne gratuita. Tradeshift è una specie di rete
sociale, commerciale e globale, che per-mette alle imprese di scambiare in modo
sicuro e gratuitamente fatture, ordini, pre-ventivi e pagamenti. A soli dieci mesi dal
suo lancio, Tradeshift già collegava settan-tamila imprese danesi, cioè il 40 per cento
delle piccole e medie imprese di tutto il pa-ese. Lanng ha ricevuto il premio danese per
l’innovazione,  e  per  i  giornali  Wired,
Techcrunch, Wall Street Journal e Financial
Times, la sua Tradeshift è stata “la startup
più innovativa degli ultimi dieci anni”. Og-gi la piattaforma è un gigante presente in
190 paesi e si vanta di avere clienti del cali-bro di Dell, Hilton o Kuehne+Nagel. Una
storia di successo unica, costruita sull’uso
dei dati.
In Danimarca, tuttavia, nel rapporto tra nnovazione e crescita economica c’è un
paradosso: il paese è determinato a rendere
disponibili tutti i dati pubblici e allo stesso
tempo vuole limitare l’accesso ad alcune
informazioni. Per mesi, infatti, il parlamen­
to ha discusso animatamente della revisio­
ne della legge sulla libertà dell’informazio­
ne. Criticata dai parlamentari di destra e
della sinistra radicale, la riforma, approva­
ta a giugno, intende limitare l’accesso pub­
blico ai documenti prodotti dai ministeri.
Anche se può sembrare strano, la riforma
della legge e la questione degli open data
sono considerate dai danesi due temi di­
stinti. Il primo riguarda la trasparenza dei
poteri pubblici, l’altro l’economia.
Il numero magico
In un cafè di Holbersgade, Niels Erik Kaa­
ber Rasmussen sta divorando un club sand­
wich  al  salmone.  A  33  anni,  il  fondatore
della startup Buhl & Rasmussen si batte per
rendere pubblici i dati sull’operato dei poli­
tici. “L’opposizione alla riforma mi ha sor­
preso per la sua violenza”, spiega Rasmus­
sen. “La Danimarca ha una lunga tradizio­
ne di rispetto della trasparenza. La questio­
ne non ha mai suscitato un vero dibattito
pubblico  semplicemente  perché  non  ce
n’era bisogno. La trasparenza era un dato
acquisito. Ma quando si è cercato di cam­
biare le cose, i cittadini hanno protestato”.
Niels Erik Kaaber Rasmussen si occupa
di dati da dieci anni, prima al parlamento
europeo poi, dal 2004, per conto del mini­
stero danese della scienza, della tecnologia
e dell’innovazione, dove lavora allo svilup­
po  di  standard open  source  per  il  settore
pubblico. Con la sua startup si occupa inve­
ce di creare applicazioni sulla base di dati
pubblici e soprattutto privati: proprio quei
big data che tanto preoccupano i governi di
tutto il mondo, perché possono permettere
di ottenere proili accurati di ogni indivi­
duo.  Timori  simili,  però,  non  sembrano
siorare Kaaber Rasmussen. “La nozione di
sfera privata è simbolica”, spiega. “I danesi
hanno iducia nelle loro istituzioni e nei lo­
ro concittadini. Non hanno problemi a for­
nire all’amministrazione i dati personali. È
un fenomeno culturale. Se, per esempio,
prendiamo i dati sulla criminalità a Cope­
naghen, non ci interessa sapere chi è un
criminale e chi non lo è. Ma vogliamo sape­
re dove si trovano i criminali. Negli Stati
Uniti, invece, preferiscono sbattere le foto
dei delinquenti in prima pagina”. Anche
nello  scenario  danese,  apparentemente
idilliaco, esistono però degli eccessi. Dal
1968 i danesi usano un sistema di identii­
cazione personale molto eicace ma poco
sicuro. Al momento della nascita, o all’arri­
vo  nel  paese,  le  autorità  attribuiscono  a
ogni cittadino un numero di identiicazione
personale a dieci cifre chiamato Cpr, simile
al nostro codice iscale. Le prime sei cifre
corrispondono alla data di nascita, le ulti­
me sono generate da un algoritmo. Il Cpr è
nato per permettere il riconoscimento delle
persone e per facilitare il funzionamento
del sistema iscale: grazie alle ultime quat­
tro cifre del numero l’amministrazione può
infatti accedere al fascicolo con tutte le in­
formazioni di ogni cittadino.
Nell’era digitale, però, il Cpr è vittima
della sua stessa eicienza e semplicità. I
danesi lo usano praticamente per qualsiasi
cosa: l’apertura di un conto in banca, l’ac­
cesso alla cartella medica, gli acquisti on­
line. Così il Cpr si è trasformato da stru­
mento per la veriica dell’identità a vero e
proprio documento di riconoscimento e ha
sostituito  di  fatto  la  carta  di  identità.  In
questo modo la Danimarca conserva nei
suoi  server  una  quantità  enorme  di  dati
personali poco protetti. Un rischio per i cit­
tadini, come ha scoperto sulla propria pelle
Mette  Christensen  nel  2009,  quando
all’uscita da un bar nel quartiere di Nørre­
bro le hanno rubato il portafoglio. Mette ha
subito denunciato il furto ma i ladri ormai
avevano  il  suo  Cpr  e  così  per  settimane
hanno usato quel numero per fare acquisti
online. “Era terribile vedere il mio doppio
agire in assoluta libertà”, racconta la ragaz­
za. Dopo una lunga procedura Mette si è i­
nalmente vista attribuire un nuovo numero
e alla ine i ladri sono stati arrestati. Eppure,
nonostante questi furti di identità siano
sempre più numerosi, l’amministrazione
non ha in programma di cambiare sistema:
sarebbe troppo costoso.
Bersagli sbagliati
Nel suo grande open space del quartiere di
Østerbro, Lasse Boisen Andersen si acca­
rezza i bai, apre una lattina di Heineken e
dà una boccata alla sua sigaretta elettroni­
ca. Andersen, che ha 25 anni, è hacker, im­
prenditore ed è tra i fondatori di Creative
destruction, un’organizzazione che studia
l’aspetto innovativo dei dati. Dopo gli studi
di informatica all’università e la Business
school di Copenaghen, Lasse e un amico si
sono messi in testa di dimostrare la vulne­
rabilità del sistema. “Il Cpr è basato su un
algoritmo molto facile da scoprire”, raccon­
ta. “Ci sono voluti due giorni e meno di 150
tentativi per ottenere il codice personale di
qualcuno”. A quel punto i due studenti han­
no contattato i mezzi d’informazione e la
storia ha avuto grande visibilità. Al punto
che Margrethe Vestager, ministro dell’eco­
nomia e dell’interno, ad aprile si è occupata
personalmente del caso, promettendo di
multare le imprese che non garantiranno la
sicurezza dei Cpr sui loro siti internet. “Il
governo ha completamente sbagliato ber­
saglio”, si rammarica Lasse. “Invece di cor­
reggere i problemi di sicurezza, ha deciso di
punire le imprese. La nostra generazione
sta sviluppando strumenti eicacissimi per
risolvere questi problemi di sicurezza. Ep­
pure nessuno ci ascolta”.
Nille Juul­Sørensen è d’accordo. “Per
molto tempo la Danimarca si è illusa di po­
ter avere una ‘sua’ Nokia, ma a una sola
grande impresa preferisco migliaia di gio­
vani startup intelligenti e creative”. E in ef­
fetti il direttore del Danish design center è
impegnato ad aiutare i progetti dei più gio­
vani. Per l’anno scolastico appena comin­
ciato l’accademia Data Viz fornirà agli stu­
denti dei corsi di coding. “Tutti parlano il
linguaggio informatico, ma pochi lo sanno
scrivere e leggere. Per guidare l’innovazio­
ne tecnologica dobbiamo conoscere le vi­
scere dei computer”. Come dice una frase
ormai diventata celebre, if you can’t open it,
you don’t own it!, se non lo sai aprire, non lo
possiedi! u ad

SCIENZA - Il mistero delle api scomparse - Bryan Walsh, Time, Stati Uniti. Foto di Kim Taylor Le api diminuiscono di anno in anno, con gravi conseguenze per l’agricoltura e l’economia. Ma sulle cause non c’è unanimità. Tra i sospettati ci sono dei pesticidi introdotti negli anni novanta

D
obbiamo  ringraziare
l’Apis mellifera, meglio
conosciuta  come  ape
domestica occidentale,
per  un  boccone  su  tre
del cibo che mangiamo
ogni giorno. Dai mandorleti della Califor-nia centrale – dove in primavera miliardi di
api provenienti dal resto del paese arrivano
per impollinare raccolti del valore di diver-si miliardi di dollari – alle torbiere del Mai-ne dove crescono i mirtilli, le api sono le
operaie oscure e non pagate del sistema
agricolo statunitense, e creano un valore
aggiunto di oltre 15 miliardi di dollari all’an-no. A giugno, un negozio della catena Who-le Foods del Rhode Island, per sensibilizza-re l’opinione pubblica sul tema, ha tempo-raneamente tolto dagli scafali tutti i pro-dotti alimentari che dipendono dall’impol-linazione: su 453 ne sono spariti 237, tra cui
mele, limoni e zucchine di diverse varietà.
Le api “sono il collante che tiene insieme il
nostro sistema agricolo”, ha scritto nel 2011
la giornalista Hannah Nordhaus nel suo li-bro The beekeeper’s lament.
Oggi quel collante rischia di non bastare
più. Intorno al 2006 gli apicoltori hanno
cominciato a notare un fenomeno inquie-tante: le api stavano scomparendo. Negli
alveari c’erano nidi, cera, perino miele, ma
di api neanche l’ombra. Un male misterioso
che gli studiosi hanno chiamato sindrome
dello spopolamento degli alveari (Ssa). Da
un giorno all’altro gli apicoltori si sono ri-trovati al centro dell’attenzione dei mezzi
d’informazione, mentre l’opinione pubbli-ca era sempre più afascinata dal mistero. A
distanza di sette anni le api continuano a
morire a ritmi mai visti, e le cause restano
oscure. Durante l’inverno del 2012 è scom-parso un terzo delle colonie di api degli Sta-ti Uniti, il 42 per cento in più rispetto all’an-no precedente e ben oltre il 10-15 per cento
di perdite che gli apicoltori si aspettano du-rante un normale inverno.
Con il tempo gli apicoltori possono tor-nare a riempire gli alveari svuotati, ma l’al-to  tasso  di  spopolamento  sta  mettendo
sotto pressione il settore e tutto il sistema
agroalimentare. Nel 2012 il numero totale
delle api negli Stati Uniti è bastato a mala-pena a impollinare i mandorli della California, mettendo a rischio una produzione del
valore di quasi quattro miliardi di dollari.
Le mandorle sono il principale prodotto
agricolo da esportazione della California,
con un valore più che doppio rispetto alle
famose  uve  da  vino  californiane.  Ma  le
mandorle, che dipendono totalmente dalle
api, sono solo la spia del problema. Per mol-ti altri prodotti ortofrutticoli, dai meloni di
Cantalupo ai mirtilli rossi alle angurie, l’im-pollinazione è l’unico strumento a disposi-zione degli agricoltori per massimizzare i
raccolti. Se non ci fossero le api, la produ-zione calerebbe in modo permanente. “Il
messaggio di fondo è che siamo molto vici-ni al limite”, osserva Jef Pettis, che guida il
laboratorio di ricerca sulle api del diparti-mento dell’agricoltura. “In questo momen-to è un terno al lotto”.
Ecco perché gli studiosi come Pettis ce
la stanno mettendo tutta per capire cosa sta
uccidendo le api. I primi sospettati sono i
pesticidi, in particolare una nuova classe di
prodotti  chiamati  neonicotinoidi,  che  a
quanto pare sono tossici per le api e altri in-setti anche a dosaggi bassi. Alcuni ricerca-tori si sono concentrati su agenti apicidi
come la Varroa destructor (nome più che
mai appropriato), un acaro parassita che sta
devastando le colonie di api dagli anni ot-tanta, quando è stato introdotto acciden-talmente negli Stati Uniti. Altri ricercatori
puntano su malattie batteriche e virali. La
mancanza di un chiaro responsabile ali-menta il mistero e la paura. Alcuni ambien-talisti preannunciano una “seconda prima-vera silenziosa” citando il rivoluzionario
libro di Rachel Carson del 1962, da molti
considerato il precursore del movimento
ecologista. Una frase attribuita ad Albert
Einstein è diventata uno slogan: “Se l’ape
scomparisse  dalla  faccia  della  terra
all’umanità non resterebbero che quattro
anni di vita”.
Gli esperti dubitano che Einstein abbia
mai pronunciato queste parole, ma l’errore
di attribuzione è tipico della confusione che
circonda la scomparsa delle api. La sensa-zione è che gli esseri umani stiano inavver-titamente sterminando una specie di cui si
prendono cura – e da cui dipendono – da mi-gliaia di anni. La scomparsa delle api ren-derebbe il nostro pianeta più povero e più
afamato, ma a fare davvero paura è la pos-sibilità che le api siano una sorta di avverti-mento, il sintomo che c’è qualcosa di grave-mente compromesso nel mondo che ci cir-conda. “Se non ci saranno subito dei cam-biamenti  assisteremo  a  una  catastrofe”,
dice Tom Theobald, un apicoltore del Co-lorado. “Le api sono solo l’inizio”.
pollinazione con gli agricoltori. Quando il
business era all’apice, l’azienda di Doan era
una delle più grandi dello stato. Era respon-sabile dell’impollinazione del 10 per cento
delle mele prodotte nello stato di New York
e aveva circa seimila alveari. “Abbiamo fat-to un sacco di miele, e pure un sacco di sol-di”, racconta.
Tutto è inito nel 2006, quando è arriva-ta l’Ssa. Quell’inverno Doan ha alzato la
copertura dei suoi alveari per controllare le
api e non ha trovato niente. “C’erano centi-naia di alveari ma dentro non c’era nem-meno un’ape”, ricorda. Negli anni successi-vi ha subìto perdite continue: le api si am-malavano  e  morivano.  Per  rimediare  ha
comprato delle nuove api regine e ha suddi-viso in diversi alveari le colonie superstiti,
riducendo  così  la  produzione  di  miele  e
spremendo sempre di più le api sane so-pravvissute. Alla ine la situazione è diven-tata insostenibile. Nel 2013, dopo decenni
di attività, Doan ha gettato la spugna. Ha
venduto i suoi 45 ettari di terra – avrebbe
voluto farlo dopo la pensione – e ora sta
pensando di cedere anche le attrezzature,
ammesso che qualcuno le compri. Nel frat-tempo continua ad allevare api, quanto ba-sta per tirare avanti mentre valuta altre op-Se l’ape domestica è esposta a minacce
naturali come i virus e non naturali come i
pesticidi, vale la pena ricordare che l’ape
stessa non è nativa del continente norda-mericano. È stata importata in Nordameri-ca nel seicento e ha potuto prosperare ino
a oggi perché ha trovato una nicchia perfet-ta all’interno di un sistema alimentare che
chiede raccolti a prezzi sempre più bassi e
in quantità sempre maggiori. È un ecosiste-ma artiiciale, commerciale, che oltre alle
api e agli apicoltori, ha favorito anche i su-permercati e i negozi di alimentari, garan-tendogli guadagni alti e stabili.
Efetti subletali
Jim Doan alleva api da quando aveva cin-que anni, e ha ereditato la passione per le
api da suo padre, che si pagò il college lavo-rando come apicoltore part time, e nel 1973
abbandonò il mercato dei titoli per dedicar-si a tempo pieno a questa attività. Le api
sono perino nello stemma di famiglia in-glese dei Doan. Jim voleva diventare pro-fessore  di  agraria,  ma  poi  il  richiamo
dell’apicoltura è stato troppo forte.
Per un po’ gli afari sono andati bene. La
famiglia ha aperto un’attività nella cittadi-na di Hamlin, nello stato di New York, e ha
prosperato con il miele e i contratti di im- continua zioni, compresa quella di andare a lavorare
per Walmart.
Attraversiamo il cortile pieno di arnie
accatastate. Doan mi presta una giacca pro-tettiva e un velo da mettermi sul viso. Avan-za lentamente tra le arnie – in parte perché
è grosso e in parte perché alle api non piac-ciono i movimenti bruschi – e sparge del
fumo, che scherma i feromoni di allarme
delle api e le tiene calme. Apre le arnie e ne
estrae dei telai mobili – le minuscole impal-cature su cui le api costruiscono gli alveari
– per vedere come se la cava la nuova popo-lazione che ha importato dalla Florida. Al-cuni telai pullulano di api striscianti, miele
e  celle  sane  piene  di  larve.  Altre  invece
sembrano abbandonate: perino la cera si
sta sfaldando. Queste arnie vengono girate
su un ianco.
A Doan è sempre piaciuto guardare le
api. “Ora siamo arrivati al punto che ogni
volta che le controllo ho paura”, dice. “Sarà
una buona giornata, saranno vive, o troverò
un sacco di robaccia? È deprimente lavora-re così”.
Doan non è il solo a pensare di abban-donare questo lavoro. Negli ultimi quindici
anni il numero degli apicoltori commercia-li è sceso di tre quarti e mentre tutti concor-dano sul fatto che il gioco non vale più la
candela, le opinioni su quale sia la causa
principale variano. Doan pensa che siano i
pesticidi neonicotinoidi, ed efettivamente
gli indizi a loro carico sono molti.
I neonicotinoidi vengono usati su più di
140 raccolti diversi e anche in molti orti do-mestici: questo signiica ininite possibilità
di esposizione per tutti gli insetti che ci en-trano in contatto. Doan mi mostra alcuni
studi di campioni di polline presi dagli alve-ari che indicano la presenza di decine di
sostanze, tra cui i neonicotinoidi. Qualche
tempo fa Doan ha testimoniato di fronte al
congresso sui pericoli delle sostanze chimi-che e tramite un’azione legale, insieme ad
altri apicoltori e a gruppi ambientalisti, ha
chiesto all’ente per la protezione dell’am-biente (Epa) di vietare due pesticidi della
classe dei neonicotinoidi. “Le conseguen-ze non sono marginali e non sono astratte”,
dice Peter Jenkins, avvocato del Center for
food safety e tra i principali sostenitori del-la causa. “Sono una minaccia reale alla so-pravvivenza degli insetti impollinatori”.
Da decenni gli agricoltori statunitensi
inondano i campi di pesticidi, e questo si-gniica che le api (che possono percorrere
in volo ino a otto chilometri in cerca di ci-bo) sono esposte alle tossine da molto pri-ma che  si sentisse  parlare  dell’Ssa. Ma i
neonicotinoidi, introdotti a metà degli anni
novanta e poi diventati di uso comune, so-no una faccenda diversa. Sono sostanze si-stemiche, cioè contaminano i semi prima
ancora che siano piantati e raggiungono
ogni parte della pianta matura, compresi il
polline e il nettare con cui potrebbero en-trare in contatto le api. Inoltre possono du-rare molto più a lungo degli altri pesticidi.
Non c’è modo di impedire che le api venga-no esposte ai neonicotinoidi se nelle vici-nanze sono stati usati dei pesticidi. “Abbia-mo prove sempre più abbondanti degli ef-fetti pericolosi dei neonicotinoidi, soprat-tutto se combinati con altri agenti patoge-ni”, spiega Peter Neumann, responsabile
dell’Istituto di salute delle api dell’univer-sità di Berna, in Svizzera.
Paradossalmente, i neonicotinoidi sono
più sicuri per la salute di chi lavora nei cam-pi,  perché  si  distribuiscono  in  modo  più
mirato rispetto alle vecchie classi di pestici-di,  che  invece  si  disperdono  nell’aria.  A
quanto pare, però, le api sono particolar-mente sensibili a queste sostanze. Gli studi
dimostrano che i neonicotinoidi aggredi-scono il sistema nervoso dell’insetto, inter-ferendo  con  le  sue  capacità  di  volo  e  di
orientamento senza ucciderlo subito. “Ci
sono moltissimi studi scientiici sugli im-patti subletali per le api”, dice James Fra-zier, entomologo della Penn state universi-ty. Gli efetti ritardati dell’esposizione spie-gano forse perché le colonie continuano a
morire anno dopo anno nonostante gli sfor-zi degli apicoltori. È come se le api venisse-ro avvelenate poco alla volta.
La tentazione di scaricare la colpa della
moria delle api sui neonicotinoidi è forte.
La difusione di questi pesticidi coincide
più o meno con il picco dello spopolamento
e, in in dei conti, i neonicotinoidi servono
proprio a uccidere gli insetti. Le sostanze
chimiche sono onnipresenti: secondo uno
studio  recente,  il  polline  delle  api  viene
contaminato, in media, da nove diversi pe-sticidi e fungicidi. Ma soprattutto, se il pro-blema sono i neonicotinoidi, la soluzione è
semplice: vietarli. È quello che ha deciso di
fare quest’anno la commissione europea,
sospendendo per due anni l’uso di alcuni
neonicotinoidi. L’Epa sta studiando una
revisione dei neonicotinoidi, ma probabil-mente non li vieterà, anche perché le prove
non sono deinitive. In Australia, per esem-pio,  gli  apicoltori  sono  stati  risparmiati
dall’Ssa anche se usano i neonicotinoidi,
mentre la Francia continua a perdere api
pur avendo introdotto severe restrizioni
sull’uso dei pesticidi in dal 1999. I produt-tori di pesticidi sostengono che il livello at-tuale  di  esposizione  ai  neonicotinoidi  è
troppo basso per essere la causa principale
dello spopolamento. “Abbiamo usato gli
insetticidi per anni”, dice Randy Oliver, un
apicoltore che ha fatto ricerche in proprio
sull’Ssa. “Non sono così convinto che sia il
problema principale”.
Territorio ostile
Anche se i pesticidi sono in cima alla lista
dei sospettati della morte delle api, ce ne
sono altri. Gli apicoltori, per esempio, si so-no sempre dovuti difendere dall’American
foulbrood o peste americana (una malattia
batterica che uccide le api durante lo svi-luppo) e dal piccolo coleottero degli alveari,
che infesta le colonie. La guerra più lunga e
sanguinosa, tuttavia, è quella contro la Va r-roa destructor, un microscopico acaro che
scava tra le celle in cui si trovano le larve.
L’acaro è provvisto di una lingua ailata e
biforcuta capace di bucare l’esoscheletro e
di succhiare l’emolinfa, l’equivalente del
sangue negli insetti. E poiché la Varroa è in
grado di difondere una serie di altre malat-tie – per le api è come una specie di ago ipo-dermico – un’infestazione incontrollata di
acari può provocare la morte dell’alveare in
pochissimo tempo.
La Varroa è comparsa per la prima volta
negli Stati Uniti nel 1987, probabilmente
difusa dalle api infette importate dal Suda merica, e da allora ha sterminato miliardi
di api. Le contromisure usate dagli apicol-tori, come gli acaricidi chimici, hanno fun-zionato solo in parte. “Quando è arrivata la
Varroa abbiamo dovuto cambiare modo di
lavorare”, spiega Jerry Haeys, responsabile
commerciale del settore api della Monsan-to. “Non è facile ammazzare un piccolo in-setto che sta sopra un insetto più grande”.
Altre ricerche puntano su infezioni fun-gine come il parassita Nosema ceranae. Ma
anche in questo caso le prove non sono ri-solutive: alcuni alveari falcidiati dall’Ssa
mostrano segni di funghi, acari o virus, altri
no. Qualche apicoltore è scettico sull’esi-stenza di una causa scatenante, e sostiene
che l’Ssa sia imputabile a quella che viene
chiamata scherzosamente Ppb, piss-poor
beekeeping (apicoltura da due soldi): sareb-bero cioè gli apicoltori a non essere più ca-paci di badare alla salute delle loro colonie.
Efettivamente non tutti gli apicoltori han-no subìto perdite catastroiche, ma lo spo-polamento è un fenomeno talmente dura-turo e generalizzato che prendersela con le
vittime sembra una cattiveria. “Ho allevato
api per decenni”, dice Doan. “Non è che
improvvisamente nel 2006 mi sono dimen-ticato come si fa”.
Bisogna anche tenere presente che gli
apicoltori vivono in un paese sempre meno
ospitale per le api. Per sopravvivere, gli in-setti hanno bisogno di iori e spazi inconta-minati dove procurarsi il cibo. Da questo
punto di vista l’industrializzazione del si-stema agricolo ha remato contro, trasfor-mando la campagna in un susseguirsi di
monocolture: campi di mais o semi di soia
che per le api afamate di polline e nettare
sono come un deserto. Con il Conservation
reserve program (Crp) il governo statuni-tense prende in aitto dagli agricoltori al-cuni appezzamenti di terra e li sottrae alla
produzione per preservare i terreni, la lora
e la fauna. Ma dopo l’impennata dei prezzi di alcune colture di base, come il mais e i
semi di soia, gli agricoltori hanno scoperto
che possono guadagnare molto di più semi-nando che aittando i terreni al governo.
Quest’anno solo 10,2 milioni di ettari ver-ranno aittati nell’ambito del programma
Crp, un terzo in meno rispetto al picco mas-simo  del  2007  e  il  livello  più  basso  dal
1988.
Primavera solitaria
I nemici delle api sono molti, ma non siamo
ancora all’apocalisse. Nonostante gli eleva-ti tassi annuali di spopolamento, negli ulti-mi quindici anni il numero delle colonie
presenti negli Stati Uniti è rimasto stabile
intorno ai 2,5 milioni. È un calo signiicativo
rispetto ai 5,8 milioni di colonie del 1946,
ma in questo caso il fenomeno è dovuto più
alla concorrenza del miele importato a bas-so costo e al generale svuotamento delle
campagne negli ultimi cinquant’anni (dal
1935 a oggi il numero di aziende agricole
negli Stati Uniti è passato da 6,8 ad appena
2,2 milioni, nonostante il boom della pro-duzione). Le api hanno una notevole capa-cità di riprodursi, e anno dopo anno gli api-coltori superstiti riescono a ricostituire le
loro colonie anche dopo una forte perdita.
Ma il fardello sta diventando insostenibile.
Dal 2006 sono andati persi circa dieci mi-lioni di alveari, per un costo di circa due
miliardi di dollari. “Possiamo sostituire le
api, ma non possiamo sostituire apicoltori
con quarant’anni di esperienza”, dice Tim
Tucker, vicepresidente della American be-ekeeping federation.
Le api sono molto preziose, ma anche
senza di loro il sistema alimentare non crol-lerebbe. I prodotti che formano la spina
dorsale della nostra dieta – granaglie come
mais, grano e riso – si autoimpollinano. I
nostri pasti però sarebbero molto più grigi,
e soprattutto molto meno nutrienti, senza
mirtilli, ciliegie, angurie, lattuga e tante al-tre piante che diicilmente sarebbero in
commercio senza l’impollinazione delle
api. Potrebbero esserci delle soluzioni al-ternative. Nel sudest della Cina, dove le api
selvatiche sono quasi tutte morte a causa
dell’uso esteso dei pesticidi, gli agricoltori
impollinano faticosamente a mano peri e
meli  con  dei  pennelli.  Alcuni  studiosi
all’università di Harvard stanno testando
delle minuscole api robotiche che un gior-no potrebbero riuscire a impollinare. Per
ora nessuna delle due soluzioni è tecnica-mente o economicamente praticabile. Il
governo potrebbe fare la sua parte impo-nendo restrizioni più severe sui pesticidi,
soprattutto durante la stagione della semi-na. Si potrebbe dare maggior sostegno al
programma Crp per interrompere le mono-colture che sofocano le api. E ognuno di
noi può dare il suo contributo piantando
iori in giardino ed evitando di usare pesti-cidi. Secondo Dennis vanEngelsdorp, uno
scienziato dell’università del Maryland che
studia l’Ssa in dalla sua comparsa, gli Stati
Uniti sono afetti da “sindrome da deicit
naturale” e le api ne fanno le spese.
Ma la realtà è che, a meno di una trasfor-mazione radicale dei sistemi di produzione
alimentare, negli Stati Uniti le diicoltà per
gli apicoltori non diminuiranno. Oggi nel
paese ci sono più di 1.200 pesticidi registra-ti, e nessuno si illude che diminuiranno di
molto. È più probabile che saranno le api
domestiche e i loro parassiti ad adattarsi al
sistema agricolo. La Monsanto sta lavoran-do a una tecnologia di interferenza dell’Rna
capace di uccidere l’acaro Varroa interrom-pendone l’espressione genica. Il risultato
sarebbe un meccanismo di autodistruzione
della specie, un’alternativa di gran lunga
preferibile agli acaricidi tossici e spesso
ineicaci che gli apicoltori sono stati co-stretti a usare. Intanto, un gruppo di ricer-catori  dell’università  di  Washington  sta
mettendo in piedi quella che probabilmen-te sarà la più piccola banca dello sperma al
mondo: un magazzino di genomi delle api
che saranno usati per creare una specie di
ape domestica più resistente incrociando le
28 sottospecie riconosciute dell’insetto in
tutto il mondo.
Gli  apicoltori  si  sono  già  adeguati  ai
nuovi rischi del mestiere, investendo di più
per dare un’aggiunta alimentare alle loro
colonie. Questo ha fatto lievitare i costi, e
alcuni  studiosi  temono  che  sostituire  il
miele con lo zucchero o lo sciroppo di mais
possa compromettere la capacità delle api
di combattere le infezioni. Ma per gli api-coltori, ormai alla deriva in una specie di
landa desolata nutrizionale, non c’è molta
altra scelta. L’apicoltura rischia di somiglia-re sempre di più al settore agroalimentare
di cui fa parte: meno operatori, e aziende
più grandi capaci di generare abbastanza
ricavi per pagare le attrezzature e le tecno-logie necessarie a sopravvivere in un am-biente ostile. “Alla ine alleveremo le api
come facciamo con il bestiame, i maiali e i
polli: le terremo rinchiuse e gli porteremo
da mangiare”, dice Oliver, l’apicoltore che
ha fatto ricerche in proprio. “Le metteremo
all’ingrasso”.
È uno scenario che nessun apicoltore al
mondo vorrebbe vedere. Ma forse è l’unico
modo per tenere in vita le api domestiche.
E in quando ci saranno mandorle, mele,
albicocche e altre varietà di frutta e verdura
che hanno bisogno dell’impollinazione – e
in quando ci saranno agricoltori disposti a
pagare per il servizio – gli apicoltori se la ca-veranno.
Dunque se l’ape domestica sopravvivrà,
probabilmente sarà diversa da quella che
abbiamo conosciuto per secoli. Ma c’è di
peggio. Se negli ultimi tempi l’attenzione si
è concentrata soprattutto sulle api domesti-che commerciali, una sorte ancora peggio-re è toccata ad altri insetti selvatici. A giu-gno del 2013 in Oregon sono morti 50mila
bombo dopo che un’impresa di architettura
del paesaggio ha spruzzato dell’insetticida
sugli alberi, causando il più grande stermi-nio  di  massa  che  si  ricordi.  A  differenza
dell’ape domestica, il bombo non può con-tare sull’aiuto e le cure umane. Ogni anno
muoiono in tutto il mondo ino a centomila
specie animali, quasi sempre nel silenzio e
nell’indifferenza  generale.  È  quello  che
succede quando una specie, la nostra, di-venta  talmente  dominante  da  soffocare
tutte le altre. Non siamo all’alba di una se-conda primavera silenziosa. Sentiremo an-cora nelle orecchie il ronzio delle api messe
all’ingrasso. Ma gli esseri umani e le poche
specie ancora nelle sue grazie potrebbero
scoprire di essere diventati più soli. u fa



Il pesticida
che non muore mai
George Monbiot, The Guardian, Regno Unito


Gli efetti dei neonicotinoidi
sull’ambiente non sono
ancora del tutto noti. Eppure
continuiamo a usarli



neonicotinoidi sono il nuovo ddt:
un tipo di veleni per i quali è stato
autorizzato un ampio uso prima
ancora che fossero completa-mente testati e che ora stanno attac-cando il mondo naturale. A ulteriore
dimostrazione del vecchio detto che
chi non impara dalla storia è destinato
a ripeterla.
Solo oggi, quando ormai i neonico-tinoidi sono gli insetticidi più usati al
mondo, cominciamo a capire tutti i loro
efetti. Le aziende che producono i
neo nicotinoidi, come quelle che fabbri-cavano il ddt, hanno dichiarato che
queste sostanze tossiche erano state
ideate per combattere determinate
specie ed erano dannose solo per quel-le. Come le aziende che fabbricavano il
ddt, hanno minacciato le persone che
esprimevano dubbi, hanno pubblicato
smentite e fatto tutto quello che pote-vano per ingannare l’opinione pubbli-ca. Come a voler garantire che la storia
si ripetesse, alcuni governi hanno colla-borato con loro. E uno dei più colpevoli
è stato quello del Regno Unito.
Come dimostra il professor Dave
Goulson nella sua analisi sull’impatto
di questi pesticidi, non sappiamo quasi
nulla di come agiscono sulla maggior
parte delle forme di vita. Ma con l’accu-mularsi delle prove, gli scienziati han-no cominciato a scoprire gli efetti su
una vasta gamma di animali e piante
selvatiche.
Ormai quasi tutti sono a conoscen-za delle ricerche che indicano i neoni-cotinoidi come principali responsabili
della scomparsa delle api e di altri
agenti impollinatori. Questi insetticidi
vengono spruzzati sui semi e rimango-no nelle piante uccidendo gli insetti che le
mangiano. La quantità necessaria per di-struggere gli insetti è incredibilmente pic-cola, perché questi veleni sono diecimila
volte più potenti del ddt. Alle api basta in-gerire cinque nanogrammi della sostanza
per avere il 50 per cento di probabilità di
morire. Come le api, anche le siridi, le
farfalle, le falene, i coleotteri e altri agenti
impollinatori si nutrono dei iori trattati e
sembrano in grado di assorbire una quan-tità di pesticida suiciente a compromet-tere la loro sopravvivenza.
Solo una piccola parte dei neonicoti-noidi usati dagli agricoltori entra nel polli-ne o nel nettare dei iori. Dagli studi con-dotti inora risulta che quando si trattano i
semi, solo una percentuale di pesticida
che va dall’1,6 al 20 per cento viene assor-bita dalle piante, molto meno che quando
la sostanza viene spruzzata sulle foglie.
Una parte del residuo vola via in forma di
polvere, che probabilmente danneggia
molte popolazioni di insetti che vivono
nelle siepi e negli habitat circostanti. Ma la
maggior parte, secondo Goulson “più del
90 per cento”, penetra nel terreno. In altre
parole, la realtà è molto diversa dall’im-pressione che vogliono dare i produttori
continuando a deinire il trattamento dei
semi con i pesticidi “preciso” e “mirato”.
I neonicotinoidi sono sostanze chimi-che molto persistenti. Secondo i pochi stu-di pubblicati inora, possono rimanere nel
terreno ino a 19 anni. E dato che sono così
poco degradabili, è probabile che si accu-mulino, rendendo il terreno sempre più
tossico.
Nessuno sa cosa fanno questi pesticidi
quando sono nel terreno, perché non sono
state ancora condotte ricerche suicienti.
Ma, dato che a bassissime concentrazioni
sono letali per tutti gli insetti e forse anche
per altre specie, con tutta probabilità di-struggono una buona parte della fauna del
terreno. Anche i lombrichi? E gli uccelli e i
mammiferi che mangiano i lombrichi? O
magari anche gli uccelli e i mammiferi che
mangiano gli insetti o i semi trattati?
Non possiamo ancora dirlo. Li stiamo
usando alla cieca. I nostri governi li
hanno approvati senza avere la più pal-lida idea di quali sarebbero state le con-seguenze.
Forse avete avuto l’impressione che
i neonicotinoidi siano stati vietati
dall’Unione europea. Ma non è vero.
L’uso di alcuni di questi pesticidi è stato
sospeso per due anni, e solo a certi sco-pi. A sentire i legislatori, potreste esse-re tentati di credere che gli unici ani-mali che colpiscono sono le api, e che
l’unico modo in cui le api possono mo-rire è mangiando i iori delle piante
trattate.
Ma i neonicotinoidi vengono anche
spruzzati sulle foglie di molte piante da
raccolto. E vengono sparsi in granuli
sui pascoli e nei parchi per uccidere gli
insetti che vivono nel terreno e che
mangiano le radici dell’erba. Queste
applicazioni, e molte altre, sono legali
nell’Unione europea, anche se non co-nosciamo la gravità dei loro possibili
efetti. Ma ne sappiamo abbastanza per
capire che probabilmente sono deva-stanti.
Dai semi all’acqua
Naturalmente non tutti i neonicotinoi-di che penetrano nel terreno ci riman-gono all’ininito. Sarete sollevati di sa-pere che alcuni vengono portati via
dall’acqua. E quindi iniscono nelle
falde sotterranee e nei iumi. Cosa
succede quando sono lì? E chi lo sa.
Non sono neanche elencati tra le so-stanze che devono essere monitorate
in base alla direttiva dell’Ue sulle reti
idriche, perciò non abbiamo un’idea
chiara di quali siano le loro concentra-zioni nell’acqua che noi e molte altre
specie consumiamo.
Ma uno studio condotto nei Paesi
Bassi dimostra che una parte dell’ac-qua che lascia le zone coltivate è così
pesantemente contaminata da questi
pesticidi che potrebbe essere usata per
eliminare i pidocchi. Lo stesso studio
dimostra che anche a concentrazioni
molto più basse, non superiori ai limiti
stabiliti dall’Ue, i neonicotinoidi che i-niscono nei sistemi luviali spazzano
via metà delle specie invertebrate che
ci aspetteremmo di trovare. Il che si-gniica che cancellano buona parte del-la rete alimentare. u