martedì 22 ottobre 2013

SCIENZA - Chi ti credi DI essere

Jan Westerhof, New Scientist, Regno Unito
Foto di Eric Flogny
La percezione intuitiva che abbiamo di noi stessi
è un’esperienza umana fondamentale. Ma in
realtà è solo un’elaborata illusione. E alcuni
studiosi sostengono che il sé proprio non esiste



c
i sono  poche  cose  che
consideriamo più sicure
del  fatto  che  esistiamo.
Possiamo essere scettici
sull’esistenza del mondo
che ci circonda, ma come
potremmo mai dubitare della nostra stessa
esistenza? Il dubbio non è forse reso im-possibile dal fatto che c’è qualcuno che du-bita di qualcosa? E chi può essere questo
qualcuno, se non noi?
Se da una parte è innegabile che dob-biamo pur esistere in qualche modo, le co-se si complicano quando cerchiamo di ca-pire meglio cosa signiica davvero avere un
sé.
La nostra percezione di quello che sia-mo si basa su tre convinzioni fondamenta-li. In primo luogo, ci consideriamo immu-tabili e continui. Questo non equivale a
dire che rimaniamo sempre identici, ma
che nel cambiamento c’è qualcosa che re-sta costante e che ci rende oggi la stessa
persona che eravamo cinque anni fa e che
saremo tra cinque anni.
In secondo luogo, ci consideriamo co-me l’elemento uniicante che tiene tutto
insieme. Il mondo si presenta a noi come
una cacofonia di visioni, suoni, odori, im-magini mentali, ricordi e così via. Nel sé
tutte queste cose si integrano, e quella che
emerge è l’immagine di un unico mondo
unito.
Terzo, il sé è un agente. È quello che
pensa i nostri pensieri e compie le nostre
azioni. È il luogo in cui la rappresentazione
del mondo, uniicata in un tutto coerente,
viene usata per consentirci di intervenire
su quel mondo.
Queste tre convinzioni sembrano asso-lutamente evidenti e indiscutibili. Ma esa-minandole più da vicino diventano sempre
meno scontate.
Potrebbe sembrare ovvio afermare che
la nostra esistenza è un continuum, dai pri-mi attimi nell’utero materno ino alla mor-te. Eppure, nel corso della sua esistenza il
nostro sé subisce cambiamenti sostanziali
in materia di convinzioni, capacità, desi-deri e stati d’animo. Per esempio, il sé feli-ce di ieri non può essere proprio uguale al
sé tormentato di oggi. Ma oggi abbiamo
certamente lo stesso sé che avevamo ieri.
Per approfondire l’argomento possia-mo usare due modelli del sé: una collana di
perle e una corda. Secondo il primo model-lo, il sé è qualcosa di costante che, pur as-sumendo  caratteristiche  diverse,  resta
sempre uguale a se stesso. Come un ilo
che passa attraverso le perle di una collana,
il sé attraversa ogni singolo momento della
nostra vita, dandole un centro e un’unità.
Ma il problema con questo modello è che
non può rappresentare la maggior parte
delle cose che secondo noi ci deiniscono.
Essere tristi o felici, parlare cinese, preferi-re le ciliegie alle fragole, perfino essere
coscienti: sono tutti stati mutevoli e la loro
scomparsa non dovrebbe modiicare il sé,
così come la scomparsa di una singola per-la non dovrebbe modiicare il ilo della col-lana.  Poi  però  diventa  difficile  spiegare
perché un sé così “ridotto al minimo” deb-ba avere l’importanza centrale che tendia-mo ad attribuirgli.
Il secondo modello è basato sul fatto
che una corda non si sfalda, anche se non è
formata da ibre che la percorrono in tutta
Chi ti credi d
Jan Westerhof, New Scientist, Regno Unito
Foto di Eric Flogny
La percezione intuitiva che abbiamo di noi stessi
è un’esperienza umana fondamentale. Ma in
realtà è solo un’elaborata illusione. E alcuni
studiosi sostengono che il sé proprio non esiste
la sua lunghezza, ma da una serie di ibre
più corte sovrapposte. Analogamente, il
nostro sé potrebbe essere solo la continuità
di eventi mentali che si sovrappongono. Si
tratta di una visione anche plausibile, ma
con i suoi difetti. Di solito diamo per scon-tato  che  quando  pensiamo  qualcosa  o prendiamo una decisione siamo noi nella
nostra interezza a farlo, non solo una parte
di noi. Eppure, secondo la visione della
corda, il sé non è mai interamente presente
in nessun momento, proprio come i ili che
compongono la corda non ne coprono l’in-tera lunghezza.
A questo punto, non ci resta che la sgra-devole scelta tra un sé continuo ma tal-mente lontano da tutto quello che siamo
che a malapena ci accorgeremmo della sua
mancanza; e un sé costituito da compo-nenti della nostra vita mentale, ma senza
una parte costante con cui poterci identii-care. Per ora, l’evidenza empirica sembra
supportare il modello della corda, ma la
questione resta aperta. Ancora più impor-tante, e altrettanto problematica, è la se-conda convinzione fondamentale riguardo
al sé, che cioè sia l’elemento che tiene tutto
insieme  facile trascurare la rilevanza di questo
aspetto,  ma  il  cervello  svolge  un  lavoro
estremamente complesso per produrre un
mondo dall’aspetto uniicato. Pensate per
esempio che, anche se la luce viaggia mol-to più veloce del suono, gli stimoli visivi
richiedono un tempo di elaborazione più
lungo rispetto a quelli sonori. Quindi, le
immagini e i suoni di un evento di solito
diventano accessibili alla nostra coscienza
in momenti diversi (solo immagini e suoni
di eventi che avvengono ad almeno dieci
metri di distanza ci arrivano contempora-neamente). E questo signiica che l’impres-sione della simultaneità nel sentire la voce
di qualcuno che parla e vedere le sue labbra
che si muovono, per esempio, dev’essere
costruita dal cervello.
Intuitivamente,  il  risultato  di  questo
processo  rimanda  a  un  teatro.  Come  lo
spettatore seduto davanti a un palcosceni-co, il sé percepisce un mondo unitario che
in realtà è composto da una varietà di dati
sensoriali. Se non fossero prima uniicati,
questi dati produrrebbero una sensazione
di confusione: sarebbe come se a teatro
uno spettatore sentisse le battute di un at-tore prima di vederlo sul palco.
L’intuizione, pur essendo convincente,
pone diversi problemi.
Prendiamo un caso semplice, il “feno-meno beta”. Se si accende un punto lumi-noso in un angolo di uno schermo e subito
dopo compare un punto uguale all’angolo
opposto, l’impressione può essere quella
di un punto che abbia attraversa-to lo schermo in diagonale. La
spiegazione è semplice: spesso,
il  cervello  riempie  di  elementi
una scena sulla base di congettu-re.  Ma  una  variante  di  questo
esperimento genera uno strano efetto. Se
i puntini sono di colore diverso – per esem-pio un punto rosso seguito da uno verde –
gli osservatori vedono un puntino in movi-mento che più o meno a metà della diago-nale  cambia  colore  all’improvviso.  È  un
fenomeno molto particolare. Se il cervello
riempie le posizioni mancanti lungo la dia-gonale a beneicio del sé in platea, come fa
a sapere che il colore cambierà prima an-cora di aver visto il puntino verde?
Un modo per spiegare il fenomeno beta
è pensare che la nostra esperienza vada in
scena nel “teatro” con un piccolo ritardo. Il
cervello non trasmette subito l’informa-zione sui punti luminosi, ma la trattiene
per  un  breve  lasso  di  tempo.  Quando  il
punto verde è stato elaborato, entrambi i
punti entrano a far parte di una versione
percettiva che mostra un punto in movi-stante  manchi  una  base  fattuale  che  lo
confermi.  Insomma,  molte  idee  su  noi
stessi non reggono alla prova di un esame
più attento. Questo costituisce una grossa
sfida  per  come  ci  vediamo  ogni  giorno,
perché fondamentalmente suggerisce che
non siamo reali. Il nostro sé è paragonabile
a un’illusione, ma senza che ci sia qualcu-no a fare l’esperienza dell’illusione.
Forse non abbiamo altra scelta che spo-sare le nostre convinzioni sbagliate. Il no-stro intero modo di vivere si fonda sull’idea
che siamo individui immutabili, coerenti e
autonomi. L’illusione del sé non è solo uti-le, potrebbe anche essere necessaria. u
mento che cambia colore. Questa versione
montata viene poi proiettata nel teatro del-la coscienza.
Purtroppo, questa teoria non si adatta
granché alle prove sul funzionamento del-la  percezione.  Le  risposte  coscienti  agli
stimoli visivi possono avvenire a una velo-cità quasi ininitesimale. Se aggiungiamo il
tempo che l’informazione impiega ad arri-vare al cervello e a essere elaborata, non ne
resta abbastanza per giustiicare il feno-meno beta.
Forse c’è qualcosa di sbagliato nella no-zione di un sé che percepisce un lusso uni-forme di informazioni dal mondo circo-stante. Forse, più semplicemente, ci sono
processi  neurologici  che  avvengono  nel
cervello, e vari processi mentali che avven-gono nella mente, senza che ci sia un’agen-zia centrale dove tutto viene assemblato in
un preciso momento, il cosiddetto “ora”
percettivo. È molto più facile spiegare il
fenomeno beta se non c’è un attimo preci-so in cui il contenuto percettivo appare nel
teatro del sé, perché non c’è nessun tea-tro.
La terza, profonda convinzione è che il
sé  sia  il  luogo  del  controllo.  Eppure,  la
scienza cognitiva ha ampiamente dimo-strato che la nostra mente, a posteriori, può
attribuire un’intenzione anche ad azioni
involontarie.
In un esperimento è stato chiesto a una
persona di muovere lentamente un curso-re su uno schermo su cui comparivano cin-quanta piccoli oggetti, e di fer-mare  il  cursore  su  un  oggetto
all’incirca ogni trenta secondi. Il
mouse che controllava il cursore
era mosso in comune con un al-tro volontario, come se fosse una
lancetta sopra una tavola in una seduta spi-ritica. Attraverso una cuia, il primo volon-tario udiva delle parole, alcune riferite a
oggetti sullo schermo. Ma non sapeva che
il suo compagno di mouse era uno dei ri-cercatori e che ogni tanto spingeva delibe-ratamente il cursore verso un’immagine,
senza che il volontario se ne accorgesse.
Se il cursore era stato “spinto” dal ricer-catore sull’immagine di una rosa, il volon-tario che pochi secondi prima aveva senti-to la parola “rosa” sosteneva di aver mosso
intenzionalmente il mouse in quella dire-zione.
Ora qui non ci interessa capire come e
perché si produca questo efetto: la cosa
importante è che svela come non sempre il
cervello ci indica le reali operazioni che
compie. Invece, produce una versione a
posteriori del tipo “ho fatto questo”, nono-QUANDO
Pensi di vivere
nel presente?
Jan Westerhof
A
noi  sembra ovvio  che  esistiamo
nel presente. Il passato è passato e
il futuro deve ancora succedere,
quindi dove altro potremmo trovarci? Ma
forse non dovremmo esserne così sicuri.
Le informazioni sensoriali ci arrivano a
velocità diverse, anche se sembrano mani-festarsi insieme, in un unico momento. I
segnali nervosi hanno bisogno di tempo
per essere trasmessi e di tempo per essere
elaborati dal cervello. E ci sono eventi – co-me una luce che lampeggia o qualcuno che
schiocca le dita – che accadono più in fretta
di quanto il nostro cervello ci mette per ela-borarli. Quando recepiamo il lampo o lo
schiocco delle dita, l’evento è già passato.
La prova ce la dà l’“illusione del lash”.
In una versione di questo esperimento, su
uno schermo si vede un disco rotante con
una freccia che punta verso l’esterno. Vici-no al disco c’è un punto luce programmato
per lampeggiare nel preciso istante in cui
la freccia lo oltrepassa. Eppure, questo non
è quello che noi percepiamo: ci sembra che
la luce si accenda in ritardo, dopo il passag-gio della freccia.
Una possibile spiegazione è che il cer-vello si proietti nel futuro. L’elaborazione
degli stimoli visuali richiede tempo, così il
cervello compensa facendo una previsione
su dove sarà la freccia. Il lampo di luce sta-tico – che il cervello non è in grado di anti-cipare – sembra rimanere indietro.
Per quanto eicace, questa spiegazione
non può essere esatta. Lo ha dimostrato
una  variante  dello  stesso  esperimento,
messa a punto da David Eagleman del Bay-lor college of medicine di Houston, in Te-xas, e Terrence Sejnowski del Salk institute
for biological studies di La Jolla, in Califor-nia.
Se il cervello prevedesse la traiettoria
della freccia rotante, le persone percepi-rebbero un ritardo anche se la freccia si
fermasse nel preciso istante in cui indica il
punto luminoso. Ma in questo caso il ritar-do non si veriica. Inoltre, se la freccia par-te da ferma e si muove in una o nell’altra
direzione subito dopo il lampo di luce, il
movimento viene percepito prima della
luce. Se il movimento comincia solo dopo
il lampo di luce, come fa il cervello a preve-derne la direzione?
La spiegazione è che più che dedurli dal
futuro, il cervello inserisce eventi nel pas-sato, costruendo a posteriori una narrazio-ne degli eventi. La percezione di quello che
succede al momento del lampo è determi-nata da quello che succede al disco subito
dopo. Sembra un paradosso, ma altri test
hanno confermato che ciò che viene perce-pito come accaduto in un dato momento
può essere inluenzato da ciò che accade
dopo.
Tutto questo è leggermente inquietan-te se seguiamo il buonsenso, che ci induce
a immaginare il nostro sé collocato nel pre-C
hiudete gli occhi e domandatevi:
dove mi trovo? Non in senso geo-grafico,  ma  esistenziale.  Quasi
sempre risponderemo di essere dentro il
nostro corpo. Dopo tutto, osserviamo il
mondo da una prospettiva unica e perso-nale, creata nella nostra mente, e la diamo
per scontata.
Non saremmo così ottimisti se sapessi-mo  che  questa  sensazione  di  abitare  un
corpo è una coerente costruzione del cer-vello. Comunque, anche se abitiamo den-tro il nostro corpo non signiica che la per-cezione che abbiamo di noi stessi sia co-stretta dentro i suoi conini isici.
Progettando esperimenti che manipo-lano i sensi possiamo indagare il modo in
cui il cervello disegna e ridisegna i contor-ni del “luogo” in cui risiede il nostro sé.
Uno dei metodi più semplici per osser-vare questo fenomeno è un esperimento
che ormai è diventato popolare nelle neu-roscienze: l’illusione della mano di gom-ma. La preparazione è semplice: la mano
di un volontario viene posata su un tavolo e
nascosta dietro a un pannello, mentre di
fronte a lui è ben visibile una mano di gom-ma. Se accarezziamo contemporaneamen-te la mano nascosta e quella inta, possia-mo produrre nel volontario la sensazione
che la mano di gomma sia la sua.
Perché succede? Il cervello integra sen-si diversi per deinire aspetti del nostro sé
corporeo.  Nell’illusione  della  mano  di
gomma, il cervello elabora il tatto, la vista
e la propriocezione, cioè la percezione del-la posizione relativa delle parti che costitu-iscono il nostro corpo. In questo caso, di
fronte a un conlitto di informazioni, il cer-vello risolve il problema appropriandosi
della mano di gomma.
Ne deriva che i conini del sé tracciati
dal cervello possono facilmente estendersi
ino a includere un oggetto estraneo. E le
strane peregrinazioni del sé fuori dal corpo
non iniscono qui.
Avete mai sognato di avere il corpo dn’altra  persona?  Il  vostro  cervello
può  esaudire  questo  desiderio.  Henrik
Ehrsson e i suoi colleghi del Karolinska in-stitutet  di  Stoccolma  hanno  trasportato
alcuni volontari fuori dai loro corpi e den-tro un manichino a grandezza naturale.
Il manichino aveva due videocamere al
posto degli occhi, e qualunque cosa “ve-desse” appariva su un display montato sul-la testa di un volontario. Lo sguardo del
manichino era rivolto verso il basso, all’al-tezza dell’addome. Quando i ricercatori
accarezzavano contemporaneamente l’ad-dome del manichino e quello del volonta-rio che guardava nel display, spesso il se-condo aveva la sensazione di essere il ma-nichino.
Nel 2011, la stessa équipe ha ripetuto
l’esperimento, ma questa volta monitoran-do l’attività cerebrale dei volontari con una
risonanza magnetica. E ha scoperto che
l’attività di alcune aree dei lobi frontali e
parietali era collegata al cambiamento del-la nostra percezione corporea.
Cosa succede, allora? Studi sui macachi
dimostrano che in queste aree del cervello
ci sono neuroni che integrano la vista, il
tatto e la propriocezione. L’ipo-tesi di Ehrsson è che questi neu-roni si attivano solo quando nelle
immediate vicinanze del nostro
corpo si manifestano sensazioni
tattili  e  visive  simultanee,  che
evidentemente inluenzano la nostra per-cezione corporea. Intervenendo sulle in-formazioni che arrivano al cervello, dun-que, possiamo intervenire anche sul modo
in cui percepiamo il nostro corpo.
Questione di prospettiva
Tuttavia, nell’esperimento di Ehrsson an-che la persona “dentro” al manichino ave-va una prospettiva soggettiva: il suo sé era
collocato dentro un corpo, anche se quel
corpo non era il suo. Potrebbe essere possi-bile proiettare il proprio sé in una dimen-sione in cui il corpo manca del tutto?
Possiamo perino far credere al nostro
sé di stare sospeso a mezz’aria fuori dal
corpo. Nel 2011, Olaf Blanke e i suoi colle-ghi dello Swiss federal institute of techno-logy di Losanna, hanno chiesto ad alcuni
volontari di stendersi supini su un letto e di
guardare attraverso un visore il video di
una persona che gli somigliava, che veniva
accarezzata sulla schiena. Nel frattempo,
un braccio robotico installato all’interno
del letto accarezzava nello stesso modo la
schiena del volontario.
I volontari descrivevano un’esperienza
notevolmente più coinvolgente della sem-plice visione delle immagini del corpo di
un altro. Avevano la sensazione di luttuare
sopra il loro corpo, e alcuni provavano un
efetto particolarmente strano. Anche se
erano tutti distesi sulla schiena, alcuni ave-vano la sensazione di luttuare a faccia in
giù in modo tale da poter vedere la loro
parte posteriore. “Guardavo il mio corpo
dall’alto”, ha dichiarato un partecipante.
“La sensazione di essere separato dal mio
corpo era piuttosto debole, ma si avverti-va”.
“Per noi è stato veramente emozionan-te, perché era qualcosa di molto vicino alla
classica esperienza extracorporea di guar-dare dall’alto il proprio corpo”, racconta
una delle ricercatrici, Bigna Lenggenha-ger, oggi all’università di Berna, in Svizze-ra. Ulteriori conferme sono venute ripe-tendo l’esperimento dentro un apparec-chio per la risonanza magnetica, che ha
dimostrato che la regione del cervello chia-mata giunzione temporo-parietale (Tpj) si
comportava  in  modo  diverso  quando  il
soggetto diceva di luttuare fuori dal pro-prio corpo. Questo risultato si lega chiara-mente a studi precedenti sulle lesioni neu-rologiche in persone che riferi-vano esperienze extracorporee:
anche in questi casi emergeva un
coinvolgimento della Tpj.
La Tpj ha una caratteristica in
comune con altre aree del cer-vello che i ricercatori associano alle illusio-ni corporee: aiuta a integrare le sensazioni
visive, tattili e propriocettive con i segnali
inviati dall’orecchio interno, che ci danno
il senso dell’equilibrio e dell’orientamento
nello spazio. Una dimostrazione in più che
la capacità del cervello di integrare stimoli
multisensoriali svolge un ruolo chiave nel
collocare il sé nel corpo.
Il ilosofo Thomas Metzinger dell’uni-versità Johannes Gutenberg di Magonza,
in  Germania,  ritiene  che  capire  come  il
cervello esegue questa operazione sia il
primo passo per comprendere come co-struisce il nostro sé autobiograico, cioè la
percezione di noi stessi come entità che
esistono da un passato ricordato a un futu-ro immaginato. “Questi esperimenti sono
estremamente importanti”, aferma, “per-ché manipolano dimensioni del sé basilari
come l’autocollocazione e l’autoidentiica-zione”.
La sensazione di possedere e abitare un
corpo è forse uno degli aspetti più elemen-tari dell’autoconsapevolezza, e potrebbe
essere il fondamento su cui poggiano gli
aspetti  più  complessi  del  sé.  Il  corpo,  a
quanto pare, genera il sé. u



Come mai 
sei così?
Michael Bond


L
a prima volta che un bambino sorri-de, intorno ai due mesi di età, per i
genitori è un momento bellissimo e
intenso: forse è il primo vero segno di rico-noscimento del loro amore e della loro de-dizione. E potrebbe essere altrettanto im-portante per il bambino: un primo passo
sulla lunga strada verso l’identità e la con-sapevolezza di sé.
Spesso l’identità è ritenuta un prodotto
della memoria, il risultato del nostro tenta-tivo di elaborare le esperienze vissute in
una  narrazione  coerente.  Oggi,  però,  è
sempre più difusa l’idea che la percezione
di sé sia una conseguenza diretta del no-stro rapporto con gli altri. “Abbiamo una
profonda pulsione a interagire che ci aiuta
a scoprire chi siamo”, dichiara lo psicologo
dello sviluppo Bruce Hood dell’università
di Bristol, autore di The self illusion: why
there is no “you” inside your head (Consta-ble 2012). E questo processo non comincia
con  la  formazione  dei  primi  ricordi  del
bambino, ma quando il bambino impara
per la prima volta a imitare il sorriso dei
genitori e a rispondere agli altri in modo
empatico.
Che la percezione di sé sia legata al rap-porto con gli altri è un fatto intuitivo. “Non
possiamo interagire con gli altri se non ab-biamo un sé”, spiega Michael Lewis, che
studia  lo  sviluppo  infantile  alla  Robert
 Wood  Johnson  medical  school  di  New
Brunswick,  New  Jersey.  “Per  interagire
con qualcuno devo sapere alcune cose di
lui, e l’unico modo per farlo è sapere alcu-ne cose di me”.
Oggi  alcuni  studi  confermano  che  il
cervello funziona così. Degli indizi sono
emersi dall’osservazione delle persone af-fette da autismo. Di solito, questo disturbo
è associato alla diicoltà di capire i segnali
non verbali, ma sembra che comprometta
anche la capacità di autoriconoscimento:
crescendo, la persona autistica impara più
tardi delle altre a riconoscersi allo specchio
e tende a formare meno memorie autobio-graiche. Signiicativamente, quando l’au-tistico cerca di svolgere queste operazioni
e quando cerca di capire le reazioni degli
altri sembra che le stesse regioni cerebrali
– le aree della corteccia prefrontale – abbia-no  un’attività  ridotta.  Si  conferma  così
l’ipotesi che alla base di queste due facoltà  ci sia lo stesso meccanismo cerebrale.
  Un’ulteriore  conferma  arriva  dalla
University of Southern California, dove lo
psicologo Antonio Damasio ha scoperto
che emozioni sociali come l’ammirazione
e la compassione, che nascono dall’osser-vazione  dei  comportamenti  degli  altri,
tendono ad attivare le cortecce postero-mediali, un’altra serie di regioni cerebrali
ritenute importanti nella costruzione della
percezione di sé.
Geograia dei pensieri
Il risultato è che il nostro sé non parla solo
di noi, ma anche delle persone che ci cir-condano e di come ci relazioniamo con lo-ro: è quello che Damasio chiama “il me
sociale”. È una scoperta che ha implicazio-ni profonde. Se una delle funzioni primarie
dell’autoconsapevolezza è quella di aiutar-ci a costruire relazioni, allora la natura del
sé non può che dipendere dall’ambiente in
cui si sviluppa.
Le prove arrivano dalla psicologia cul-turale. Nel suo libro Il Tao e Aristotele. Per-ché asiatici e occidentali pensano in modo
diverso  (Rizzoli  2007),  Richard  Nisbett
dell’università del Michigan ha presentato
i risultati di alcuni esperimenti di laborato-rio dai quali emerge che i cinesi e altri po-poli dell’Asia orientale tendono a concen-trarsi sul contesto di una situazione, men-tre gli occidentali analizzano i fenomeni
isolandoli: prospettive diverse che incido-no sul modo in cui percepiamo noi stessi.
I ricercatori che studiano la memoria
autobiograica, per esempio, hanno sco-perto che è più probabile che i cinesi si con-centrino su eventi di carattere storico-so-ciale, mentre europei e americani privile-giano memorie di eventi e successi perso-nali. Altri studi indicano che i giapponesi
sono più inclini ad adattare la descrizione
di sé alle situazioni, cosa che suggerisce
un’identità più luida e meno strutturata
rispetto a noi occidentali, che non siamo
altrettanto inluenzati dal contesto.
Queste diferenze possono emergere
già nei primi anni di vita. Alcuni studi an-tropologici citati da Lewis rivelano che “i
terribili due anni” – l’età in cui si pensa che
il bambino sviluppi una volontà indipen-dente – sono meno problematici in culture
che non mettono al centro l’autonomia in-dividuale. Un dato che sembra dimostrare
che la cultura plasma il sé in dalle prime
esperienze di vita.
L’esistenza di una così grande diversità
di atteggiamenti e forme mentali sembra
suggerire che la nostra stessa identità – “ciò
che io sono” – sia culturalmente determi-nata. “Io sono un maschio, un professore,
un anziano, un marito, un padre e un non-no”, osserva Lewis. “Ma tutte queste cose
che dovrebbero deinirmi sono, in realtà,
costrutti culturali”. È evidente che non esi-ste  un’unica  concezione  universale  di
identità. Anche se Hazel Markus, che stu-dia l’interazione tra la cultura e il sé alla
Stanford University, in California, sottoli-nea come le personalità umane abbiano un
forte tratto comune: la capacità di plasma-re costantemente l’ambiente sociale, e di
esserne plasmate.
Mentre aumentano le prove sperimen-tali  dell’esistenza  del  “me  sociale”,  non
tutti sono convinti che questo sia un bene.
Per la scrittrice e psicologa Susan Black-more, il sé potrebbe essere un sottoprodot-to delle relazioni, semplicemente qualcosa
che si manifesta nell’interazione sociale,
mentre impariamo a entrare in rapporto
con gli altri. E se da una parte questo ci dà
la sensazione di “esserci”, dall’altra ha i
suoi svantaggi. Il sé può costringerci a re-stare nevroticamente aggrappati a emo-zioni e pensieri che compromettono la no-stra felicità complessiva.
Ma  cambiare  strada  significherebbe
annullare le certezze di una vita.u dic

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