martedì 8 ottobre 2013

Cattivi buddisti - Hannah Beech, Time, Stati Uniti Foto di Adam Dean

Da sempre associato al paciismo e alla
tolleranza, in diversi paesi asiatici il
buddismo sta mostrando un inedito lato
integralista e violento. Rivolto contro le
minoranze musulmane



C
on il volto calmo e sereno
come quello di una statua,
il monaco buddista che si
fa chiamare “il Bin Laden
birmano” comincia il suo
sermone. Davanti a lui so-no sedute centinaia di fedeli, con le mani
giunte e il sudore che scorre lungo le loro
schiene. Quando è il momento, la folla into-na una cantilena insieme all’uomo dalla
veste  bordeaux,  e  i  mantra  fluttuano
nell’aria afosa di un tempio di Mandalay, la
più grande città birmana dopo Rangoon.
Sembra una scena paciica, ma il messaggio
di Wirathu è carico di odio. “Questo non è il
momento della calma”, sentenzia il mona-co di 46 anni, e passa un’ora e mezza a spie-gare ino a che punto detesti la minoranza
musulmana  di  questo  paese  prevalente-mente buddista. “È il momento di ribellar-si, di farsi ribollire il sangue”.
In Birmania, chiamata anche Myanmar,
nell’ultimo  anno  folle  di  buddisti  hanno
preso di mira la minoranza musulmana. Se-condo le autorità le vittime sono state deci-ne, ma le organizzazioni internazionali per
i diritti umani parlano di centinaia di morti.
Oggetto delle violenze sono stati soprattut-to i rohingya, un’etnia originaria del Ban-gladesh  che  vive  nell’occidente  estremo della Birmania. I rohingya sono di fede mu-sulmana e per la maggior parte privi di cit-tadinanza. Secondo le Nazioni Unite, sono
uno dei popoli più perseguitati del mondo.
Lo spargimento di sangue si è poi esteso al-la parte centrale del paese, dove Wirathu
vive e tiene i suoi sermoni al vetriolo. Per il
monaco estremista i musulmani – almeno il
5 per cento dei 60 milioni di abitanti della
Birmania – sono una minaccia per il paese e
la sua cultura. “Si riproducono in fretta e
rubano le nostre donne, le stuprano”, mi
spiega. “Vorrebbero occupare il nostro pae- se, ma io non glielo permetterò. Il Myanmar
deve rimanere buddista”. Questi discorsi
minacciano il delicato equilibrio politico di
un paese popolato da almeno 135 gruppi et-nici e che solo di recente si è liberato da qua-si cinquant’anni di regime militare. Tra le
autorità c’è anche chi invoca l’attuazione di
una norma, raramente fatta applicare du-rante  la  dittatura  militare,  che  vieta  alle
donne rohingya di avere più di due igli. E
molti sostengono che nel nord del paese gli
ultimi scontri tra i militari birmani e i ribelli
di etnia kachin, prevalentemente cristiani sono stati inaspriti dalle divisioni religiose.
Ma il buddismo radicale iorisce anche
in altre regioni asiatiche. Quest’anno nello
Sri Lanka alcuni gruppi nazionalisti buddi-sti legati agli alti funzionari del paese sono
diventati sempre più brillanti, e i monaci
hanno contribuito a organizzare la distru-zione di case e negozi di proprietà di musul-mani e cristiani. Nel sud della Thailandia,
dove dal 2004 la rivolta dei separatisti mu-sulmani ha fatto circa cinquemila vittime,
l’esercito tailandese addestra milizie civili
e  spesso  accompagna  i  monaci  buddisti
nella questua mattutina. La commistione
di soldati e monaci – che in alcuni casi si so-no armati – non fa che esasperare l’isola-mento percepito dalla minoranza musul-mana in Thailandia. Anche se è la storia di
ciascun paese a determinare l’andamento
del buddismo radicale all’interno dei suoi
conini, voci e pregiudizi si difondono in
maniera virale su internet. E la violenza su-pera facilmente le frontiere. A giugno, in
Malesia, dove lavorano centinaia di miglia-ia  di  emigrati  birmani,  sono  stati  uccisi
molti buddisti della comunità, secondo le
autorità per vendicare le stragi di musul-mani in Birmania.
Finora, nelle analisi sull’estremismo re-ligioso – nazionalisti indù, integralisti mu ulmani, fondamentalisti cristiani, ebrei
ultraortodossi – il buddismo è stato per lo
più ignorato. Per gran parte del mondo que-sto credo è sinonimo di nonviolenza, amore
e gentilezza, tutti concetti predicati da Sid-dharta Gautama, il Budda, 2.500 anni fa.
Ma come i fedeli di qualunque religione, i
buddisti e i loro leader spirituali non sono
immuni dalla politica e, in certe occasioni,
dal fascino del settarismo nazionalista.
Tra attivismo e militanza politica
Quando l’Asia si sollevò contro le potenze
imperialiste, i monaci buddisti, forti del lo-ro numero e della loro autorità morale, gui-darono i movimenti anticolonialisti. Alcuni
digiunavano per la causa, con la pelle ca-dente e le costole sporgenti che ne sottoli-neavano  il  sacrificio  agli  occhi  dei  laici.
L’immagine più celebre è forse quella di
Thich Quang Duc, il monaco vietnamita
seduto nella posizione del loto e avvolto
dalle iamme che cinquant’anni fa si dette
fuoco a Saigon per protestare contro il regi-me  repressivo  del  Vietnam  del  Sud.  Nel
2007, in Birmania, i monaci buddisti hanno
guidato una rivolta per la democrazia poi
repressa nel sangue: le immagini di ile di
bonzi che marciavano paciicamente per
protestare contro la giunta militare, con le
ciotole per l’elemosina capovolte, suscita-rono la solidarietà del mondo intero, tranne
quella dei soldati che li massacrarono.
Ma dove inisce l’attivismo sociale e co-mincia la militanza politica? Ogni religione
può essere distorta ino a diventare una for-za distruttiva avvelenata da idee assoluta-mente antitetiche ai suoi princìpi di fondo. Anche il buddismo.
Seduto a gambe incrociate su una piat-taforma sopraelevata nel monastero di Ma-soeyein  a  Mandalay,  accanto  a  un  muro
coperto di suoi ritratti a grandezza naturale,
Wirathu espone la sua visione del mondo. Il
presidente statunitense Barack Obama è
“contaminato da sangue nero musulma-no”. Gli arabi si sono impadroniti delle Na-zioni Unite, sostiene, anche se non trova
paradossale legare il suo nome a quello di
un terrorista arabo. I musulmani birmani
sono “estremisti malvagi” nel 90 per cento
dei casi, aferma il monaco, che ha passato
sette anni in prigione per aver istigato i po-grom antimusulmani del 2003. Oggi guida
il movimento 969 – la cifra rappresenta vari
attributi del Budda – che esorta i buddisti a
fraternizzare solo tra loro. “Difendere la
nostra religione e la nostra razza è più im-portante della democrazia”, spiega il mona-co.
Sarebbe facile liquidare Wirathu dei-nendolo un bonzo isolato e ignorante senza
basi dottrinarie per spiegare la sua intolle-ranza settaria, inito in monastero solo per-ché i genitori avevano altri sette igli e vole-vano una bocca in meno da sfamare. Ma
Wirathu è carismatico e potente, e il suo
messaggio ha un impatto forte. Tra i bamar,
il gruppo etnico di maggioranza in Birma-nia,  così  come  in  molte  zone  buddiste
dell’Asia, c’è la vaga sensazione che il bud-dismo sia sotto assedio, che l’islam abbia
già conquistato l’Indonesia, la Malesia, il
Pakistan e l’Afghanistan – tutti territori che
in passato erano buddisti – e che presto po-trebbero cadere altre tessere del domino.
Anche senza prove, i nazionalisti buddisti
temono che le comunità musulmane locali
stiano crescendo più rapidamente di loro e
hanno paura del denaro che arriva dal Me-dio Oriente per costruire nuove moschee.
Da quando la Birmania ha imboccato la
strada delle riforme, nel 2011, e la giunta ha
lasciato il posto a un governo formato anche
da civili, in pochi hanno chiesto che l’eser-cito fosse chiamato a rispondere di decenni
di repressione. Questa moderazione è stata
attribuita allo spirito di clemenza buddista.
Ma la democratizzazione della Birmania ha
anche permesso il proliferare di voci estre-miste e scatenato qualcosa di simile alla
pulizia etnica. I problemi sono cominciati
nel 2012 nelle regioni occidentali, dove gli
scontri  tra  buddisti  e  musulmani  hanno
provocato  un  numero  sproporzionato  di
morti musulmani. Bande di buddisti arma-ti di machete hanno attaccato i villaggi ro-hingya. Secondo Human rights watch, in
una carneicina durata un giorno intero in
un solo villaggio sono state massacrate set-tanta  persone.  Da  allora  la  violenza  si  è
estesa ad altre regioni del paese senza che il
governo si sia impegnato troppo per contra-starla.
Lo scorso marzo ci sono state decine di
morti e decine di migliaia di persone hanno
perso le loro case, rase al suolo insieme alle
moschee. I testimoni raccontano di bambi-ni fatti a pezzi e donne bruciate vive. In di-verse occasioni i buddisti inferociti erano
incitati dai monaci. A ine marzo il centro
direzionale dei trasporti della città di Meik-tila ha bruciato per giorni, mentre interi
quartieri islamici venivano rasi al suolo da
folle buddiste dopo l’uccisione di un mona-co per mano dei musulmani (il bilancio ui-ciale dei morti: due buddisti e almeno qua-ranta musulmani). Migliaia di musulmani
sono ancora stipati in campi profughi dove
è vietato l’ingresso ai giornalisti. Sono riu-scita a incontrare la famiglia di Abdul Ra-zak Shabban, quindici anni, uno dei venti
studenti di una scuola coranica locale che
sono stati uccisi. “Mio iglio è stato ucciso
perché era musulmano, nient’altro”, mi ha
detto sua madre Rahamabi all’ombra delle
macerie di una moschea incendiata.
Il sogno di cacciare l’islam e assicurare il dominio del buddismo anima il Bodu bala
sena (Bbs) – Forza del potere buddista – la
principale organizzazione buddista dello
Sri Lanka. All’assemblea annuale del grup-po, che si è tenuta a febbraio alla periferia di
Colombo, più di cento monaci hanno diret-to i lavori mentre gli adepti sventolavano
bandiere buddiste, si mettevano la mano
destra sul cuore e giuravano di difendere il
loro credo. Fondato appena un anno fa, il
Bbs sostiene che lo Sri Lanka, la nazione
buddista più antica del mondo, deve riven-dicare con forza le sue radici spirituali. Vuo-le che i monaci insegnino storia nelle scuole
pubbliche e ha chiesto di vietare il velo sulla
testa, anche se il 9 per cento della popola-zione è musulmana. Al raduno annuale del
gruppo, il segretario generale – il monaco
Galaboda Aththe Gnanasara Thero –, ha
dichiarato: “Questo è un governo buddista.
Questo è un paese buddista”.
I monaci più intransigenti, come quelli
del Bbs, hanno cominciato ad attaccare le
minoranze musulmana e cristiana, soprat-tutto da quando, nel 2009, dopo 26 anni è
inita la guerra contro le Tigri per la libera-zione del tamil Eelam, prevalentemente
indù. Dal 2005, quando è stato eletto il pre-sidente Mahinda Rajapaksa, conservatore,
i gruppi suprematisti buddisti sono diventa-ti più forti. Negli ultimi mesi la loro campa-gna intimidatoria ha messo a segno diversi
attacchi ma, nonostante le prove, nessuno è
stato accusato. Di fatto, stato e tempio sono
sempre più vicini nello Sri Lanka, dove un
partito dominato dai monaci fa parte della
coalizione  di  governo.  A  marzo  l’ospite
d’onore della cerimonia di apertura dell’Ac-cademia per leader buddisti, inanziata dal
Bbs, è stato il ministro della difesa Gotabha-ya Rajapaksa, fratello del presidente, che
ha dichiarato: “Sono i monaci a proteggere
il nostro paese, la nostra religione e la no-stra razza”.
L’esercito nei templi tailandesi
Nell’estremo sud della Thailandia sono i
monaci ad aver bisogno di aiuto, e per di-sperazione alcuni di loro hanno fatto ricor-so a metodi contrari al dogma paciista del
buddismo. Le province meridionali di Pat-tani, Yala e Narathiwat appartenevano a un
sultanato malese prima che la Thailandia,
tenacemente buddista, annettesse la regio-ne all’inizio del secolo scorso. I musulmani
sono almeno l’80 per cento della popolazio-ne della regione. Da quando, nel 2004, si è
intensiicata una rivolta separatista, molti
buddisti sono stati presi di mira in quanto
dipendenti pubblici pagati dallo stato tai landese: insegnanti, soldati o funzionari.
Anche i monaci sono stati attaccati. Così
adesso i militari tailandesi e altre forze di
sicurezza sono entrati negli wat – i templi
buddisti tailandesi – e ogni mattina accom-pagnano i monaci a chiedere l’elemosina.
“Non c’è altra scelta,” spiega il tenente Sa-wai Kongsit. “Non possiamo più separare il
buddismo dalle armi”.
Il tempio di Lak Muang, nella città di
Pattani, ospita dieci monaci buddisti e cir-ca cento soldati: lo stupa principale del va-sto complesso è diventato il centro di co-mando  operativo  del  23°  battaglione
dell’esercito tailandese, con una rete mi-metica che circonda la base della struttura
sacra. Ogni anno migliaia di volontari bud-disti vengono addestrati in questo wat per
unirsi alle milizie civili armate che hanno
l’incarico di proteggere i villaggi. Prapalad-suthipong Purassaro, che è stato monaco
per sedici anni e ora si prende cura del tem-pio, confessa che quando indossava la veste
monastica aveva tre pistole: “Mi sentivo un
po’ in colpa, come buddista, ma dobbiamo
difenderci”.  I  buddisti  probabilmente  si
sentono protetti dalla presenza dei soldati
nei loro templi, ma la popolazione musul-mana riceve un segnale completamente
diverso. “Invitando i militari negli wat, lo
stato lega la religione ai militari”, dice Mi-chael Jerryson, docente di studi religiosi
alla Youngstown state university, in Ohio, e
autore di un libro sul ruolo del buddismo
nel conlitto nella Thailandia meridionale.
“I buddisti non ci considereranno mai tai-landesi”, dice Sumoh Makeh, madre di un
sospetto ribelle che, con quindici compa-gni, è stato ucciso dai soldati tailandesi a
febbraio dopo un tentativo di irruzione in
una base navale. “Questa è la nostra terra
ma noi siamo gli esclusi”. Del resto anche i
musulmani hanno paura nel sud: nelle vio-lenze ne sono morti più dei buddisti, uccisi
da bombardamenti indiscriminati o dal so-spetto di essere in qualche modo legati a
Bangkok (rispetto al totale della popolazio-ne, tuttavia, sono morti più buddisti). Ep-pure, uno dopo l’altro, i monaci mi ripetono
che i musulmani usano le moschee per te-nerci le armi e che tutti gli imam possiedo-no una pistola. “L’islam è una religione vio-lenta”, dice Phratong Jiratamo, un soldato
diventato monaco. “Lo sanno tutti”.
È un sentimento che il “Bin Laden” bir-mano  sarebbe  pronto  a  condividere.  Mi
chiedo come Wirathu possa conciliare i su-tra paciici del suo credo con la violenza an-timusulmana che dilaga nella sua patria a
maggioranza bamar. “Il buddismo non ci
permette di attaccare nessuno”, mi spiega.
“Ma abbiamo tutto il diritto di difendere la
nostra comunità”. Più tardi, durante la pre-dica della sera, lo ascolto invitare casalin-ghe sorridenti, studenti, insegnanti, nonne
e altre persone comuni a ripetere dopo di
lui: “Mi sacriicherò per la razza bamar”.
Ma lo spirito del perdono buddista resi-ste ancora. Nel 2011, Watcharapong Suttha,
un monaco del tempio di Lak Muang, stava
facendo la questua mattutina protetto dai
soldati quando è esplosa una bomba. Oggi
non è più un monaco, ha 29 anni ed è ancora
traumatizzato,  con  lo  sguardo  perenne-mente allarmato e il corpo, ricoperto di ci-catrici nella parte inferiore, scosso dagli
spasmi. Eppure non accusa un’intera reli-gione per l’attentato: “L’islam è una religio-ne paciica, come tutte le altre”, dice. “Se ce
la prendiamo con i musulmani, loro se la
prenderanno  con  noi.  E  questa  violenza
non avrà mai ine”. u gc



Le colpe delle autorità
Aung Zaw, The New York Times, Stati Uniti


Dietro le violenze contro i
musulmani in Birmania c’è
una lotta di potere nell’élite,
scrive il direttore di Irrawaddy


 E
pisodi di violenza di matrice re-ligiosa ed etnica ostacolano il
fragile processo di riforme de-mocratiche avviato da più di un anno in
Birmania. Molti temono che le rivolte
antimusulmane non siano episodi iso-lati, ma il frutto di un tentativo delle
frange estremiste dell’esercito di con-trastare le riforme e l’apertura del pae-se. Tornando in Birmania dopo 24 anni
ho sentito alti uiciali militari aferma-re che i musulmani vogliono imporre la
loro religione e “rubare” le donne ai
buddisti; che l’Arabia Saudita inanzia
moschee e attività economiche di mu-sulmani, e che i rohingya, una mino-ranza islamica che vive nell’ovest del
paese, stanno diventando sempre più
numerosi grazie all’ingresso massiccio
di immigrati dal Bangladesh. “Senza
adeguati deterrenti, sfonderanno la
porta occidentale”, mi ha detto un mi-nistro alludendo allo stato del Rakhine,
al conine con il Bangladesh, abitato
dai rohingya. Secondo lui, i diritti uma-ni non si applicano ai musulmani.
Idee simili sono ormai radicate tra
la popolazione. Una parte di responsa-bilità nelle violenze antimusulmane è
delle autorità e dietro si intravede una
lotta per il potere all’interno dell’élite.
L’esistenza di un conlitto tra forze ol-tranziste e moderate del governo, en-trato in carica nel 2011 sotto la guida
del generale moderato Thein Sein, non
è un segreto. I generali, che hanno go-vernato il paese per cinquant’anni, con-trollano gran parte della ricchezza na-zionale e alcuni sono legati agli interes-si cinesi, che rischiano di passare in se-condo piano se la Birmania raforzerà i
legami economici con l’occidente. La
violenza contro i musulmani è un utile
diversivo dal risentimento dei birmani
nei confronti della Cina.
L’incaricato speciale delle Nazioni
Unite in Birmania, Tomás Ojea Quinta-na, ha afermato di aver ricevuto noti-zie di un “coinvolgimento dello stato”
nelle violenze; le autorità sarebbero “ri-maste immobili di fronte alle atrocità
commesse sotto i loro occhi, tra gli altri
anche da bande criminali ben organiz-zate di buddisti ultranazionalisti”. Il go-verno ha negato ogni responsabilità,
ma inora non ha preso i colpevoli. For-se, dicono gli osservatori, alcuni sono
pesci troppo grossi.
Chi semina odio lavora oggi su un
terreno fertile, ma non è sempre stato
così. I musulmani, arrivati in Birmania
nel tredicesimo secolo, hanno convis-suto con i buddisti in relativa armonia
per secoli. Le origini del conlitto risal-gono alla dominazione britannica e,
dopo il colpo di stato militare del 1962,
la situazione per loro si è fatta ancora
più diicile. Il regime ha tentato di puri-icare la razza emarginando le mino-ranze, i non buddisti e i buddisti più tra-dizionalisti. Pur dando di sé un’imma-gine di devoti osservanti, gli esponenti
della giunta non mostravano il minimo
scrupolo nel reprimere brutalmente le
minoranze e i dissidenti. L’estremismo
di oggi è il risultato di quella politica.
Il presidente Thein Sein e Aung San
Suu Kyi hanno il dovere morale e lega-le di agire. Suu Kyi ha lanciato un ap-pello per la legalità, ma non basta. De-ve condannare esplicitamente le per-secuzioni delle minoranze e il lassismo
delle autorità. I giornali, da poco liberi
dalla censura, devono assumersi le re-sponsabilità che la libertà implica. I
buddisti armati di machete hanno in-fangato la nostra nazione e l’impegno
del governo verso il cambiamento. Se
il presidente non metterà ine allo
spargimento di sangue, si ostacolerà
l’ingresso della Birmania nella comu-nità internazionale. u np
Aung Zaw è il fondatore del gruppo edi-toriale Irrawaddy e il direttore dell’omo-nima rivista con sede a Bangko

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