venerdì 11 ottobre 2013

SCIENZA - Il mistero delle api scomparse - Bryan Walsh, Time, Stati Uniti. Foto di Kim Taylor Le api diminuiscono di anno in anno, con gravi conseguenze per l’agricoltura e l’economia. Ma sulle cause non c’è unanimità. Tra i sospettati ci sono dei pesticidi introdotti negli anni novanta

D
obbiamo  ringraziare
l’Apis mellifera, meglio
conosciuta  come  ape
domestica occidentale,
per  un  boccone  su  tre
del cibo che mangiamo
ogni giorno. Dai mandorleti della Califor-nia centrale – dove in primavera miliardi di
api provenienti dal resto del paese arrivano
per impollinare raccolti del valore di diver-si miliardi di dollari – alle torbiere del Mai-ne dove crescono i mirtilli, le api sono le
operaie oscure e non pagate del sistema
agricolo statunitense, e creano un valore
aggiunto di oltre 15 miliardi di dollari all’an-no. A giugno, un negozio della catena Who-le Foods del Rhode Island, per sensibilizza-re l’opinione pubblica sul tema, ha tempo-raneamente tolto dagli scafali tutti i pro-dotti alimentari che dipendono dall’impol-linazione: su 453 ne sono spariti 237, tra cui
mele, limoni e zucchine di diverse varietà.
Le api “sono il collante che tiene insieme il
nostro sistema agricolo”, ha scritto nel 2011
la giornalista Hannah Nordhaus nel suo li-bro The beekeeper’s lament.
Oggi quel collante rischia di non bastare
più. Intorno al 2006 gli apicoltori hanno
cominciato a notare un fenomeno inquie-tante: le api stavano scomparendo. Negli
alveari c’erano nidi, cera, perino miele, ma
di api neanche l’ombra. Un male misterioso
che gli studiosi hanno chiamato sindrome
dello spopolamento degli alveari (Ssa). Da
un giorno all’altro gli apicoltori si sono ri-trovati al centro dell’attenzione dei mezzi
d’informazione, mentre l’opinione pubbli-ca era sempre più afascinata dal mistero. A
distanza di sette anni le api continuano a
morire a ritmi mai visti, e le cause restano
oscure. Durante l’inverno del 2012 è scom-parso un terzo delle colonie di api degli Sta-ti Uniti, il 42 per cento in più rispetto all’an-no precedente e ben oltre il 10-15 per cento
di perdite che gli apicoltori si aspettano du-rante un normale inverno.
Con il tempo gli apicoltori possono tor-nare a riempire gli alveari svuotati, ma l’al-to  tasso  di  spopolamento  sta  mettendo
sotto pressione il settore e tutto il sistema
agroalimentare. Nel 2012 il numero totale
delle api negli Stati Uniti è bastato a mala-pena a impollinare i mandorli della California, mettendo a rischio una produzione del
valore di quasi quattro miliardi di dollari.
Le mandorle sono il principale prodotto
agricolo da esportazione della California,
con un valore più che doppio rispetto alle
famose  uve  da  vino  californiane.  Ma  le
mandorle, che dipendono totalmente dalle
api, sono solo la spia del problema. Per mol-ti altri prodotti ortofrutticoli, dai meloni di
Cantalupo ai mirtilli rossi alle angurie, l’im-pollinazione è l’unico strumento a disposi-zione degli agricoltori per massimizzare i
raccolti. Se non ci fossero le api, la produ-zione calerebbe in modo permanente. “Il
messaggio di fondo è che siamo molto vici-ni al limite”, osserva Jef Pettis, che guida il
laboratorio di ricerca sulle api del diparti-mento dell’agricoltura. “In questo momen-to è un terno al lotto”.
Ecco perché gli studiosi come Pettis ce
la stanno mettendo tutta per capire cosa sta
uccidendo le api. I primi sospettati sono i
pesticidi, in particolare una nuova classe di
prodotti  chiamati  neonicotinoidi,  che  a
quanto pare sono tossici per le api e altri in-setti anche a dosaggi bassi. Alcuni ricerca-tori si sono concentrati su agenti apicidi
come la Varroa destructor (nome più che
mai appropriato), un acaro parassita che sta
devastando le colonie di api dagli anni ot-tanta, quando è stato introdotto acciden-talmente negli Stati Uniti. Altri ricercatori
puntano su malattie batteriche e virali. La
mancanza di un chiaro responsabile ali-menta il mistero e la paura. Alcuni ambien-talisti preannunciano una “seconda prima-vera silenziosa” citando il rivoluzionario
libro di Rachel Carson del 1962, da molti
considerato il precursore del movimento
ecologista. Una frase attribuita ad Albert
Einstein è diventata uno slogan: “Se l’ape
scomparisse  dalla  faccia  della  terra
all’umanità non resterebbero che quattro
anni di vita”.
Gli esperti dubitano che Einstein abbia
mai pronunciato queste parole, ma l’errore
di attribuzione è tipico della confusione che
circonda la scomparsa delle api. La sensa-zione è che gli esseri umani stiano inavver-titamente sterminando una specie di cui si
prendono cura – e da cui dipendono – da mi-gliaia di anni. La scomparsa delle api ren-derebbe il nostro pianeta più povero e più
afamato, ma a fare davvero paura è la pos-sibilità che le api siano una sorta di avverti-mento, il sintomo che c’è qualcosa di grave-mente compromesso nel mondo che ci cir-conda. “Se non ci saranno subito dei cam-biamenti  assisteremo  a  una  catastrofe”,
dice Tom Theobald, un apicoltore del Co-lorado. “Le api sono solo l’inizio”.
pollinazione con gli agricoltori. Quando il
business era all’apice, l’azienda di Doan era
una delle più grandi dello stato. Era respon-sabile dell’impollinazione del 10 per cento
delle mele prodotte nello stato di New York
e aveva circa seimila alveari. “Abbiamo fat-to un sacco di miele, e pure un sacco di sol-di”, racconta.
Tutto è inito nel 2006, quando è arriva-ta l’Ssa. Quell’inverno Doan ha alzato la
copertura dei suoi alveari per controllare le
api e non ha trovato niente. “C’erano centi-naia di alveari ma dentro non c’era nem-meno un’ape”, ricorda. Negli anni successi-vi ha subìto perdite continue: le api si am-malavano  e  morivano.  Per  rimediare  ha
comprato delle nuove api regine e ha suddi-viso in diversi alveari le colonie superstiti,
riducendo  così  la  produzione  di  miele  e
spremendo sempre di più le api sane so-pravvissute. Alla ine la situazione è diven-tata insostenibile. Nel 2013, dopo decenni
di attività, Doan ha gettato la spugna. Ha
venduto i suoi 45 ettari di terra – avrebbe
voluto farlo dopo la pensione – e ora sta
pensando di cedere anche le attrezzature,
ammesso che qualcuno le compri. Nel frat-tempo continua ad allevare api, quanto ba-sta per tirare avanti mentre valuta altre op-Se l’ape domestica è esposta a minacce
naturali come i virus e non naturali come i
pesticidi, vale la pena ricordare che l’ape
stessa non è nativa del continente norda-mericano. È stata importata in Nordameri-ca nel seicento e ha potuto prosperare ino
a oggi perché ha trovato una nicchia perfet-ta all’interno di un sistema alimentare che
chiede raccolti a prezzi sempre più bassi e
in quantità sempre maggiori. È un ecosiste-ma artiiciale, commerciale, che oltre alle
api e agli apicoltori, ha favorito anche i su-permercati e i negozi di alimentari, garan-tendogli guadagni alti e stabili.
Efetti subletali
Jim Doan alleva api da quando aveva cin-que anni, e ha ereditato la passione per le
api da suo padre, che si pagò il college lavo-rando come apicoltore part time, e nel 1973
abbandonò il mercato dei titoli per dedicar-si a tempo pieno a questa attività. Le api
sono perino nello stemma di famiglia in-glese dei Doan. Jim voleva diventare pro-fessore  di  agraria,  ma  poi  il  richiamo
dell’apicoltura è stato troppo forte.
Per un po’ gli afari sono andati bene. La
famiglia ha aperto un’attività nella cittadi-na di Hamlin, nello stato di New York, e ha
prosperato con il miele e i contratti di im- continua zioni, compresa quella di andare a lavorare
per Walmart.
Attraversiamo il cortile pieno di arnie
accatastate. Doan mi presta una giacca pro-tettiva e un velo da mettermi sul viso. Avan-za lentamente tra le arnie – in parte perché
è grosso e in parte perché alle api non piac-ciono i movimenti bruschi – e sparge del
fumo, che scherma i feromoni di allarme
delle api e le tiene calme. Apre le arnie e ne
estrae dei telai mobili – le minuscole impal-cature su cui le api costruiscono gli alveari
– per vedere come se la cava la nuova popo-lazione che ha importato dalla Florida. Al-cuni telai pullulano di api striscianti, miele
e  celle  sane  piene  di  larve.  Altre  invece
sembrano abbandonate: perino la cera si
sta sfaldando. Queste arnie vengono girate
su un ianco.
A Doan è sempre piaciuto guardare le
api. “Ora siamo arrivati al punto che ogni
volta che le controllo ho paura”, dice. “Sarà
una buona giornata, saranno vive, o troverò
un sacco di robaccia? È deprimente lavora-re così”.
Doan non è il solo a pensare di abban-donare questo lavoro. Negli ultimi quindici
anni il numero degli apicoltori commercia-li è sceso di tre quarti e mentre tutti concor-dano sul fatto che il gioco non vale più la
candela, le opinioni su quale sia la causa
principale variano. Doan pensa che siano i
pesticidi neonicotinoidi, ed efettivamente
gli indizi a loro carico sono molti.
I neonicotinoidi vengono usati su più di
140 raccolti diversi e anche in molti orti do-mestici: questo signiica ininite possibilità
di esposizione per tutti gli insetti che ci en-trano in contatto. Doan mi mostra alcuni
studi di campioni di polline presi dagli alve-ari che indicano la presenza di decine di
sostanze, tra cui i neonicotinoidi. Qualche
tempo fa Doan ha testimoniato di fronte al
congresso sui pericoli delle sostanze chimi-che e tramite un’azione legale, insieme ad
altri apicoltori e a gruppi ambientalisti, ha
chiesto all’ente per la protezione dell’am-biente (Epa) di vietare due pesticidi della
classe dei neonicotinoidi. “Le conseguen-ze non sono marginali e non sono astratte”,
dice Peter Jenkins, avvocato del Center for
food safety e tra i principali sostenitori del-la causa. “Sono una minaccia reale alla so-pravvivenza degli insetti impollinatori”.
Da decenni gli agricoltori statunitensi
inondano i campi di pesticidi, e questo si-gniica che le api (che possono percorrere
in volo ino a otto chilometri in cerca di ci-bo) sono esposte alle tossine da molto pri-ma che  si sentisse  parlare  dell’Ssa. Ma i
neonicotinoidi, introdotti a metà degli anni
novanta e poi diventati di uso comune, so-no una faccenda diversa. Sono sostanze si-stemiche, cioè contaminano i semi prima
ancora che siano piantati e raggiungono
ogni parte della pianta matura, compresi il
polline e il nettare con cui potrebbero en-trare in contatto le api. Inoltre possono du-rare molto più a lungo degli altri pesticidi.
Non c’è modo di impedire che le api venga-no esposte ai neonicotinoidi se nelle vici-nanze sono stati usati dei pesticidi. “Abbia-mo prove sempre più abbondanti degli ef-fetti pericolosi dei neonicotinoidi, soprat-tutto se combinati con altri agenti patoge-ni”, spiega Peter Neumann, responsabile
dell’Istituto di salute delle api dell’univer-sità di Berna, in Svizzera.
Paradossalmente, i neonicotinoidi sono
più sicuri per la salute di chi lavora nei cam-pi,  perché  si  distribuiscono  in  modo  più
mirato rispetto alle vecchie classi di pestici-di,  che  invece  si  disperdono  nell’aria.  A
quanto pare, però, le api sono particolar-mente sensibili a queste sostanze. Gli studi
dimostrano che i neonicotinoidi aggredi-scono il sistema nervoso dell’insetto, inter-ferendo  con  le  sue  capacità  di  volo  e  di
orientamento senza ucciderlo subito. “Ci
sono moltissimi studi scientiici sugli im-patti subletali per le api”, dice James Fra-zier, entomologo della Penn state universi-ty. Gli efetti ritardati dell’esposizione spie-gano forse perché le colonie continuano a
morire anno dopo anno nonostante gli sfor-zi degli apicoltori. È come se le api venisse-ro avvelenate poco alla volta.
La tentazione di scaricare la colpa della
moria delle api sui neonicotinoidi è forte.
La difusione di questi pesticidi coincide
più o meno con il picco dello spopolamento
e, in in dei conti, i neonicotinoidi servono
proprio a uccidere gli insetti. Le sostanze
chimiche sono onnipresenti: secondo uno
studio  recente,  il  polline  delle  api  viene
contaminato, in media, da nove diversi pe-sticidi e fungicidi. Ma soprattutto, se il pro-blema sono i neonicotinoidi, la soluzione è
semplice: vietarli. È quello che ha deciso di
fare quest’anno la commissione europea,
sospendendo per due anni l’uso di alcuni
neonicotinoidi. L’Epa sta studiando una
revisione dei neonicotinoidi, ma probabil-mente non li vieterà, anche perché le prove
non sono deinitive. In Australia, per esem-pio,  gli  apicoltori  sono  stati  risparmiati
dall’Ssa anche se usano i neonicotinoidi,
mentre la Francia continua a perdere api
pur avendo introdotto severe restrizioni
sull’uso dei pesticidi in dal 1999. I produt-tori di pesticidi sostengono che il livello at-tuale  di  esposizione  ai  neonicotinoidi  è
troppo basso per essere la causa principale
dello spopolamento. “Abbiamo usato gli
insetticidi per anni”, dice Randy Oliver, un
apicoltore che ha fatto ricerche in proprio
sull’Ssa. “Non sono così convinto che sia il
problema principale”.
Territorio ostile
Anche se i pesticidi sono in cima alla lista
dei sospettati della morte delle api, ce ne
sono altri. Gli apicoltori, per esempio, si so-no sempre dovuti difendere dall’American
foulbrood o peste americana (una malattia
batterica che uccide le api durante lo svi-luppo) e dal piccolo coleottero degli alveari,
che infesta le colonie. La guerra più lunga e
sanguinosa, tuttavia, è quella contro la Va r-roa destructor, un microscopico acaro che
scava tra le celle in cui si trovano le larve.
L’acaro è provvisto di una lingua ailata e
biforcuta capace di bucare l’esoscheletro e
di succhiare l’emolinfa, l’equivalente del
sangue negli insetti. E poiché la Varroa è in
grado di difondere una serie di altre malat-tie – per le api è come una specie di ago ipo-dermico – un’infestazione incontrollata di
acari può provocare la morte dell’alveare in
pochissimo tempo.
La Varroa è comparsa per la prima volta
negli Stati Uniti nel 1987, probabilmente
difusa dalle api infette importate dal Suda merica, e da allora ha sterminato miliardi
di api. Le contromisure usate dagli apicol-tori, come gli acaricidi chimici, hanno fun-zionato solo in parte. “Quando è arrivata la
Varroa abbiamo dovuto cambiare modo di
lavorare”, spiega Jerry Haeys, responsabile
commerciale del settore api della Monsan-to. “Non è facile ammazzare un piccolo in-setto che sta sopra un insetto più grande”.
Altre ricerche puntano su infezioni fun-gine come il parassita Nosema ceranae. Ma
anche in questo caso le prove non sono ri-solutive: alcuni alveari falcidiati dall’Ssa
mostrano segni di funghi, acari o virus, altri
no. Qualche apicoltore è scettico sull’esi-stenza di una causa scatenante, e sostiene
che l’Ssa sia imputabile a quella che viene
chiamata scherzosamente Ppb, piss-poor
beekeeping (apicoltura da due soldi): sareb-bero cioè gli apicoltori a non essere più ca-paci di badare alla salute delle loro colonie.
Efettivamente non tutti gli apicoltori han-no subìto perdite catastroiche, ma lo spo-polamento è un fenomeno talmente dura-turo e generalizzato che prendersela con le
vittime sembra una cattiveria. “Ho allevato
api per decenni”, dice Doan. “Non è che
improvvisamente nel 2006 mi sono dimen-ticato come si fa”.
Bisogna anche tenere presente che gli
apicoltori vivono in un paese sempre meno
ospitale per le api. Per sopravvivere, gli in-setti hanno bisogno di iori e spazi inconta-minati dove procurarsi il cibo. Da questo
punto di vista l’industrializzazione del si-stema agricolo ha remato contro, trasfor-mando la campagna in un susseguirsi di
monocolture: campi di mais o semi di soia
che per le api afamate di polline e nettare
sono come un deserto. Con il Conservation
reserve program (Crp) il governo statuni-tense prende in aitto dagli agricoltori al-cuni appezzamenti di terra e li sottrae alla
produzione per preservare i terreni, la lora
e la fauna. Ma dopo l’impennata dei prezzi di alcune colture di base, come il mais e i
semi di soia, gli agricoltori hanno scoperto
che possono guadagnare molto di più semi-nando che aittando i terreni al governo.
Quest’anno solo 10,2 milioni di ettari ver-ranno aittati nell’ambito del programma
Crp, un terzo in meno rispetto al picco mas-simo  del  2007  e  il  livello  più  basso  dal
1988.
Primavera solitaria
I nemici delle api sono molti, ma non siamo
ancora all’apocalisse. Nonostante gli eleva-ti tassi annuali di spopolamento, negli ulti-mi quindici anni il numero delle colonie
presenti negli Stati Uniti è rimasto stabile
intorno ai 2,5 milioni. È un calo signiicativo
rispetto ai 5,8 milioni di colonie del 1946,
ma in questo caso il fenomeno è dovuto più
alla concorrenza del miele importato a bas-so costo e al generale svuotamento delle
campagne negli ultimi cinquant’anni (dal
1935 a oggi il numero di aziende agricole
negli Stati Uniti è passato da 6,8 ad appena
2,2 milioni, nonostante il boom della pro-duzione). Le api hanno una notevole capa-cità di riprodursi, e anno dopo anno gli api-coltori superstiti riescono a ricostituire le
loro colonie anche dopo una forte perdita.
Ma il fardello sta diventando insostenibile.
Dal 2006 sono andati persi circa dieci mi-lioni di alveari, per un costo di circa due
miliardi di dollari. “Possiamo sostituire le
api, ma non possiamo sostituire apicoltori
con quarant’anni di esperienza”, dice Tim
Tucker, vicepresidente della American be-ekeeping federation.
Le api sono molto preziose, ma anche
senza di loro il sistema alimentare non crol-lerebbe. I prodotti che formano la spina
dorsale della nostra dieta – granaglie come
mais, grano e riso – si autoimpollinano. I
nostri pasti però sarebbero molto più grigi,
e soprattutto molto meno nutrienti, senza
mirtilli, ciliegie, angurie, lattuga e tante al-tre piante che diicilmente sarebbero in
commercio senza l’impollinazione delle
api. Potrebbero esserci delle soluzioni al-ternative. Nel sudest della Cina, dove le api
selvatiche sono quasi tutte morte a causa
dell’uso esteso dei pesticidi, gli agricoltori
impollinano faticosamente a mano peri e
meli  con  dei  pennelli.  Alcuni  studiosi
all’università di Harvard stanno testando
delle minuscole api robotiche che un gior-no potrebbero riuscire a impollinare. Per
ora nessuna delle due soluzioni è tecnica-mente o economicamente praticabile. Il
governo potrebbe fare la sua parte impo-nendo restrizioni più severe sui pesticidi,
soprattutto durante la stagione della semi-na. Si potrebbe dare maggior sostegno al
programma Crp per interrompere le mono-colture che sofocano le api. E ognuno di
noi può dare il suo contributo piantando
iori in giardino ed evitando di usare pesti-cidi. Secondo Dennis vanEngelsdorp, uno
scienziato dell’università del Maryland che
studia l’Ssa in dalla sua comparsa, gli Stati
Uniti sono afetti da “sindrome da deicit
naturale” e le api ne fanno le spese.
Ma la realtà è che, a meno di una trasfor-mazione radicale dei sistemi di produzione
alimentare, negli Stati Uniti le diicoltà per
gli apicoltori non diminuiranno. Oggi nel
paese ci sono più di 1.200 pesticidi registra-ti, e nessuno si illude che diminuiranno di
molto. È più probabile che saranno le api
domestiche e i loro parassiti ad adattarsi al
sistema agricolo. La Monsanto sta lavoran-do a una tecnologia di interferenza dell’Rna
capace di uccidere l’acaro Varroa interrom-pendone l’espressione genica. Il risultato
sarebbe un meccanismo di autodistruzione
della specie, un’alternativa di gran lunga
preferibile agli acaricidi tossici e spesso
ineicaci che gli apicoltori sono stati co-stretti a usare. Intanto, un gruppo di ricer-catori  dell’università  di  Washington  sta
mettendo in piedi quella che probabilmen-te sarà la più piccola banca dello sperma al
mondo: un magazzino di genomi delle api
che saranno usati per creare una specie di
ape domestica più resistente incrociando le
28 sottospecie riconosciute dell’insetto in
tutto il mondo.
Gli  apicoltori  si  sono  già  adeguati  ai
nuovi rischi del mestiere, investendo di più
per dare un’aggiunta alimentare alle loro
colonie. Questo ha fatto lievitare i costi, e
alcuni  studiosi  temono  che  sostituire  il
miele con lo zucchero o lo sciroppo di mais
possa compromettere la capacità delle api
di combattere le infezioni. Ma per gli api-coltori, ormai alla deriva in una specie di
landa desolata nutrizionale, non c’è molta
altra scelta. L’apicoltura rischia di somiglia-re sempre di più al settore agroalimentare
di cui fa parte: meno operatori, e aziende
più grandi capaci di generare abbastanza
ricavi per pagare le attrezzature e le tecno-logie necessarie a sopravvivere in un am-biente ostile. “Alla ine alleveremo le api
come facciamo con il bestiame, i maiali e i
polli: le terremo rinchiuse e gli porteremo
da mangiare”, dice Oliver, l’apicoltore che
ha fatto ricerche in proprio. “Le metteremo
all’ingrasso”.
È uno scenario che nessun apicoltore al
mondo vorrebbe vedere. Ma forse è l’unico
modo per tenere in vita le api domestiche.
E in quando ci saranno mandorle, mele,
albicocche e altre varietà di frutta e verdura
che hanno bisogno dell’impollinazione – e
in quando ci saranno agricoltori disposti a
pagare per il servizio – gli apicoltori se la ca-veranno.
Dunque se l’ape domestica sopravvivrà,
probabilmente sarà diversa da quella che
abbiamo conosciuto per secoli. Ma c’è di
peggio. Se negli ultimi tempi l’attenzione si
è concentrata soprattutto sulle api domesti-che commerciali, una sorte ancora peggio-re è toccata ad altri insetti selvatici. A giu-gno del 2013 in Oregon sono morti 50mila
bombo dopo che un’impresa di architettura
del paesaggio ha spruzzato dell’insetticida
sugli alberi, causando il più grande stermi-nio  di  massa  che  si  ricordi.  A  differenza
dell’ape domestica, il bombo non può con-tare sull’aiuto e le cure umane. Ogni anno
muoiono in tutto il mondo ino a centomila
specie animali, quasi sempre nel silenzio e
nell’indifferenza  generale.  È  quello  che
succede quando una specie, la nostra, di-venta  talmente  dominante  da  soffocare
tutte le altre. Non siamo all’alba di una se-conda primavera silenziosa. Sentiremo an-cora nelle orecchie il ronzio delle api messe
all’ingrasso. Ma gli esseri umani e le poche
specie ancora nelle sue grazie potrebbero
scoprire di essere diventati più soli. u fa



Il pesticida
che non muore mai
George Monbiot, The Guardian, Regno Unito


Gli efetti dei neonicotinoidi
sull’ambiente non sono
ancora del tutto noti. Eppure
continuiamo a usarli



neonicotinoidi sono il nuovo ddt:
un tipo di veleni per i quali è stato
autorizzato un ampio uso prima
ancora che fossero completa-mente testati e che ora stanno attac-cando il mondo naturale. A ulteriore
dimostrazione del vecchio detto che
chi non impara dalla storia è destinato
a ripeterla.
Solo oggi, quando ormai i neonico-tinoidi sono gli insetticidi più usati al
mondo, cominciamo a capire tutti i loro
efetti. Le aziende che producono i
neo nicotinoidi, come quelle che fabbri-cavano il ddt, hanno dichiarato che
queste sostanze tossiche erano state
ideate per combattere determinate
specie ed erano dannose solo per quel-le. Come le aziende che fabbricavano il
ddt, hanno minacciato le persone che
esprimevano dubbi, hanno pubblicato
smentite e fatto tutto quello che pote-vano per ingannare l’opinione pubbli-ca. Come a voler garantire che la storia
si ripetesse, alcuni governi hanno colla-borato con loro. E uno dei più colpevoli
è stato quello del Regno Unito.
Come dimostra il professor Dave
Goulson nella sua analisi sull’impatto
di questi pesticidi, non sappiamo quasi
nulla di come agiscono sulla maggior
parte delle forme di vita. Ma con l’accu-mularsi delle prove, gli scienziati han-no cominciato a scoprire gli efetti su
una vasta gamma di animali e piante
selvatiche.
Ormai quasi tutti sono a conoscen-za delle ricerche che indicano i neoni-cotinoidi come principali responsabili
della scomparsa delle api e di altri
agenti impollinatori. Questi insetticidi
vengono spruzzati sui semi e rimango-no nelle piante uccidendo gli insetti che le
mangiano. La quantità necessaria per di-struggere gli insetti è incredibilmente pic-cola, perché questi veleni sono diecimila
volte più potenti del ddt. Alle api basta in-gerire cinque nanogrammi della sostanza
per avere il 50 per cento di probabilità di
morire. Come le api, anche le siridi, le
farfalle, le falene, i coleotteri e altri agenti
impollinatori si nutrono dei iori trattati e
sembrano in grado di assorbire una quan-tità di pesticida suiciente a compromet-tere la loro sopravvivenza.
Solo una piccola parte dei neonicoti-noidi usati dagli agricoltori entra nel polli-ne o nel nettare dei iori. Dagli studi con-dotti inora risulta che quando si trattano i
semi, solo una percentuale di pesticida
che va dall’1,6 al 20 per cento viene assor-bita dalle piante, molto meno che quando
la sostanza viene spruzzata sulle foglie.
Una parte del residuo vola via in forma di
polvere, che probabilmente danneggia
molte popolazioni di insetti che vivono
nelle siepi e negli habitat circostanti. Ma la
maggior parte, secondo Goulson “più del
90 per cento”, penetra nel terreno. In altre
parole, la realtà è molto diversa dall’im-pressione che vogliono dare i produttori
continuando a deinire il trattamento dei
semi con i pesticidi “preciso” e “mirato”.
I neonicotinoidi sono sostanze chimi-che molto persistenti. Secondo i pochi stu-di pubblicati inora, possono rimanere nel
terreno ino a 19 anni. E dato che sono così
poco degradabili, è probabile che si accu-mulino, rendendo il terreno sempre più
tossico.
Nessuno sa cosa fanno questi pesticidi
quando sono nel terreno, perché non sono
state ancora condotte ricerche suicienti.
Ma, dato che a bassissime concentrazioni
sono letali per tutti gli insetti e forse anche
per altre specie, con tutta probabilità di-struggono una buona parte della fauna del
terreno. Anche i lombrichi? E gli uccelli e i
mammiferi che mangiano i lombrichi? O
magari anche gli uccelli e i mammiferi che
mangiano gli insetti o i semi trattati?
Non possiamo ancora dirlo. Li stiamo
usando alla cieca. I nostri governi li
hanno approvati senza avere la più pal-lida idea di quali sarebbero state le con-seguenze.
Forse avete avuto l’impressione che
i neonicotinoidi siano stati vietati
dall’Unione europea. Ma non è vero.
L’uso di alcuni di questi pesticidi è stato
sospeso per due anni, e solo a certi sco-pi. A sentire i legislatori, potreste esse-re tentati di credere che gli unici ani-mali che colpiscono sono le api, e che
l’unico modo in cui le api possono mo-rire è mangiando i iori delle piante
trattate.
Ma i neonicotinoidi vengono anche
spruzzati sulle foglie di molte piante da
raccolto. E vengono sparsi in granuli
sui pascoli e nei parchi per uccidere gli
insetti che vivono nel terreno e che
mangiano le radici dell’erba. Queste
applicazioni, e molte altre, sono legali
nell’Unione europea, anche se non co-nosciamo la gravità dei loro possibili
efetti. Ma ne sappiamo abbastanza per
capire che probabilmente sono deva-stanti.
Dai semi all’acqua
Naturalmente non tutti i neonicotinoi-di che penetrano nel terreno ci riman-gono all’ininito. Sarete sollevati di sa-pere che alcuni vengono portati via
dall’acqua. E quindi iniscono nelle
falde sotterranee e nei iumi. Cosa
succede quando sono lì? E chi lo sa.
Non sono neanche elencati tra le so-stanze che devono essere monitorate
in base alla direttiva dell’Ue sulle reti
idriche, perciò non abbiamo un’idea
chiara di quali siano le loro concentra-zioni nell’acqua che noi e molte altre
specie consumiamo.
Ma uno studio condotto nei Paesi
Bassi dimostra che una parte dell’ac-qua che lascia le zone coltivate è così
pesantemente contaminata da questi
pesticidi che potrebbe essere usata per
eliminare i pidocchi. Lo stesso studio
dimostra che anche a concentrazioni
molto più basse, non superiori ai limiti
stabiliti dall’Ue, i neonicotinoidi che i-niscono nei sistemi luviali spazzano
via metà delle specie invertebrate che
ci aspetteremmo di trovare. Il che si-gniica che cancellano buona parte del-la rete alimentare. u

Nessun commento:

Posta un commento