giovedì 3 ottobre 2013

Inchiesta - Cacciatori di dinosauri - Brett Forrest, Playboy, Stati Uniti Foto di Louie Psihoyos

Il deserto del Gobi è ricco di fossili preistorici di
grandi dimensioni molto ben conservati. Portarli
fuori dalla Mongolia è illegale, ma sul mercato
nero valgono milioni


hinzo riesce a farsi strada
nel labirinto, e io lo seguo.
In Mongolia, a dicembre,
la temperatura scende a
-36, e Ulan Bator è la capi-tale più fredda del mondo.
Chinzo – magro, poliglotta e autodidatta – è
il mio factotum locale, e sa come muoversi
nel mercato di Narantuul. È un luogo che sa
di illecito, un disordinato bazar di frontiera
pieno di merci ed espressioni russe e cinesi.
Scivoliamo  sulle  stradine  ghiacciate  del
mercato passando accanto a venditori av-volti nelle loro pellicce e con stivali di feltro
ai piedi. Vendono artigli di orso, sostanze
medicinali, munizioni, reggiseni color fuc-sia, teste di avvoltoi. Il mio respiro si cristal-lizza sulla pelliccia nera del mio colletto,
che diventa grigio. Le persone si muovono
lente e goffe, spintonandosi intorno alle
merci. Tutto questo a suggerire la nascita
del commercio illegale di fossili di dinosau-ri, la corsa frenetica al tesoro nascosto nel
suolo mongolo.
Seguo Chinzo ino a una bancarella die-tro a un camion arrugginito, dove la folla si
assottiglia. Bisbiglia qualcosa a un uomo
che conta un fascio di tugrik, la moneta lo-cale. Sul banco sono schierate miniature di
cammello in peltro insieme a medaglie mi-litari sovietiche e svastiche di metallo. Si
alza un vento tagliente che spazza i banchi
del mercato. Il venditore guarda Chinzo ne-gli occhi e gli spiega che il processo di New
York ha cambiato tutto. Uno statunitense
rischia 17 anni di prigione per aver contrab-bandato ossa di dinosauro dalla Mongolia.
Anche noi siamo qui a caccia di ossa. Ma i
trafficanti  di  fossili  sono  spaventati,  e  il
mercato nero è diventato ancora più clan-destino. Se veramente vogliamo comprare
fossili di dinosauro, dice una voce, dovrem-mo andare nel deserto del Gobi, lungo la
frontiera con la Cina. È lì che si muovono le
cose. L’uomo dà a Chinzo un numero di te-lefono, dicendo che possiamo fare un tenta-tivo. Chinzo chiama. “Ho un cranio”, dice
l’uomo all’altro capo del ilo. “Non posso
fartelo vedere subito. Incontriamoci doma-ni. Ora sto giocando a poker”. C’è qualcosa
da comprare.
Sono venuto in Mongolia per lo stesso
motivo di quasi tutti i viaggiatori che si spin-gono in qui: il gusto dell’avventura. Il più
grande deposito di carbone vergine al mon-do, le più ricche miniere di rame e d’oro an-cora da sfruttare si trovano qui, nel deserto
del Gobi. Ma non sono un minatore. Quello
che mi interessa è l’altra risorsa naturale
della zona: uno dei più ricchi giacimenti di

fossili di dinosauro al mondo. Esportare
queste ossa è illegale, ma chi lo ha fatto le ha
vendute per cifre a sei e perino sette zeri.
Mi ingo un acquirente, raccontando che ho
intenzione di trasportare i fossili oltre la
frontiera  settentrionale,  dove  aspettano
degli acquirenti russi, usando la ferrovia.
Questo materiale preistorico venne alla
luce negli anni venti del novecento grazie a
uno scienziato statunitense, Roy Chapman
Andrews. Alcuni sostengono che Andrews
abbia ispirato il personaggio di Indiana Jo-nes. Avventuriero spericolato e uno dei pri-mi direttori dell’American museum of na-tural history, Andrews ha avuto un ruolo
fondamentale nella storia della paleontolo-gia. Quando si avventurò per la prima volta
in Mongolia, l’Asia centrale era diicile da
raggiungere quasi quanto il Polo Nord. Nel
1922 scoprì una grande zona rocciosa a for-ma di U nel deserto del Gobi, che sarebbe
diventata uno dei siti più importanti della
paleontologia. “Il luogo era quasi intera-mente ricoperto di ossa”, scrisse in seguito
Andrews, “che appartenevano ad animali a
noi del tutto sconosciuti...il grande bacino
con i suoi splendidi bastioni scolpiti si sa-rebbe rivelato il luogo più importante del
mondo per la paleontologia. Noi lo ribattez-zammo Flaming Clifs.”
Nelle loro cinque spedizioni nel deserto
del Gobi, Andrews e la sua squadra scopri-rono molte nuove specie di dinosauri, tra
cui il protoceratops, l’oviraptor e il veloci-raptor. E sempre a Flaming Clifs furono i
primi a trovare un uovo di dinosauro.
Nel 1924 la Mongolia divenne comuni-sta, e il Gobi fu chiuso agli stranieri. I pale-ontologi occidentali poterono tornare solo
nei primi anni novanta, quando il paese im-boccò la strada delle riforme. Attirati dal
ricco giacimento di fossili di dinosauro nel
Gobi, gli scienziati ingaggiavano gli abitan-ti del posto come autisti e facchini oppure
per scavare e andare in ricognizione. Gli
scienziati trovavano un fossile dopo l’altro,
mentre i loro aiutanti mongoli li osservava-no e imparavano lezioni preziose: come in-dividuare e riconoscere le ossa di dinosau-ro, come estrarle dal terreno e, soprattutto,
come stringere amicizia con gli stranieri.
Nella zona si aggiravano parecchi estranei
con le tasche profonde, non scienziati ma contrabbandieri. Il commercio internazio-nale di fossili mongoli, di fatto un mercato
nero, diventò uno dei inti segreti della pa-leontologia.
Qualcosa di grande
“Scendi”,  mi  dice  Chinzo  al  telefono.  È
mezzanotte  passata.  Esco  dall’apparta-mento e l’unica cosa che si muove è il gas di
scarico della jeep parcheggiata in fondo alla
strada. Dietro al volante, sulla destra della
vettura, un vecchio volta la testa per darmi
un’occhiata mentre mi siedo sul sedile po-steriore e fa una smoria. I solchi del suo
volto si piegano l’uno sull’altro come un sof-ietto. È l’uomo a cui abbiamo telefonato
prima. La sua partita di poker è inita.
Chinzo siede accanto a me e l’auto attra-versa silenziosamente Ulan Bator, immersa
nel sonno. Percorriamo strade piene di bu-che, con il fumo dei falò di carbone che si
avvolge in spirali sotto i lampioni che ci gui-dano ino al conine della città. Quella pre-cedente era stata una giornata piena di av-venimenti. Dietro una ila di negozi sul viale
della pace avevamo incontrato un uomo.
Seduto nel retro del fuoristrada di Chinzo,
aveva tirato fuori dalla giacca una confezio-ne di assorbenti da cui aveva estratto un
oggetto rossastro di una ventina di centi-metri dalla forma allungata, ruvido e rigato.
Era un uovo di teropode, un dinosauro car-nivoro. L’uovo pesava circa cinque chili, me
l’ero fatto rotolare tra le mani. Aveva alme-no 65 milioni di anni, ed eccolo lì, ancora
intatto. “Cerchiamo qualcosa di più gran-de”, aveva detto Chinzo all’uomo.
Per questo siamo sulla jeep, a caccia di
qualcosa di davvero grande. L’autista si av-vicina a una cancellata di metallo e suona il
clacson. Superiamo il cancello ed entriamo
in  un  cortile  pieno  di  scarti  industriali.
Usciamo dall’auto. Il freddo pungente fa
girare la testa. Il vecchio ci porta ino a un
container in un angolo del recinto. Si mette
una torcia tra i denti e armeggia con il chia-vistello. I nostri passi rimbombano nel vano
metallico del container, pieno di scatole
con etichette in caratteri cinesi e cirillici. A
un tratto il vecchio aferra un piede di porco.
Mi accorgo che l’ubriaco che ci ha aperto il
cancello adesso è piazzato tra noi e l’uscita
del container. Il vecchio impugna il piede d porco. Io lancio un’occhiata a Chinzo, ma il
suo viso non lascia trapelare nulla.
Il vecchio ci volta le spalle. Punta l’estre-mità acuminata del piede di porco nel co-perchio di una cassa lunga un metro e mez-zo e alta più o meno un metro, poi fa leva e
forza il coperchio. La cassa è piena di sabbia
e il vecchio comincia a raschiarla facendola
cadere sul pavimento. Appare lentamente
una forma. C’è qualcosa dentro. Il vecchio
prende l’oggetto con due mani e lo estrae
dalla scatola con un certo sforzo. È un cra-nio di dinosauro. Mandibola e denti non ci
sono più, ma le orbite oculari e la cavità na-sale sono evidenti. Il cranio è lungo più di
un metro e largo quasi 70 centimetri. Il vec-chio fatica a sollevarlo e poi lo appoggia su
un secchio staccando una scheggia di osso
che cade sul pavimento. Esamino il reperto
e prendo le misure. “Venticinque milioni di
tugrik”, dice il vecchio, circa 18mila dollari.
Io esito. La voce dell’uomo rimbomba nel
container. Vogliamo qualcosa di più gran-de? Dice di avere un contatto per noi nel
deserto del Gobi, vicino a Flaming Clifs.
Il commercio delle ossa di drago
Erik Prokopi è il motivo per cui il mercato
nero di fossili di dinosauri è diventato anco-ra più clandestino. A un mondo di distanza
da Ulan Bator e dal deserto del Gobi, due
giorni dopo il Natale del 2012, Prokopi è en-trato nell’aula 5A del tribunale distrettuale
a  Pearl  Street,  Manhattan.  Quel  giorno
l’avevo  visto  entrare  in  aula.  Aveva  l’ab-bronzatura di chi vive in un clima tropicale
e indossava un abito nero con la camicia
bianca ma senza la cravatta, come se la cor-te non meritasse eccessive perdite di tempo
davanti allo specchio. Lo avevano già di-sturbato abbastanza. Il 17 ottobre la polizia
aveva arrestato Prokopi nella sua casa di
Gainesville, in Florida. Ora rischiava 17 an-ni  di  prigione.  Prokopi  si  era  definito  un
“paleontologo commerciale”. Non era uno
scienziato, e non aveva nessuna formazio-ne speciica in materia di scavi e di dinosau-ri. Eppure, come altri protagonisti di quello
che a volte viene chiamato il “commercio
delle ossa di drago”, Prokopi aveva viaggia-to in Mongolia e in tutto il mondo alla ricer-ca di fossili da spedire a casa sua in Florida.
Poi li ripuliva, li montava su strutture me-talliche che realizzava da solo e li vendeva
sul mercato dei fossili, in continua espan-sione, dove gli esemplari più belli raggiun-gevano quotazioni di milioni di dollari.
 Quel mercato è particolarmente lorido
a Tucson, in Arizona, a un centinaio di chi-lometri dalla frontiera messicana, dove si
svolge la Fiera dei minerali e delle gemme L’evento  si  tiene  ogni  anno  dal  1954  ed
espone ampie collezioni di diamanti, rocce
e fossili, richiamando ogni genere di cerca-tori, scienziati, contrabbandieri e cacciatori
di ossa. Prokopi era un habitué della iera di
Tucson. Qui aveva saputo dei fossili mon-goli, socializzando con i cacciatori di ossa
internazionali che mostravano apertamen-te i tesori del Gobi. Ben presto Prokopi ave-va cominciato a presentarsi a Tucson con
ossa mongole che si era procurato da solo.
All’inizio del 2012 ha consegnato uno sche-letro quasi intatto di Tarbsaurus bataar alla
Heritage auctions, una casa d’aste di Dallas
che si vanta di avere il più alto numero di
pezzi da collezione del mondo. Il T. bataar,
noto anche come tarbosauro, visse nell’ul-tima epoca dei dinosauri, circa 70 milioni di
anni fa, alla ine del cretaceo. Per gli scien-ziati il tarbosauro è il cugino asiatico del
Tyrannosaurus rex, pressoché identico tran-ne alcune piccole diferenze. Prokopi si era
messo in contatto con Heritage tramite Da-vid Herskowitz, il capo della divisione di
storia naturale della casa d’aste che aveva
conosciuto alla iera di Tucson.
 Il deserto del Gobi è l’unico luogo dove
è stato trovato il T. bataar. Dalla testa alla
coda, un adulto misurava ino a 12 metri e
aveva ben 64 denti, alcuni lunghi anche più
di dieci centimetri. Era il predatore princi-pale del Gobi. Il tarbosauro di Prokopi era
giovane e aveva un’altezza di due metri e
mezzo, ma era comunque abbastanza gran-de da suscitare scalpore. Qualunque pale-ontologo avrebbe potuto dire a Heritage da
dove venivano le ossa di Prokopi. Le ricer-che  approssimative  della  casa  d’aste  per
accertare  la  provenienza  del  dinosauro
hanno messo a nudo la faciloneria che da
anni caratterizza questo settore. “Prokopi
faceva il mercante da più di dieci anni e ave-va  una  buona  reputazione”,  mi  ha  detto
Greg Rohan, il presidente di Heritage auc-tion. “Ci aveva garantito per iscritto di ave-re le carte in regola. Era una bugia spudora-ta e ora la sta pagando”. Il tarbosauro di
Prokopi doveva andare all’asta nel maggio
del 2012. Fino a quel momento i paleontolo-gi  avevano  scoperto  solo  una  ventina  di
esemplari di tarbosauro intatti, perciò la
sua comparsa in un’asta pubblica ha risve-gliato la comunità scientiica. Mark Norell,
presidente del dipartimento di paleontolo-gia all’American museum of natural history
di New York, ha scritto una lettera aperta
per denunciare l’asta e l’ha spedita a una
lunga  lista  di  nomi  influenti  in  ambito
scientiico e dell’informazione.
 A Ulan Bator i leader politici stavano
adottando misure ancora più decise. Oiun-gerel Tsedevdamba, laureata a Stanford,
lavorava come consulente del presidente
mongolo, Tsakhiagiin Elbegdorž. Quando
ha saputo dell’asta, Tsedevdamba ha tele-fonato a Elbegdorž. “Perché mi telefoni per
dei dinosauri?”, le ha chiesto il presidente.
Tsedevdamba ha risposto che era in gioco
la sovranità mongola. “I fossili sono protet-ti dalla costituzione”, ha spiegato. “Sono un
pezzo del nostro territorio. Appartengono a
noi”. Nel 2012 in Mongolia erano in pro-gramma le elezioni legislative, e il dinosau-ro di Prokopi poteva scatenare un dibattito
sull’identità  nazionale,  con  al  centro
Elbegdorž e il suo partito. Elbegdorž pensò
che era il momento di prendere una posi-zione simbolica a livello internazionale.
Il 20 maggio 2012 il tarbosauro è stato
battuto all’asta a Manhattan per 1,05 milio-ni di dollari e acquistato da un immobiliari-sta di New York, Coleman Burke. Ma Burke
non l’ha mai ricevuto. Gli agenti del diparti-mento della sicurezza interna avevano se-questrato lo scheletro, mentre gli investiga-tori statunitensi e mongoli avevano comin-ciato a indagare sul percorso seguito dal   arbosauro per arrivare ino a Gainesville. Il
registro dell’uicio di frontiera mongolo ha
confermato che Prokopi era stato in Mon-golia nel 2008, nel 2009 e nel 2011. Il princi-pale  investigatore  del  caso  in  Mongolia,
Narankhuu T., mi ha riferito che i partner
locali di Prokopi avevano suddiviso il dino-sauro in diverse casse e lo avevano traspor-tato in camion ino a Ulan Bator, etichettan-do le merci come sale o minerali. Dalla ca-pitale  probabilmente  avevano  spedito  le
casse su voli commerciali per il Giappone.
Dal Giappone avevano mandato il tarbo-sauro in Inghilterra e poi negli Stati Uniti
con documenti di spedizione falsi, e ci sono
voluti mesi per sbrogliare l’intera matassa.
Prokopi aveva passato quasi due anni nella
sua casa di Gainesville pulendo e montan-do  le  ossa  del  tarbosauro  per  formare  lo
scheletro.  Cinque  mesi  dopo  l’asta  della
Heritage gli agenti federali si sono presen-tati a casa sua.
 Hanno arrestato Prokopi con l’accusa
di aver cospirato per importare fossili ille-galmente, aver rilasciato false dichiarazioni
ai funzionari della dogana e aver trasporta-to merci illegali. All’epoca del suo arresto,
la procura generale degli Stati Uniti ha dei-nito  Prokopi  “un  mercato  nero  di  fossili
preistorici formato da un solo uomo”. Co-me spesso accade, il governo aveva frainte-so la questione oppure aveva sopravvaluta-to il caso. La verità era che il mercato nero di
fossili mongoli implicava decine di indivi-dui come Prokopi, che possono agire grazie
al commercio online, a una inadeguata ap-plicazione della legge e alle più grandi case
d’asta del mondo. Ma solo Prokopi era dav-vero in pericolo quando si sono aperte le
porte dell’aula del tribunale. Mentre cam-minava a passi pesanti verso il banco degli
imputati, sembrava un capro espiatorio.
Prendo un volo da Ulan Bator a Dalan-zadgad, il più grande centro abitato del de-serto del Gobi. Ci vivono circa 20mila per-sone, incrostate della polvere dei pozzi mi-nerari e delle tempeste di sabbia. Mentre
ciondolo nel cafè dell’hotel Khan Uul, mi
cade l’occhio sui tre uomini al tavolo accan-to al mio. Hanno gli stivali sporchi di terra e
il tavolo è coperto di bottiglie di birra vuote.
È possibile che abbiano passato la giornata
a scavare cercando ossa, e ascolto la loro conversazione. Due sono australiani, il ter-zo è inglese. L’inglese parla ad alta voce. “Ci
sono tre cose che contano nella mia vita”,
dice. È ubriaco e ha un accento pesante. “Il
calcio ingleeese, la lotteriiia e fumaaare”.
Troppo chiassosi per essere contrabbandie-ri, penso. Devono essere minatori. Mi squil-la il telefono. È Chinzo. Lascio qualche tu-grik  sul  tavolo.  Andando  verso  la  porta,
sento uno degli australiani che dice: “E ma-sturbarsi?”.
Fuori, la città di Dalanzadgad puzza di
fumi di scarico. Un migliaio di ciminiere si
staglia contro il cielo sputando nuvole nere
di polvere di carbone. Il deserto incombe da
ogni lato. In tutta la cittadina sono sparpa-gliati dei motorini, con pelli di capra che ri-coprono il manubrio per proteggere le mani
durante l’inverno. Ogni giorno centinaia di
camion portano migliaia di tonnellate di
carbone da qui alla Cina. Fonti della polizia
mi hanno detto che a volte le ossa di dino-sauro sono sepolte negli strati di minerale
nero. Ma da dove vengono le ossa? E chi può
aiutarci a trovarle? Chinzo ha organizzato
un’escursione fuori città, nel deserto. L’au-to è una UAZ 2206, l’approssimazione russa
di un pullmino della Volkswagen. L’autista,
Bold, è un pafuto ragazzo sui vent’anni. Ci
racconta di essere nato nel Gobi da una fa-miglia di pastori nomadi. “Vedo sempre
quei tizi che cercano ossa”, dice. “Ci sono
anche dei locali come me. Ma non sappia-mo estrarre dal terreno un dinosauro gran-de”. Fa il nome di una famiglia del posto.
Dice che questa famiglia telefonerà a certe
persone di Ulan Bator, ex paleontologi o di-pendenti del museo, gente che sa come sca-vare ed estrarre un fossile di grandi dimen-sioni. “È una famiglia molto pericolosa”,
dice Bold. “Sono della criminalità organiz-zata.  Hanno  le  mani  in  pasta  ovunque”.
Non ci sono strade nel Gobi. Non c’è niente
intorno a noi, solo lo spazio aperto del de-serto.  Passiamo  in  mezzo  a  due  crani  di
mucca nella sabbia: le teste segnano la stra-da. Viaggiamo per tre ore. Alla ine raggiun-giamo  una  yurta,  la  tradizionale  tenda
mongola di feltro a base circolare. Entriamo
da una piccola porta. La famiglia che ci vive
è disposta a darci alloggio per la notte. Ci
sediamo sul pavimento, accanto ai trofei
delle corse dei cammelli sulla credenza. Si sta facendo tardi, è ora di andare a letto. Al-la luce tremolante della candela, l’uomo
della casa tira fuori un fagotto di coperte. Le
srotola, e dentro ci sono molti fossili di di-nosauri, spessi e pesanti, le ossa di un gran-de vertebrato. Cerchiamo qualcosa di più
grande, spiega Chinzo all’uomo. “Un carni-voro”. L’uomo scuote la testa. Non può aiu-tarci. Mi sdraio sotto una coperta di cam-mello  e  spengo  la  candela,  sperando  di
avere più fortuna domani.
La collezione più grande
Nella torretta sudorientale dell’American
museum of natural history, nell’Upper west
side di New York, Mark Norell comincia la
sua giornata di lavoro. Presidente del dipar-timento di paleontologia del museo e tra gli
studosi più importanti di questa scienza,
Norell ha avuto un ruolo fondamentale nel
riaprire la Mongolia agli studi nel 1990. Nel
Gobi ha trovato il primo embrione di tero-pode e ha contribuito alla scoperta dei di-nosauri  piumati.  “Spuntavano  crani  dal
terreno”, ha raccontato nel suo uicio poco
prima della mia partenza per il Gobi. “Oggi
non più. Per sei, sette anni tutto è stato pre-so a martellate dai saccheggiatori. Ho visto
buche scavate malamente nelle montagne,
siti fatti saltare con la dinamite. Abbiamo
trovato ili e detonatori sulla sabbia”. Scetti-co, gli ho chiesto perché tutto questo abbia
importanza, perché i paleontologi dovreb-bero avere un diritto esclusivo sulle ossa
che appartengono alla preistoria. Questo
genere  di  contrabbando  non  danneggia
nessuno, neppure gli animali, morti da un
pezzo. Cosa perdiamo quando un contrab-bandiere strappa un fossile dal terreno? No-rell ha elencato i tanti dati che un paleonto-logo raccoglie in un sito, tra cui campioni
del suolo, informazioni geologiche, analisi
geochimiche,  misurazione  del  polline.
“Questi mascalzoni distruggono il sito e il
suo contesto”, ha spiegato. “Non sono inte-ressati al valore scientiico, ma solo a quello
estetico”. Perdiamo per sempre le informa-zioni sulle tracce evolutive di un fossile, la
possibilità di capire patologie e malattie:
un’istantanea della vita di un animale. Ri-mane solo un oggetto da appendere al mu-ro.
 Secondo Norell, il contrabbando è così
accettato e le misure repressive sono così
deboli che perino i collezionisti seri spesso
non sono consapevoli di quello che compra-no. “Un tizio è venuto a donarci la sua colle-zione”, ha raccontato, “Aveva speso centi-naia di migliaia di dollari. L’ho guardato e
gli ho detto: ‘È illegale. Non posso neppure
esporla in questi locali’. E lui ha replicato: Ma l’ho comprata a Tucson!’”. Norell mi ha
accompagnato sul retro del museo, un de-dalo ammuito di corridoi collegati tra loro.
Siamo entrati nel suo laboratorio, il sancta
sanctorum della collezione di fossili di di-nosauri più grande del mondo. Diversi assi-stenti studiavano una delicata raccolta di
fossili incastonati nel gesso. Sembravano
un mucchio di ossa tirate fuori da un’asciu-gatrice. “Questo è un intero gruppo estratto
da una duna di sabbia che stava crollando”,
ha detto Norell. “Ho visto fossili di questo
ritrovamento a Tucson”.
La prova della lingua
Oltre una porta siamo entrati nella sezione
pubblica del museo. Davanti a noi un uomo
stava portando due bambini nella sala dei
dinosauri saurischi. I bambini si sono fer-mati  a  bocca  aperta,  come  me,  davanti
all’immenso T.   r e x che svettava in mezzo
alla stanza. Norell mi ha indicato un nido di
uova di oviraptor in una vetrina. È uno dei
primi nidi di dinosauro mai scoperti, trova-to da Andrews nel Gobi nel 1923. “Molti so-no mongoli”, ha aggiunto Norell indicando
diversi esemplari con un gesto circolare in-torno alla stanza. “Roy Chapman Andrews
li raccolse negli anni venti. Sono la base del-la collezione del museo”. Penso a Flaming
Clifs e a come doveva essere il posto prima
che i contrabbandieri lo ripulissero.
È ormai giorno quando Bold ci passa a
prendere alla yurta. Un suo amico, Jamyan,
ci aspetta in auto. Dopo un quarto d’ora di
viaggio, il motore si blocca. Bold dice che
siamo abbastanza vicini per proseguire a
piedi. Camminiamo per un po’ sulla sabbia
rossastra del Gobi, con Bold e Jamyan che
ci fanno strada. È una giornata fredda, tersa
e assolata. Ci fermiamo davanti a un muc-chio di sassi. Jamyan muove con attenzione
ogni pietra. Io noto un oggetto bianco che
spunta dalla supericie. È un cranio, spac-cato e un po’ raggrinzito. Il corpo, se c’è, è
sepolto. Bold si inginocchia accanto al cra-nio. Raccoglie quello che sembra un fram-mento  d’osso  e  se  lo  mette  sulla  lingua.
Jamyan ci spiega che è una prova. Se l’osso
resta attaccato alla lingua, vuol dire che è
un fossile di dinosauro. Se non si attacca
alla lingua, signiica che appartiene a un
animale  ancora  in  circolazione.  Il  fram-mento si attacca alla lingua di Bold.
Usando dei ramoscelli, i due uomini co-minciano a scavare intorno al cranio, levan-do la sabbia man mano che vanno avanti.
“Ho sentito che puoi venderne uno per 20
milioni  di  tugrik”,  dice  Bold.  Sono  circa
14mila dollari. “Io voglio comprarmi una
macchina”. I due lavorano intorno al cranio,
togliendo la terra con i ramoscelli e con le
unghie. La polvere mi entra in un occhio, e
mi faccio da parte per toglierla. Quando la
vista torna più chiara, mi accorgo che ci tro-viamo in una zona rocciosa a forma di U.
Sono stato così preso dal fossile sepolto nel
terreno che mi accorgo solo adesso che sia-mo arrivati a Flaming Clifs. Torno a guar-dare il fossile. È chiaro che Bold e Jamyan
non  hanno  gli  strumenti  e  le  capacità  di
estrarlo dal terreno. Senza aiuto inirebbero
per distruggerlo. Anche Bold lo sa. Frustra-to, si arrende e si lascia rotolare sulla schie-na.  Urla  al  cielo:  “Voglio  una  macchina
nuova!”. Osservo i dintorni. Ora capisco
cosa dev’essere stato Flaming Clifs per An-drews e per il T. bataar. E capisco anche che
la  mia  ricerca  è  finita.  Mi  ha  portato
nell’epoca dei dinosauri ai tempi degli esse-ri umani. u gc



Nessun commento:

Posta un commento