sabato 30 novembre 2013

1028 - SCIENZA - L’ora di casa - Cara Parks, Aeon, Regno Unito Foto di Quentin Bertoux Una giornalista statunitense ha viaggiato per il mondo senza mai spostare l’orologio dal fuso orario di New York. E racconta cosa ha imparato sui ritmi circadiani

P
oche cose scatenano l’ango-scioso  senso  di  colpa  che
provo ogni volta che mi sve-glio alle tre del pomeriggio.
Appena leggo l’ora sul cel-lulare provo un brivido di
vergogna, come se mi ricordassi di aver be-vuto un bicchiere di troppo la sera prima.
Ho sprecato tempo e ho dimostrato ai miei
simili quanto sono pigra. Potrei anche tirar-mi di nuovo il lenzuolo sulla testa e ingere
che la giornata non sia mai cominciata.
Da qualche tempo conosco in troppo
bene questa sensazione. Spesso non sento
la sveglia e continuo a dormire, ino a po-meriggio inoltrato. E non (solo) perché sono
una giornalista pigra. Mi sto sottoponendo
a un esperimento molto poco scientifico
che consiste nel dissociare i miei ritmi cir-cadiani  dal  normale  ciclo  notte-giorno.
All’inizio di quest’anno ho lasciato il mio
posto isso di redattrice per viaggiare e lavo-rare come freelance. Il mio compagno col-labora con un sito di notizie che gli consente
di passare lunghi periodi lontano dall’ui-cio. Ci siamo resi conto che potevamo vive-re dovunque – purché rimanessimo entro il
fuso orario della costa orientale degli Stati
Uniti – così abbiamo annullato il contratto
d’aitto della nostra casa, messo i mobili in
un deposito e cominciato a prenotare voli.
Avremmo dovuto alzarci alle 7 di matti-na e andare a letto a mezzanotte Eastern
standard time (Est), con un po’ più di lessi-bilità durante il weekend. Questo signiica-va che potevamo esplorare l’Europa occi-  dentale, alcune parti del Nordafrica, il Su-damerica e l’America Centrale (l’Asia e tutto
l’oriente erano fuori questione, perché sarei
diventata praticamente un vampiro). Chi
non avrebbe sopportato il piccolo fastidio di
un cambio di ritmi per avere la possibilità di
vedere tante cose?
E così abbiamo cominciato a viaggiare.
Ci siamo fermati a Lisbona (Est + 5 ore) per
un  mese:  mi  svegliavo  a  mezzogiorno  e
scendevo come uno zombie a prendere il
cafè. Su una spiaggia del Paciico nordocci-dentale (-3), mi alzavo prima dell’alba, e a
Parigi (+ 6) mi lavavo i denti alle sei di mat-tina, non per mettermi a lavorare ma per
andare a letto. Quando siamo tornati a New
York (0) per qualche settimana, ho ripreso i
normali ritmi sociali. Tra poco partirò per
Barcellona (+ 6) e poi per Buenos Aires (+
1). L’esperienza che sto vivendo si chiama
discronia circadiana, in pratica sono indi-pendente dal giorno solare.
La battaglia del jet lag
Quando sono partita per il mio primo viag-gio sapevo poco dei ritmi circadiani e del
sonno in generale. Nel 1729 l’astronomo
francese Jean-Jacques Dortous de Mairan
fu uno dei primi scienziati a osservare que-sti cicli biologici. Mentre scriveva si accorse
che la sua mimosa ripiegava le foglie per la
notte e decise di veriicare se la pianta aveva
un orologio interno tenendola nell’oscurità.
Nel suo libro Internal time Till Roenneberg,
docente di cronobiologia a Monaco di Ba-viera e presidente della Federazione mon  diale delle società di cronobiologia, descri-ve il risultato di quell’esperimento. Anche
se privata della luce naturale, “evidente-mente la pianta ‘conosceva’ la posizione del
Sole e ‘sapeva’ quando era giorno e quando
era notte. Ogni mattina, poco prima dell’al-ba, le sue foglie si aprivano, e ogni sera, po-co prima che il Sole tramontasse, si ripiega-vano di nuovo”. I suoi cicli interni erano in-dipendenti dal mondo esterno. Ma fu solo
negli  anni  cinquanta  del  novecento  che
Franz Halberg, uno dei fondatori della cro-nobiologia – lo studio di questi cicli – intro-dusse il termine “circadiani” per deinire i
ritmi biologici interni. Nello stesso periodo
fu scoperto il sonno rem, si cominciò a com-prendere meglio la natura del sonno stesso
– che non è un blocco unico ma è costituito
da una serie di fasi –, si arrivò a una deini-zione dell’apnea notturna e si scoprirono le
proprietà della melatonina. Fu un periodo
molto attivo per il sonno.Dormiamo per circa un terzo della no-stra esistenza. Nonostante il ruolo fonda-mentale che il sonno svolge nella nostra vi-ta, non avevo pensato che modiicare ogni
poche settimane il mio ritmo sonno-veglia
rispetto  al  giorno  solare  avrebbe  potuto
avere delle conseguenze.
Quando sono arrivata a Lisbona con gli
occhi rossi per la stanchezza dopo il volo da
New York, sono uscita dall’aeroporto sul
piazzale assolato. Sulla costa orientale degli
Stati Uniti erano le 3.20 del mattino, lì erano
le 8.20. Quando i miei occhi hanno visto il
Sole, il mio cervello ha deciso che doveva
ancora essere il giorno prima. Da quel mo-mento tra me e il mio corpo è cominciata
una silenziosa battaglia per stabilire quali
dovessero essere le normali ore di sonno.
Sapendo di dover rimanere sveglia ino alle
5 del mattino locali, cercai di fare un pisoli-no, ma il mio corpo opponeva resistenza,
sostenendo che dovevo aspettare ino al po-meriggio. La camera da letto aveva una por-tafinestra coperta da tende leggerissime
che ondeggiavano al vento e lasciavano ar-rivare fasci di luce sul letto. Di solito chi
viaggia conosce i sintomi del jet lag e cerca
di adattarsi ai nuovi orari prima possibile. Io
invece avevo sperato che il jet lag mi avreb-be aiutato a non adattarmi a ogni nuova al-ternanza tra luce e buio. Ma quella stanza
illuminata la pensava diversamente.
Il termine jet lag fu coniato intorno al
1966. Fino a quel momento i lenti viaggi in
nave attraverso l’Atlantico o le cavalcate at-traverso l’Asia avevano permesso agli esse-ri umani di adattarsi gradualmente al nuovo
ambiente (l’orologio interno può spostarsi
all’incirca di un’ora al giorno). Le indicazio-ni che il nostro orologio interno raccoglie
dall’ambiente esterno in tedesco si chiama-no zeitgeber (segnali del tempo). Sono fatto-ri come la temperatura e, soprattutto, la lu-ce: per i primi esseri umani il segnale più  importante per stabilire quando potevano
andare a caccia e quando dovevano metter-si al riparo veniva dal Sole. A questi si ag-giungono segnali interni, elaborati da una
regione del cervello chiamata nucleo supra-chiasmatico, o Scn. È quel mucchietto di
materia grigia a controllare i ritmi circadia-ni. Lo fa in parte agendo sulla ghiandola
pineale per indurla a produrre l’ormone ip-noinducente detto melatonina, che in alcu-ne parti del mondo si può anche comprare
in farmacia senza ricetta.
Dissociati
Di solito viviamo in base a un ciclo di 24 ore
collegato  alla  luce  del  giorno.  Ma  alcuni
esperimenti sul sonno hanno rivelato che,
quando siamo privati di qualsiasi indicazio-ne esterna come la luce solare e gli orologi,
quasi tutti passiamo a un ciclo libero di 25
ore, perché gli zeitgeber ci spostano legger-mente in avanti rispetto al nostro tempo
interno. Uno dei primi esperimenti in que-sto campo fu condotto dallo scienziato te-desco Jürgen Aschof e dal suo collega Rüt-ger Wever, che all’epoca lavoravano a Prin-ceton. Fecero costruire due bunker in Ba-viera dai quali erano stati eliminati tutti i
segni del tempo esterno. Non avevano ine-stre, erano isolati acusticamente e perino
progettati per non risentire dei cambiamen-ti del campo elettromagnetico. I soggetti
che si trovavano al loro interno erano accu-ratamente monitorati, sia dal punto di vista
mentale sia da quello isico (perino tramite
una sonda rettale attaccata con un lungo
tubo a un’apertura sul muro). Come aveva-no previsto, nel corso di tre settimane la
maggior parte delle persone si stabilizzò su
un ciclo leggermente più lungo di 24 ore,
dormendo circa un terzo del tempo. Come
le mimose di Mairan, pur non vedendo il
Sole gli esseri umani seguivano i loro ritmi
naturali.
Il vero orologio è dentro di noi. I segnali
esterni lo sincronizzano con il mondo, im-pedendoci di slittare ogni giorno in avanti
rispetto al ciclo solare. È proprio a causa di
questo tempo interno che sperimentiamo il
jet lag. “Qualunque ora sia per il suo orolo-gio interno”, scrivevano nel 2007 gli autori
di un articolo sul jet lag pubblicato sulla rivi-sta medica The Lancet, “il nostro corpo si
deve adattare al giorno solare”. È per que-sto che i medici chiamano il jet lag disincro-nosi. Chi viaggia è temporaneamente dis-sociato dal mondo che lo circonda.
Quel primo giorno, a Lisbona, alla ine
ho ceduto a un sonno leggero. Da quel mo-mento il mio corpo ha opposto sempre più
resistenza  con  il  passare  dei  giorni,  sve  gliandomi appena la luce del giorno comin-ciava a iltrare attraverso le tende, indipen-dentemente  da  quanto  avevo  dormito.
All’inizio il jet lag mi ha aiutato a rimanere
ancorata all’ora della costa est degli Stati
Uniti (mi alzavo a mezzogiorno e andavo a
letto all’alba), ma poi non ha più funzionato
perché i miei ritmi circadiani facevano di
tutto per adattarsi al ciclo solare. Mi sentivo
stanchissima a strane ore del giorno, e qua-si sempre dovevo dormire un po’ intorno
alle 11 di sera. La mattina (che a Lisbona era
pomeriggio) ero disorientata e nervosa. Era
diicile programmare i pasti e spesso li sal-tavamo, accontentandoci di fare uno spun-tino con un cafè quando non ci andava di
mangiare a mezzanotte. Ho cominciato a
ingrassare e ho dovuto prendere un leggero
antidepressivo. E comunque, mi svegliavo
un po’ prima ogni mattina e avevo sonno un
po’ prima ogni sera.
La doccia entro mezzogiorno
Per un adulto non è facile dormire in dopo
mezzogiorno. Il nostro ciclo circadiano in-vecchia con noi. Da bambini ci svegliamo
presto, da adolescenti non andremmo mai
a letto e da adulti ci attestiamo su una via di
mezzo. Naturalmente, all’interno di questa
tendenza generale esistono molte varianti
personali. I cronobiologi chiamano crono-tipi gli orologi genetici interni che spingono
certe persone ad alzarsi presto e altre a stare
alzate ino a tardi.
A New York di solito mi svegliavo verso
le 8.30 di mattina. Adesso gli orari irregolari
mi impediscono di accorgermi dei piccoli
cambiamenti del mio ciclo sonno-veglia. A
Parigi (+ 6) ho cercato di alzarmi presto co-me ero abituata a fare negli Stati Uniti, ma
concetti come presto e tardi diventano piut-tosto confusi quando presto signiica riusci-re a fare la doccia entro mezzogiorno.
Prima che arrivassero i viaggi aerei e lo
spiazzamento temporale che li accompa-gna, gli esseri umani si sono staccati per la
prima volta dai loro ritmi naturali quando è
stata inventata la luce elettrica. La sua dif-fusione ha reso possibili anche i turni di la-voro notturni. Praticamente è quello che
faccio  in  Europa.  Accendo  tutte  le  luci
dell’appartamento dove abito, mi metto al
computer e cerco di convincere il mio cer-vello che è spuntato il Sole. Come mi ha det-to  Steven  Scharf,  un  esperto  di  sonno
dell’università del Maryland, alcuni se la
cavano meglio di altri in queste situazioni
innaturali. Per ridurre al minimo il disagio
dei turni di notte, mi ha suggerito di usare
tende molto pesanti per non far entrare la
luce del giorno e di indossare occhiali con le
lenti gialle di sera, per contrastare l’esposi-zione alla luce azzurra. “Se veramente non
vuole rinunciare all’ora della costa orienta-le, cosa che non le consiglierei di fare, oltre
a rispettare i suoi ritmi di sonno e veglia de-ve anche evitare la luce”, mi ha detto. Non
sarebbe un cattivo consiglio, però non pos-so accettarlo. La ragion d’essere di tutto
questo esperimento sono proprio le poche
ore  che  riusciamo  a  strappare  prima  del
clou della giornata lavorativa sulla costa
orientale, per correre a fare i turisti o andare
a pranzo fuori appena alzati. Se restassi a
casa dietro quelle tende pesanti, tutta la fa-tica che stiamo facendo non sarebbe più
giustiicata.
La  luce  è  la  cosa  più  importante  per
scandire il nostro tempo, il principale siste-ma di regolazione del nostro orologio in-terno. Quindi non c’è da sorprendersi se
l’introduzione del nostro Sole personale
ha comportato tante conseguenze. Solo un
paio di anni fa i neurologi della Thomas
Jefferson university di Filadelfia si sono
resi conto che la luce azzurra che mi aveva-no consigliato di evitare inluisce notevol-mente sui ritmi circadiani. In occasione di
uno studio del 2001 diretto da Christian
Cajochem, un cronobiologo dell’universi-tà svizzera di Basilea, i ricercatori hanno
chiesto a 13 uomini di issare lo schermo di
un computer per cinque ore a notte. Per
una  settimana  hanno  guardato  schermi
luorescenti, che emettono luce di tutti i
colori; per un’altra settimana hanno avuto
davanti schermi a led, la cui luce è molto
più azzurra. Gli studiosi hanno riscontrato
“enormi diferenze” tra le due situazioni:
quando i soggetti guardavano gli schermi
azzurri nel corso della notte mostravano
un abbassamento dei livelli di melatonina.
Il nostro corpo, creato per la luce solare,
adesso assorbe la luce azzurra di innume-revoli schermi che modiica leggermente il
nostro orologio interno e ci spinge a rima-nere alzati un po’ di più ritardando il rila-scio della melatonina che ci farebbe addor-mentare.
Vita da nomade
Qualche settimana fa mi sono ammalata
più seriamente di quanto mi fosse mai ac-caduto da adulta e alla ine sono stata co-stretta a sottopormi a un’operazione chi-rurgica. I medici che mi curavano non riu-scivano a capire perché mi fossi ammalata
così all’improvviso. Non credo che siano
state le mie strane ore di sonno a farmi ini-re in ospedale, ma questo mi ha spinto a ri-lettere sulla mia battaglia contro i ritmi
circadiani. Prima della malattia pensavo
che valesse la pena di fare quell’esperienza
nonostante il disagio, anche se non riusci-vo a vedere molto dei posti che visitavo.
Sono convinta che la capacità di andare
contro la nostra natura sia uno dei tratti che
rendono unici gli esseri umani.
Ma  ora  mi  chiedo  se  non  sono  stata
troppo arrogante a voler ignorare il mio
orologio interno. La malattia ci fa capire
quanto la nostra coscienza superiore di-penda dal corpo. Da uno studio commis-sionato  dall’Organizzazione  mondiale
della sanità e pubblicato su The Lancet nel
2007  è  emerso  che  qualsiasi  sconvolgi-mento dei ritmi circadiani, come quello
provocato dai turni di lavoro, è probabil-mente cancerogeno, e una ricerca condot-ta nel 2013 da Paolo Sassone-Corsi e dai
suoi colleghi dell’università della Califor-nia a Irvine ha dimostrato che i ritmi circa-diani controllano la reazione del corpo ad
agenti patogeni come la salmonella. Men-tre ero in ospedale mi sono chiesta quali
forze  avevo  sfidato  giocando  con  il  mio
orologio interno.
Questa vita da nomade mi piace ancora.
Mentre faccio le valige per Barcellona (+ 6)
mi preparo ancora una volta a combattere i
miei ritmi circadiani, lasciandomi alle spal-le il cronotipo che mi spinge ad andare a
letto leggermente tardi per entrare nel re-gno dei veri uccelli notturni che stanno sve-gli ino alle sei di mattina e si alzano dopo
mezzogiorno. Per circa sei giorni cercherò
di non lasciare che il mio ritmo sonno-ve-glia si adatti al giorno solare. Ma ora ho più
rispetto per i miei ritmi circadiani, che sono
molto personali e funzionano indipenden-temente da dove sorge la nostra stella. Den-tro di me c’è un orologio che batte come un
secondo cuore invisibile, e ho deciso di pre-stare più attenzione a quel battito. u bt
La luce è la cosa più
importante per
scandire il nostro
tempo, il principale
sistema di regolazione
del nostro orologio
interno
Alec Baldwin
Cate Blanchett
Louis C.K.
Bobby Canna

1028 - I marchi dell’ingiustizia Jason Motlagh, The Nation, Stati Uniti Foto di Munem Wasif Sette mesi dopo il crollo del Rana Plaza, in cui sono morti più di mille operai, la sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento rimane scarsa, gli incidenti continuano e le famiglie delle vittime aspettano i risarcimenti

no straniero non viene
mai lasciato solo davan-ti  alle  rovine  del  Rana
Plaza.  In  una  rovente
mattina  di  agosto,  un
gruppo di persone addo-lorate mi circonda con fasci di documenti e
fotograie facendo a gara per conquistare la
mia attenzione. Cercano disperatamente
un qualche riconoscimento per la iglia, il
iglio, la moglie o il marito che hanno perso
quando,  il  24  aprile  2013,  gli  otto  piani
dell’ediicio che ospitava diversi laboratori
tessili sono crollati uccidendo più di 1.100
persone. Mentre la calca intorno a me au-menta, le lebili richieste diventano riven-dicazioni a piena voce, e ben presto mi ri-trovo schiacciato contro il recinto di ilo
spinato davanti alla zona del disastro, oggi
una pozza d’acqua scura. L’unica via d’usci-ta è appuntarmi il nome e il numero di tele-fono di ciascuno di loro, con la vaga pro- messa di fare qualcosa.
Una donna, Rashida Begum, si tiene a
distanza. Ha un sari arancione e stringe al
petto una foto plastiicata. “Mia iglia”, dice
quando mi avvicino. Si chiamava Nasima,
aveva sedici anni e guadagnava 110 dollari
al mese cucendo pantaloni per la New Wa-ve Bottoms. Il giorno prima della tragedia,
Nasima e i suoi compagni erano stati man-dati a casa presto perché sulle pareti erano
comparse delle enormi crepe. La madre
racconta che Nasima era così spaventata
che non riuscì a mangiare, ma siccome era
lei a mantenere la famiglia, quando i capi le
ordinarono di tornare al lavoro non ha avu-to scelta. Non voleva perdere il posto.
Adesso Rashida ha un disperato biso-gno di aiuto economico, e torna sul luogo
dell’incidente con la speranza di trovare
qualcuno che possa darle delle risposte.
Certi giorni prende un pullman da Savar,
dove vive e dove si trovava il Rana Plaza,
ino a Dhaka e si unisce ai manifestanti che
chiedono un risarcimento davanti agli ui-ci dell’Associazione degli esportatori mani-fatturieri del Bangladesh (Bgmea), la po-tente associazione di categoria che rappre-senta un’industria da 20 miliardi di dollari
all’anno. Uno striscione nero recita: “Non
vi dimenticheremo”. Ma Rashida ha ben
poche speranze di essere risarcita. Il corpo
di Nasima non è stato recuperato intatto,
perciò non ha modo di dimostrare che sua
iglia era tra le vittime. E così torna a casa a
mani vuote.
Ho  incontrato  diverse  volte  Rashida
nelle settimane successive, sempre con gli
stessi vestiti sgualciti e lo stesso sguardo
vuoto, con la foto della iglia sul petto. La
sua presenza mi sembra il simbolo dell’in-capacità delle autorità e delle aziende stra-niere di afrontare adeguatamente l’inci-dente più terribile nella storia dell’industria
dell’abbigliamento. A distanza di cinque
mesi, tutte le promesse di migliorare la si-curezza delle fabbriche e prendere provve-dimenti contro i subappalti illegali riman-gono  frustrate  dalla  scarsità  di  risorse  e
dalla quasi totale mancanza di coordina-mento tra le parti. Il risarcimento ricono-sciuto alle vittime varia da poco a niente.
Secondo l’Istituto bangladese di studi sul
lavoro, nessuna delle quattromila famiglie
colpite dalla tragedia ha ricevuto l’intera
cifra promessa dal governo e dalla Bgmea.
Alcune decine di invalidi hanno ricevuto in
pompa magna dei sussidi da un fondo ad
hoc gestito dalla prima ministra, ma ormai
il denaro è quasi completamente esaurito.
Malgrado le generose assicurazioni, le
famiglie delle vittime inora hanno ricevu-to appena 1.250 dollari dal fondo di aiuto
d’emergenza creato dal governo, una som-ma misera per una vita umana “persino per
i bassi standard del Bangladesh”, dice Sara
Hossain, un avvocato che lavora per le vit-time. Le famiglie potrebbero ottenere di
più da un tribunale speciale se il governo si
decidesse a crearlo. Ma il potere dell’indu-stria tessile è troppo forte.
All’estero l’indiferenza dimostrata dal-le aziende di abbigliamento della grande
distribuzione non è meno sconvolgente. A
Ginevra, nel settembre scorso, ventinove
imprese erano state invitate a una confe-renza che mirava a raggiungere un accordo
sul risarcimento per il disastro del Rana
Plaza – e per le vittime di un incendio scop-piato a novembre 2012 in una fabbrica della
Tazreen Fashions dove hanno perso la vita
117 persone –  ma se ne sono presentate so-lo nove. Tra quelle che non hanno parteci-pato  spiccano  le  statunitensi  Walmart  e
Sears che, com’è  risultato in seguito, si ser-vivano  anche  della  fabbrica  di  Tazreen
Fashions (Walmart, uno dei più grandi ac-quirenti delle fabbriche bangladesi, si è ri-iutata di pagare le vittime e le loro famiglie
sostenendo che gli ordini erano stati subap-paltati a sua insaputa). Solo un’azienda che
usava un fornitore del Rana Plaza, la catena
irlandese a basso costo Primark, ha accet-tato di fornire aiuti per un periodo di sei
mesi Subito  dopo  il  crollo  del  Rana  Plaza
c’erano stati segnali incoraggianti. Decine
di afermate aziende europee e statuniten-si  avevano  firmato  accordi  separati  che
prevedevano ampie ristrutturazioni, eser-citazioni antincendio, la pubblicazione dei
rapporti degli ispettori della sicurezza e il
divieto del subappalto. Anche se gli impe-gni presi dal gruppo, prevalentemente sta-tunitense, non erano vincolanti e non la-sciavano spazio e signiicative possibilità
legali ai lavoratori per organizzarsi, gli atti-visti dei diritti dei lavoratori inizialmente
hanno deinito questi accordi una “svolta”
per milioni di operai bangladesi.
Tutto come prima
Sono venuto per la prima volta in Bangla-desh a febbraio per scoprire se e cosa era
cambiato dopo l’incendio alla Tazreen. Il
numero di morti era stato così alto e la co-pertura  dei  mezzi  d’informazione  così
grande che la tragedia aveva spinto molti a
giurare “mai più”. Ma al mio arrivo ho sco-perto che tutto continuava come al solito. Il
padrone della Tazreen, Delwar Hossain,
era ancora a piede libero (anche se in segui-to gli è stato vietato di lasciare il paese). E,
secondo i dati raccolti dal Solidarity center,
un’organizzazione non proit ailiata alla
più grande confederazione sindacale degli
Stati Uniti, ogni settimana scoppiavano in
media due o tre incendi, in alcuni casi mor-tali. In una fabbrica in subappalto costruita
sopra un forno alla periferia della città ho
visto di persona le conseguenze di un rogo.
Il pavimento era disseminato di macchine
da cucire e indumenti carbonizzati. A setti-mane di distanza dall’incendio nessuno si
era preoccupato di far sparire le etichette
dei vari marchi e i moduli degli ordini o di
cancellare le manate che macchiavano le
pareti ino a una porta chiusa dove otto per-sone erano morte nella calca.
 Quando  sono  tornato  a  Dhaka
quest’estate immaginavo che le autorità e
gli acquirenti stranieri sarebbero stati pron-ti a pubblicizzare i loro sforzi per mantene-re le promesse e migliorare le condizioni di
sicurezza. Sbagliavo. Ho passato un mese
cercando di ottenere un permesso per ac-compagnare  l’ispezione  ufficiale  di  una
fabbrica. I vigili del fuoco, le autorità per lo
sviluppo civile e gli ingegneri strutturali
dell’università di Dhaka si sono tutti riiu-tati di darmi il permesso. L’unica soluzione
è stata quella di contattare un giornalista
bangladese che è riuscito a procurarsi il
permesso di unirsi a un rapido controllo di
conformità e ha accettato di condividere i
suoi appunti con me. Quando mi ha riferito quello che aveva visto, ho capito perché mi
avevano lasciato fuori.
 La struttura che aveva visitato, la fab-brica di abbigliamento Al Muslim, si trova
a pochi minuti di auto dal Rana Plaza. È un
impianto “di prima linea” dove c’è un pro-duttore che lavora con noti marchi stranie-ri. Il suo cancello di ferro battuto espone un
cartello con la scritta: “No al lavoro minori-le”. All’interno, gli ispettori statali hanno
veriicato che le uscite d’emergenza erano
insuicienti, proprio il genere di violazione
che comporta la chiusura immediata. Ma
in base alla legge del Bangladesh non han-no un mandato esecutivo quando queste
violazioni vengono individuate, possono
solo formulare raccomandazioni. Alla ine
la valutazione della fabbrica per la sicurez-za antincendio è stata 12 su 26: abbastanza
per una promozione.
 Il  vicepresidente  della  Bgmea,  Raez
Bin Mahmood, ammette che in un paese
caotico e a corto di liquidi come il Bangla-desh, le ispezioni sono “un processo molto
approssimativo”. La Bgmea ha solo dieci
ispettori, il corpo dei vigili del fuoco ne ha
ottanta, ma dice che gliene servono dieci
volte tanti. Le squadre formate da ingegne-ri hanno attrezzature insuicienti e il mini-stero del lavoro sta cercando di trovare e
formare altri duecento ispettori nei prossi-mi mesi. Nel frattempo continua a mancare
un organismo di coordinamento centrale
che registri l’attività delle varie agenzie. I
fabbricanti lamentano che certi impianti
sono stati ispezionati più volte mentre altri
vengono ignorati.
Uicialmente in Bangladesh ci sono cir-ca  2.500  fabbriche  che  producono  per
l’esportazione, anche se molti  mezzi d’in-formazione raddoppiano la cifra. Un grup-po di più di 80 distributori prevalentemen-te europei calcola che ci vorranno cinque
anni per portare a termine le ispezioni e di-chiarare sicure le mille fabbriche da cui si
riforniscono. I membri della North ameri-can alliance dicono che iniranno di esami-nare 500 fabbriche entro l’estate del 2014.
Il ministero del lavoro si è impegnato a con-trollarne altre duemila non coperte da nes-suno  dei  due  accordi,  d’intesa  con  la
 Bgmea, che dichiara di aver già chiuso ven -ti fabbriche a rischio.
Ma perfino il grattacielo che ospita il
quartier generale dell’organizzazione, una
torre di vetro azzurro circondata dall’ac-qua, getta un’ombra sul suo impegno. Nel
2011 l’alta corte del Bangladesh ha decreta-to che il terreno su cui sorge era stato otte-nuto illegalmente e che il palazzo era stato
costruito senza le necessarie autorizzazio-ni, a danno di un sistema di drenaggio na-turale che attraversa il centro della città. La
corte ha deinito l’ediicio “una frode di di-mensioni colossali”, e ha ordinato che ve-nisse distrutto entro novanta giorni. Eppu re due anni dopo la torre è ancora in piedi,
anche se con qualche inestra rotta.
A giugno gli Stati Uniti hanno fatto in-nervosire il mondo degli afari del Bangla-desh tagliando tutte le agevolazioni com-merciali. L’accesso senza dazi al mercato
statunitense è stato sospeso. L’industria
dell’abbigliamento in realtà non aveva mai
avuto diritto a queste agevolazioni iscali,
ma la decisione ha fatto seguito a un severo
monito dell’Unione europea, che acquista
circa il 60 per cento delle esportazioni del
paese. Con miliardi di dollari in gioco, alcu-ni proprietari preferirebbero gestire la que-stione della sicurezza direttamente invece
di aidarsi alle ineicienti agenzie pubbli-che. Un industriale che è tra i dieci maggio-ri esportatori del Bangladesh mi ha riferito
che “gli ispettori vogliono solo vedere le li-cenze e tralasciano i dettagli”. Come altri
con cui ho parlato, non ha voluto che rive-lassi il suo nome per paura di mettere a re-pentaglio la sua posizione con i clienti stra-nieri.
Un altro industriale importante mi ha
raccontato  che  quando  aveva  chiesto  le
carte del progetto di una vecchia fabbrica,
il precedente proprietario si era riiutato di
dargliele:  “Ho  immaginato  che  ci  fosse
qualcosa da nascondere: cemento scaden-te, una struttura fragile. Almeno tre quarti
degli ediici di questo paese non sono a nor-ma”, aggiunge, “costruiti da gente che non
aveva le competenze per farlo”. Corrompe-re gli ispettori statali perché chiudessero
un occhio non era un problema, ha detto,
osservando che il Rana Plaza aveva supera-to quattordici volte le ispezioni prima di
crollare. Così ha contattato un ingegnere
libero  professionista  per  fare  un’analisi
strutturale e altri test accurati e poi ha chiu-so la fabbrica ino al completamento di una
costosa ristrutturazione. “Non prendiamo
questi provvedimenti per accontentare gli
acquirenti”, spiega. “Lo facciamo per noi
stessi”, per evitare incidenti ancora più co-stosi.
Alcuni proprietari sostengono che per-ino i revisori indipendenti inviati dai gran-di  marchi  prendono  mazzette.  E  anche
quando hanno un comportamento corretto
si limitano a controllare le grandi fabbri-che. Un industriale con tanto di certiicati
rilasciati da H&M, la seconda azienda di
abbigliamento che produce in Bangladesh,
che attestano eccellenti standard di sicu-rezza, ammette che quando gli fanno pres-sione perché evada gli ordini in meno tem-po è costretto a esternalizzare alcune fasi
della produzione. “Ci sono così tante incer-tezze – scioperi, ritardi nelle spedizioni,
vacanze, funzionari corrotti nei porti – che
il  subappalto  non  sarà  mai  eliminato
dall’industria tessile del Bangladesh”, spie-ga l’industriale. “Le grandi aziende lo san-no”, aggiunge, ma “fanno inta di niente”.
La  verità  è  che  nessuno  sa  davvero
quante fabbriche di abbigliamento ci siano
in Bangladesh. Ci sono i giganti delle espor-tazioni visibili dalle strade principali, e poi
altre migliaia di piccoli laboratori diretta-mente o indirettamente coinvolti nell’in-dustria, per cucire chiusure lampo o taglia-re ili. Questi piccoli laboratori di solito  si
trovano agli ultimi piani di ediici tetri con
sbarre alle inestre, ventilatori al soitto e
pessima  illuminazione.  Molti  altri  sono
completamente invisibili e non hanno nep-pure un’insegna sulla porta. Sono pagati in
nero, hanno dipendenti disposti
a lavorare ore e ore per una mise-ria e restano fuori dal raggio delle
ispezioni.  Per  preservare  i  loro
esigui margini di proitto, i pro-prietari risparmiano sulla sicu-rezza, spesso con la protezione di funzio-nari che partecipano agli afari. Se dovesse
scoppiare un incendio o cedere un pavi-mento, possono consolarsi pensando che
in più di vent’anni nessuno è mai stato per-seguito legalmente per la morte dei lavora-tori. E intanto le aziende straniere possono
afermare di essere all’oscuro delle viola-zioni delle norme di sicurezza.
La notte dell’8 ottobre 2013 è scoppiato
un  incendio  in  una  fabbrica  di  abbiglia-mento fuori Dhaka e dieci operai sono ri-masti uccisi. I documenti di spedizione le-gavano la fabbrica a una serie di noti mar-chi occidentali, tra cui alcuni che avevano
avuto rapporti con il Rana Plaza. Le loro
reazioni erano le solite: Loblaw, il proprie-tario canadese dell’etichetta Joe Fresh, ha
negato di aver fatto ordinazioni, sostenen-do di aver aperto un’indagine per accertare
eventuali responsabilità dei subappaltato-ri. Primark ha dichiarato di aver smesso di
utilizzare la fabbrica diversi mesi prima, e
lo stesso ha detto Hudson’s Bay. Un porta-voce di Walmart ha riferito che l’azienda
non aveva “una diretta relazione contrat-tuale” con la fabbrica.
L’ultimo incendio è scoppiato subito
dopo le manifestazioni di settembre in cui
i lavoratori chiedevano un aumento del sa-lario minimo da 38 a cento dollari al mese.
Con il moltiplicarsi delle prote-ste  a  Savar  e  nella  cittadina  di
Gazipur, il cuore dell’industria
tessile, ci sono stati blocchi stra-dali e molte automobili sono sta-te distrutte, costringendo più di
cento fabbriche a chiudere. Ci sono voluti
giorni – oltre ai lacrimogeni e ai proiettili di
gomma della polizia – per far rientrare la
rivolta.
L’ultima volta che l’ho vista, Rashida
Begum  stava  aspettando  con  il  marito
Azad nell’atrio di un laboratorio per le ana-lisi del dna nel campus dell’università di
Dhaka. Dalle ossa e dai denti dei corpi si-gurati e irriconoscibili estratti dalle rovine
del Rana Plaza erano stati prelevati più di
300 campioni. Dopo tutti quei mesi dove-vano essere inalmente pubblicati i risulta-ti delle analisi, ma Rashida era sempre più
scoraggiata. Azad, che non ha i soldi per
aprire un piccolo chiosco di tè per mante-nere la famiglia, era distrutto. Un test posi-tivo gli avrebbe garantito il diritto all’in-dennizzo iniziale di 1.250 euro, abbastanza
per arrivare alla ine dell’anno. Un risultato
negativo signiicava niente soldi.
Ma  come  spesso  succede  in  Bangla-desh, il laboratorio non aveva rispettato i
tempi e i risultati non erano ancora pronti.
Un tecnico ha detto alla coppia che biso-gnava aspettare almeno qualche altra set-timana prima che i giornali pubblicassero
l’elenco deinitivo. Quando Rashida non
ne poteva più, il tecnico ha aggiunto che il
numero delle richieste superava sensibil-mente il quantitativo dei campioni da  ana-lizzare, perciò molti parenti sarebbero ri-masti delusi. Ma Rashida era già rassegna-ta:  “Non  c’è  niente  per  i  parenti  degli
scomparsi”, ha detto infilandosi sotto il
braccio la foto di Nasima per afrontare il
lungo viaggio di ritorno ino a Savar. u gc

1028 - cLIMA

N
el dicembre  del  2012
l’esperto di sistemi com-plessi Brad Werner, con
i  suoi  capelli  rosa,  si  è
fatto strada tra i 24mila
studiosi di scienze della
Terra e dello spazio al convegno dell’Ameri-can geophysical union che si tiene ogni an-no a San Francisco. All’evento c’erano nomi
importanti, come Ed Stone, del progetto
Voyager della Nasa, che ha parlato di una
nuova pietra miliare sulla strada per lo spa-zio interstellare, e il regista James Came-ron, che ha raccontato le sue avventure in
sommergibile negli abissi del mare.
Ma la conferenza che ha fatto più scal-pore è stata quella di Werner, intitolata “La
Terra è f ***uta?” (il titolo intero era: “La
Terra è f ***uta? La futilità dinamica della
gestione ambientale globale e le possibilità
di garantire la sostenibilità attraverso l’azio-ne diretta degli attivisti”). In piedi di fronte
alla platea, il geoisico dell’Università della
California a San Diego ha risposto alla do-manda usando un modello computerizzato.
Lo scienziato ha parlato di limiti dei sistemi,
perturbazioni, dissipazione, attrattori, bi-forcazioni e altre cose per lo più incompren-sibili a chi non è esperto di teoria dei sistemi
complessi. Ma la morale era chiara: il capi-talismo globale ha reso lo sfruttamento in-tensivo delle risorse così rapido, convenien-te e illimitato che per reazione i “sistemi
geoumani” stanno diventando pericolosa-mente instabili. Messo sotto pressione da
un giornalista che chiedeva una risposta
chiara alla domanda “siamo f ***uti?”, Wer-ner ha messo da parte i termini tecnici e ha
risposto: “Più o meno”.
Tuttavia una dinamica del suo modello
ofriva qualche speranza. Werner l’ha dei-nita “resistenza”: i movimenti di “gruppi o
individui” che “adottano un certo insieme
di dinamiche che non si integrano nella cul-tura capitalistica”. Nel sommario della sua
presentazione si legge che questo fattore
comprende “l’azione diretta ambientalista,
la resistenza proveniente dall’esterno della
cultura dominante, come nelle manifesta-zioni di protesta e nei sabotaggi compiuti
dalle popolazioni indigene, dai lavoratori,
dagli anarchici e da altre organizzazioni di
attivisti”.
Di solito ai convegni scientiici non si
lanciano appelli alla resistenza politica di
massa e tanto meno all’azione diretta e al
sabotaggio. Ma a dire il vero Werner non ha
invitato a fare niente del genere: si è limita-to a osservare che le rivolte di massa (un po’
come il movimento abolizionista, quello
per i diritti civili o Occupy Wall street) rap-presentano l’elemento di “frizione” che con
più probabilità sarà in grado di rallentare un
meccanismo economico sempre più fuori
controllo. Come sappiamo, ha osservato lo
scienziato, in passato i movimenti sociali
hanno “esercitato un’inluenza straordina-ria sull’evoluzione della cultura dominan-te”. Quindi è ragionevole afermare che “se
pensiamo al futuro della Terra e della no-stra relazione con l’ambiente, dobbiamo
inserire la resistenza nel quadro di questa
dinamica”. Non si tratta, ha afermato Wer-ner, di un’opinione, ma “di un problema
geoisico”.
In manette
Molti scienziati sono stati spinti dai risultati
delle loro ricerche a scendere in piazza e a
passare all’azione. Fisici, astronomi, medici
e biologi si sono schierati in prima linea nel-le battaglie contro le armi nucleari, l’ener-gia atomica, la guerra, la contaminazione
chimica e il creazionismo. Poi nel novem-bre del 2012 Nature ha pubblicato un edito-riale del inanziere e ilantropo ambientali-sta Jeremy Grantham in cui si invitavano gli
scienziati a seguire questa tradizione e a
“farsi  arrestare  se  necessario”,  perché  il
cambiamento climatico “non è solo la crisi
della nostra vita: è anche la crisi dell’esi-stenza della nostra specie”.
Alcuni scienziati non hanno bisogno di
farsi convincere. James Hansen, il padre
della climatologia moderna, è un attivista
formidabile ed è stato arrestato almeno cin-que o sei volte per aver opposto resistenza
allo spianamento delle vette montuose per
l’estrazione di carbone e alla costruzione di
oleodotti  per  le  sabbie  bituminose
(quest’anno lo scienziato ha perino lasciato
il lavoro alla Nasa per dedicare più tempo
alla militanza). Due anni fa, quando sono
stata arrestata davanti alla Casa Bianca du-rante una manifestazione contro l’oleodot-to per sabbie bituminose Keystone Xl, una
delle 166 persone inite quel giorno in ma-nette era il glaciologo Jason Box, un esperto
di fama mondiale dello scioglimento dei
ghiacci della Groenlandia. “Se non ci fossi
andato avrei perso la mia autostima”, mi ha
detto allora Box, aggiungendo che “in que-sto caso votare non basta. Ho bisogno di
essere anche un cittadino”.
Questa reazione è lodevole, ma quello
che sta facendo Werner con i suoi modelli è
diverso. Lo scienziato non sta dicendo che
le sue ricerche lo hanno spinto a passare  ll’azione per fermare una particolare leg-ge: le sue ricerche dimostrano che il nostro
modello economico mette a rischio la stabi-lità ecologica e che contrastare questo mo-dello (attraverso l’opposizione di massa) è il
modo migliore di evitare la catastrofe. Sono
afermazioni drastiche, ma Werner non è
solo. Lo studioso fa parte di un gruppo ri-stretto ma sempre più autorevole di scien-ziati che hanno fatto ricerche sulla destabi-lizzazione dei sistemi naturali e sono arri-vati a conclusioni rivoluzionarie. A chiun-que nutra in cuor suo un impulso di ribellio-ne e abbia sognato di rovesciare l’attuale
ordine economico per introdurne uno che
non spinga al suicidio i pensionati italiani,
questo lavoro dovrebbe risultare particolar-mente interessante. Perché dimostra che
l’aspirazione a disfarsi di questo sistema
spietato per sostituirlo con uno nuovo (e
magari, lavorandoci molto, anche migliore)
non è più questione di orientamento ideo-logico, ma è piuttosto una necessità per la
sopravvivenza della specie umana.
Alla  testa  di  questo  nuovo  gruppo  di
scienziati rivoluzionari c’è uno dei più im-portanti climatologi britannici: Kevin An-derson, il vicedirettore del Tyndall centre
for climate change research. Rivolgendosi
a chiunque, dal ministero britannico dello
sviluppo internazionale al consiglio comu-nale di Manchester, Anderson ha dedicato
più  di  dieci  anni  al  paziente  tentativo  di
spiegare a politici, economisti e attivisti le
implicazioni degli ultimi risultati della cli-matologia. Usando un linguaggio chiaro e
comprensibile, lo scienziato ha deinito una
serie rigorosa di passi da compiere per ri-durre le emissioni in modo da mantenere
l’aumento della temperatura globale al di
sotto dei due gradi, un obiettivo che secon-do molti governi dovrebbe prevenire la ca-tastrofe. Ma negli ultimi anni gli articoli e le
conferenze di Anderson sono diventati più
allarmanti. Nei suoi interventi – intitolati
per esempio “Mutamento climatico: al di là
del pericolo, numeri brutali e tenui speran-ze” – lo studioso sottolinea che le possibilità
Superstiti in attesa di aiuti in un villaggio a nord di Tacloban, Filippine, 17 novembre 2013
44Internazionale 1028 | 29 novembre 2013
In copertina
di mantenere le temperature entro i limiti
di  sicurezza  si  stanno  riducendo  rapida-mente.  Insieme  alla  collega  Alice  Bows,
un’esperta del Tyndall centre che si occupa
di mitigazione del clima, Anderson osserva
che abbiamo perso tanto tempo tra stalli
politici e misure deboli per la gestione del
clima (mentre i consumi e le emissioni glo-bali  s’impennavano)  che  ora  dovremmo
fare tagli così drastici da mettere in discus-sione la logica stessa che assegna la massi-ma priorità alla crescita del pil.
Anderson  e  Bows  ci  comunicano  che
l’obiettivo tanto citato della mitigazione di
lungo periodo (ridurre dell’80 per cento le
emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il
2050) è stato indicato per motivi di pura
convenienza politica e non poggia su “nes-suna base scientiica”. Il fatto è che sul cli-ma non esercita un impatto solo quello che
emettiamo oggi e domani, ma le emissioni
cumulative che con il tempo si raccolgono
nell’atmosfera. Inoltre, gli scienziati ci av-vertono che concentrandoci su un obiettivo
distante trentacinque anni (invece di pen-sare a quello che si può fare per ridurre le
emissioni di anidride carbonica in modo
netto e immediato) rischiamo seriamente
che le emissioni continuino ad aumentare
per anni, mettendoci in una posizione inso-stenibile per il resto del secolo.
Per questo Anderson e Bows sostengo-no che se i governi dei paesi sviluppati han-no  davvero  intenzione  di  raggiungere
l’obiettivo concordato a livello internazio-nale  di  mantenere  l’innalzamento  della
temperatura al di sotto dei due gradi centi-gradi e se vogliono che i tagli rispettino un
principio di equità (secondo cui in sostanza
i paesi che hanno rilasciato anidride carbo-nica per buona parte degli ultimi due secoli
dovranno  ridurre  le  emissioni  prima  di
quelli in cui più di un miliardo di persone
vive ancora senza l’elettricità), allora i tagli
dovranno andare molto più a fondo e si do-vranno fare molto prima.
Per ottenere anche solo una possibilità
del 50 per cento di contenere il riscalda-mento climatico entro i due gradi (che, co-me avvertono Anderson, Bows e molti altri
scienziati, implica già una serie di disastri
climatici), i paesi industrializzati dovranno
ridurre le loro emissioni di gas serra di circa
il 10 per cento all’anno in da subito. Ma An-derson e Bows si spingono anche più in là,
facendo notare che quest’obiettivo non po-trà essere realizzato con le misure di mode-sta tassazione delle emissioni di anidride
carbonica o con le soluzioni di tecnologia
verde proposte in genere dalle grandi orga-nizzazioni ambientaliste. Queste strategie
non bastano: una riduzione del 10 per cento
all’anno è un fenomeno praticamente sen-za precedenti da quando abbiamo comin-ciato ad alimentare l’economia con il car-bone. In efetti, un calo superiore all’1 per
cento all’anno “è stato associato storica-mente solo alle recessioni economiche o ai
sovvertimenti politici”, spiega l’economista
Nicholas Stern nel suo rapporto sui cambia-menti climatici realizzato nel 2006 per il
governo britannico.
Neanche in seguito al crollo dell’Unione
Sovietica ci sono state riduzioni di questa
durata e intensità (gli ex stati sovietici han-no registrato in media un calo del 5 per cen-to all’anno per un periodo di dieci anni). Né
si sono osservati fenomeni simili dopo il
crollo di Wall street nel 2008 (nei paesi più
ricchi c’è stata una riduzione del 7 per cento
circa tra il 2008 e il 2009, ma le loro emis-sioni sono riprese a pieno ritmo
nel 2010 e intanto quelle della Ci-na e dell’India hanno continuato
a  crescere).  Solo  subito  dopo  il
grande crollo del 1929, si appren-de dai dati storici del Carbon dio-xide information analysis centre, negli Sta-ti Uniti le emissioni diminuirono per alcuni
anni a un ritmo superiore al 10 per cento
all’anno. Ma quella è stata la peggior crisi
economica dell’epoca moderna.
Se vogliamo evitare disastri di quell’en-tità e raggiungere gli obiettivi di riduzione
delle emissioni indicati dagli scienziati, il
taglio della produzione di anidride carboni-ca dovrà essere gestito, come scrivono An-derson e Bows, con prudenza e attraverso
“strategie drastiche e immediate di decre-scita negli Stati Uniti, nell’Unione europea
e in altri paesi ricchi”. Questo non sarebbe
un problema se non fosse che il nostro siste-ma economico venera la crescita del pil più
di qualunque altra cosa, senza riguardo per
le conseguenze umane o ecologiche, e che
la classe politica neoliberista si è sottratta a
qualunque  responsabilità  (dal  momento
che il mercato è il genio invisibile a cui va
aidato tutto il resto). Secondo Anderson e
Bows, quindi, c’è ancora tempo per evitare
un riscaldamento catastroico, ma non con
le regole del capitalismo. È forse il miglior
argomento che sia mai esistito per sostene-re il cambiamento di queste regole.
Diicile ma fattibile
In un saggio del 2012 uscito su Nature Cli-mate Change, un’autorevole rivista scienti-ica, Anderson e Bows hanno lanciato qual-cosa di simile a una sida, accusando molti
colleghi di scarsa trasparenza sulle trasfor-mazioni che il cambiamento cli-matico impone all’umanità. Vale
la pena di citare i due per esteso:
“Nell’elaborare previsioni sulle
emissioni, gli scienziati minimiz-zano ripetutamente e gravemen-te le implicazioni delle loro analisi. Quando
si tratta di evitare l’aumento della tempera-tura di due gradi, ‘impossibile’ diventa ‘dif-icile ma fattibile’ e ‘urgente e drastico’ si
trasforma in ‘impegnativo’. Il tutto per pla-care il dio dell’economia (o, per la precisio-ne, della inanza). Per esempio, per rispet-tare il limite di riduzione delle emissioni
issato dagli economisti, si parte dal presup-posto che le emissioni hanno toccato picchi
‘impossibilmente’ precoci e si abbracciano
idee ingenue sulle tecnologie ‘avanzate’ e le
infrastrutture a bassa produzione di anidri-de carbonica. Ma l’aspetto più preoccupan-te è che mentre gli stanziamenti per il taglio
delle emissioni si riducono, la geoingegne-ria è proposta sempre più spesso come mez-zo per garantire che i diktat degli economi-sti non siano mai messi in dubbio”.
Per sembrare ragionevoli negli ambien-ti  economici  neoliberisti,  insomma,  gli
scienziati tengono gravemente in sordina i
risvolti delle loro ricerche. Ad agosto An-derson si è espresso in modo ancora più
esplicito e ha scritto che ormai la linea adot-tata  mirava  al  cambiamento  graduale.
“Forse nel 1992, all’epoca della conferenza
di Rio, o anche all’inizio del nuovo millen-nio, contenere il riscaldamento climatico
entro i due gradi sarebbe stato possibile at-traverso una trasformazione graduale in-terna al sistema politico ed economico do-minante. Ma il mutamento climatico è un
fenomeno cumulativo. Ora, nel 2013, i pae-si (post)industriali, che hanno alte emissio- ni di gas serra, si trovano di fronte a una
prospettiva molto diversa. Il nostro sperpe-ro continuato e collettivo di anidride carbo-nica  ha  annientato  tutte  le  possibilità  di
‘trasformazione graduale’ oferte dal pre-cedente budget di anidride per il conteni-mento del riscaldamento entro i due gradi.
Oggi, dopo vent’anni di bluf e menzogne, il
budget che ci resta impone un cambiamen-to  rivoluzionario  del  sistema  politico  ed
economico dominante”.
Probabilmente non dovremmo sorpren-derci del fatto che alcuni climatologi siano
un po’ spaventati dalle conseguenze drasti-che dettate dalle loro stesse ricerche. Que-sti studiosi si occupavano quasi tutti sem-plicemente di misurare carote di ghiaccio,
di elaborare modelli climatici globali e di
studiare l’acidiicazione degli oceani. Ma a
un certo punto, per citare l’esperto austra-liano di clima Clive Hamilton, hanno sco-perto che “stavano involontariamente de-stabilizzando l’ordine politico e sociale”.
Molti altri, tuttavia, sono consapevoli
della natura rivoluzionaria della climatolo-gia. Per questo alcuni governi che avevano
deciso di mettere da parte i loro impegni sul
clima e di continuare a produrre anidride
carbonica sono stati costretti a usare meto-di ancora più scellerati per ridurre al silen zio e intimidire gli scienziati del loro paese.
Nel Regno Unito questa strategia è sempre
più  evidente.  Di  recente  Ian  Boyd,  capo
consulente  scientifico  del  ministero
dell’ambiente, dell’alimentazione e degli
afari rurali, ha scritto che gli scienziati do-vrebbero evitare di “afermare che deter-minate misure politiche sono giuste o sba-gliate” e dovrebbero esprimere le loro opi-nioni “collaborando con consulenti interni
(come me) e ponendosi come voci della ra-gione e non del dissenso”.
un into funerale
Se volete sapere dove porterà tutto questo,
pensate a quello che sta succedendo in Ca-nada, il paese dove abito. Il governo conser-vatore di Stephen Harper è stato così eica-ce  nel  suo  tentativo  di  imbavagliare  gli
scienziati e di bloccare i progetti di ricerca
più importanti, che nel luglio del 2012 un
paio di migliaia di ricercatori e comuni cit-tadini ha celebrato un into funerale sulla
collina del parlamento a Ottawa per annun-ciare “la morte dei fatti scientiici”. Sui loro
cartelli era scritto: “Niente scienza, niente
fatti, niente verità”.
Ma la verità sta venendo a galla comun-que. Per sapere che la ricerca del proitto e
della crescita sta destabilizzando la vita sul-la Terra non bisogna più leggere le riviste
scientiiche. I primi segnali sono di fronte ai
nostri occhi. E sempre più persone stanno
reagendo di conseguenza con un numero
incalcolabile di azioni di resistenza grandi e
piccole: bloccando le attività di estrazione
basate sul fracking a Balcombe, in Inghilter-ra, interferendo con i preparativi per le tri-vellazioni nell’Artico in acque russe (pren-dendo rischi enormi per la propria vita) o
denunciando  le  aziende  che  lavorano  le
sabbie bituminose per aver violato la sovra-nità delle popolazioni indigene.
Nel modello elaborato da Brad Werner è
questa la “frizione” necessaria a rallentare
le forze di destabilizzazione: il grande atti-vista  per  la  salvaguardia  del  clima  Bill
McKibben li deinisce “anticorpi” che si at-tivano per contrastare la “febbre alta” del
pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un ini-zio. E potrebbe farci guadagnare il tempo
che serve per trovare un modo di vivere sul
pianeta senza restare troppo f ***uti. u fp



Rivolte
verdi
Michael T. Klare, Tomdispatch, Stati Uniti
Come dimostra l’esperienza di
Fukushima, in futuro sempre
più movimenti di protesta
nasceranno intorno a questioni
legate al clima e all’ambiente




capi di governo dovrebbero stare
in guardia dopo che il tifone più
potente della storia ha ridotto in
ginocchio le Filippine e dopo che
una  devastante  “apocalisse  at-mosferica” ha sofocato la città
cinese di Harbin con l’inquinamento delle
centrali a carbone. Anche se non è possibile
ricondurre  con  certezza  assoluta  questi
episodi al crescente impiego di combusti-bili fossili e al cambiamento climatico, que-ste catastroi, a quanto ci dicono gli scien-ziati, diventeranno parte integrante della
vita del pianeta a causa delle trasformazio-ni prodotte dal consumo intensivo di com-bustibili ad alta emissione di anidride car-bonica. Se, come sta succedendo, i governi
di  tutto  il  mondo  prolungheranno  l’era
dell’anidride carbonica e raforzeranno la
dipendenza  da  combustibili  fossili  “non
convenzionali” come le sabbie bituminose
e il gas da argille, aspettiamoci di inire nei
guai. O meglio ancora: aspettiamoci una
serie di insurrezioni popolari che porteran-no a una rivoluzione per l’energia pulita.
Nessuno può prevedere il futuro, ma è
possibile farsi un’idea dei rivolgimenti che
ci attendono pensando agli avvenimenti
del presente.  Via  via  che  la  popolazione
prende coscienza del cambiamento clima-tico e che le alluvioni, gli incendi, le siccità
e le tempeste sempre più violente diventa-no una componente inevitabile della vita
quotidiana, un numero crescente di perso-ne aderisce a organizzazioni ambientaliste
e partecipa ad azioni di protesta sempre più
clamorose. È probabile che prima o poi i
capi di governo dovranno afrontare diver-se rivolte popolari, e alla ine saranno co-stretti ad apportare modiiche sostanziali
alla politica energetica. In efetti è possibile
immaginare che una rivoluzione per l’ener-gia pulita possa scoppiare in una zona del
mondo e poi allargarsi a macchia d’olio alle
altre. Dato che il cambiamento climatico
inliggerà danni sempre più gravi alle per-sone, è plausibile che l’impulso a ribellarsi
si accentui su scala mondiale. Le circostan-ze potranno variare, ma lo scopo principale
di queste insurrezioni sarà quello di mette-re ine al dominio dei combustibili fossili e
di intensiicare gli investimenti nelle fonti
di energia rinnovabili. E se questi movi-menti avranno successo in un luogo, inco-raggeranno altre persone a imitarli.
Una simile ondata di rivolte consecuti-ve non sarebbe senza precedenti. Nei primi
anni duemila, per esempio, in diversi paesi
dell’ex Unione Sovietica un governo dopo
l’altro è stato spazzato via da quelle che so-no  passate  alla  storia  come  “rivoluzioni
colorate”: insurrezioni populiste contro i
vecchi regimi autoritari. Si fanno rientrare
in questo fenomeno la “rivoluzione delle
rose”  in  Georgia  (2003),  la  “rivoluzione
arancione” in Ucraina (2004) e la “rivolu-zione dei tulipani” in Kirghizistan (2005).
Nel 2011 una serie di proteste simili c’è sta-ta in Nordafrica, culminando in quella che
è stata chiamata “primavera araba”.
Come  nei  casi  precedenti,  anche  in
quello di una “rivoluzione verde” diicil-mente l’impulso verrà da una campagna
politica strutturata e con dei leader chiara-mente identiicabili. Con ogni probabilità il
movimento nascerà in modo spontaneo
quando le catastroi causate dal cambia-mento climatico provocheranno un’esplo-sione di rabbia collettiva. Una volta inne-scate, però, le proteste metteranno sotto
pressione i governi, pretendendo un cam-biamento profondo sull’energia e sul clima.
In questo senso tutte le sollevazioni, qua-lunque forma assumano, si dimostreranno
“rivoluzionarie”, dal momento che punte-ranno a cambiamenti politici così grandi da
mettere in dubbio l’esistenza stessa dei go-verni in carica o da costringerli a decidere
trasformazioni radicali.
I segni di questo processo si possono già
osservare. Si pensi alle proteste ambienta-liste scoppiate in Turchia a giugno. Anche
se erano nate intorno a un problema di sca-la decisamente più ridotta rispetto alla de-vastazione planetaria causata dal cambia-mento climatico, per un certo periodo han-no rappresentato una grave minaccia per il
primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e
per il suo partito. Alla ine il governo è riu-scito a reprimere le manifestazioni, ma la
reputazione  di  islamico  moderato  di
Erdoğan è stata compromessa gravemen-te.
Come molte rivoluzioni, la ribellione
turca è cominciata in sordina: il 27 maggio
2013 un piccolo gruppo di ambientalisti ha
bloccato le ruspe inviate dal governo per
radere al suolo il parco Gezi, una minuscola
oasi verde nel cuore di Istanbul, e fare spa-zio alla costruzione di un centro commer-ciale di lusso. Il governo ha ordinato alle
truppe antisommossa di sgombrare l’area,
ma la decisione ha fatto infuriare molti tur-DAN KITwOOD (GETTy ImAGES)
 Internazionale 1028 | 29 novembre 2013 47
chi e ha spinto decine di migliaia di persone
a occupare la vicina piazza Taksim. Questa
mossa ha portato a sua volta a un giro di vi-te ancora più brutale e quindi a enormi ma-nifestazioni a Istanbul e in tutto il paese. Le
proteste di massa sono scoppiate in settan-ta città: l’espressione di malcontento più
vasta da quando Erdoğan è andato al pote-re nel 2002. È stata, nel senso più letterale
del termine, una rivoluzione “verde”, sca-tenata  dall’attacco  sferrato  dal  governo
all’ultimo spazio verde nel centro di Istan-bul. Ma quando la polizia è intervenuta con
tutta la sua forza, l’iniziativa si è trasforma-ta in una critica severa degli impulsi autori-tari di Erdoğan e della sua aspirazione a
trasformare la città in un’attrazione turisti-ca neo-ottomana, eliminando i quartieri
poveri e gestendo in modo sconsiderato gli
spazi pubblici come piazza Taksim.
Questa evoluzione (da una protesta am-bientalista di scala ridotta a una sida a tut-to tondo all’autorità del governo) si ritrova
in altre proteste popolari degli ultimi anni.
Nell’ottobre del 2012, in Cina, gli studenti e
i cittadini della classe media si sono uniti
alla protesta degli agricoltori poveri contro
la costruzione di uno stabilimento petrol-chimico da 8,8 miliardi di dollari a Ningbo,
una città con 3,4 milioni di abitanti a sud di
Shanghai. In un paese dove l’inquinamento
ha raggiunto livelli quasi impossibili, que-ste proteste sono state causate dal timore
che l’impianto producesse paraxilene, una
sostanza tossica impiegata nella fabbrica-zione di plastica, vernici e solventi.
Anche in questo caso la scintilla che ha
fatto scoppiare le proteste era minuscola. Il
22 ottobre 2012 un paio di centinaia di agri-coltori ha bloccato una strada nel tentativo
di  impedire  la  costruzione  dello  stabili-mento. Quando la polizia è stata inviata a
disperdere la folla, gli studenti della vicina
università si sono uniti alla protesta. Scri-vendo sui social network, i manifestanti
hanno  ottenuto  il  sostegno  dei  cittadini
della classe media, che si sono radunati a
migliaia nel centro della città. Quando le
truppe antisommossa sono intervenute per
sgomberare l’assembramento, i manife-stanti hanno risposto all’attacco avventan-dosi contro le auto della polizia e lanciando
mattoni e bottiglie d’acqua. Alla ine le for-ze dell’ordine hanno avuto la meglio dopo
giorni di scontri violenti, ma il governo ci-nese ha capito che quell’iniziativa popola-re, avvenuta nel cuore di una città impor-tante e voluta da un’alleanza di studenti,
agricoltori e giovani professionisti, era un
pericolo eccessivo. Dopo cinque giorni di
contrapposizione il governo ha ceduto, riti-rando il progetto dell’impianto petrolchi-mico.
Le manifestazioni di Ningbo non sono
state le prime di questo tipo in Cina. Tutta-via hanno messo in luce la crescente vul-nerabilità del governo di fronte alle prote-ste ambientaliste di massa. Da decenni il
Partito comunista cinese giustiica il suo
monopolio del potere con il successo otte-nuto nel garantire una rapida crescita eco-nomica. Ma questo sviluppo comporta un
uso sempre maggiore di combustibili fos-sili e prodotti petrolchimici, che a sua volta
produce  un  aumento  delle  emissioni  di
anidride carbonica e un disastroso inqui-namento atmosferico. Fino a poco tempo
fa  i  cinesi  sembravano  accettare  queste
condizioni come effetti inevitabili della
crescita, ma a quanto pare la tolleranza nei
confronti del degrado ambientale si sta ri-ducendo  rapidamente.  Di  conseguenza
Pechino si trova davanti a un dilemma: può
rallentare lo sviluppo per decontaminare
l’ambiente, ma con il rischio di un progres-sivo malcontento economico, oppure può
continuare con la crescita a ogni costo ed
essere travolto da un vortice di proteste co-me quella di Ning bo.
Germania e Giappone
Questo dilemma è al centro di rivolte simi-li scoppiate in altri luoghi del pianeta. Due
casi, uno in Germania e l’altro in Giappone,
sono legati all’incidente nucleare di Fuku-shima dell’11 marzo 2011, causato dal vio-lento tsunami che aveva colpito il nord del
Giappone.  In  entrambi  i  casi  sono  stati
messi in discussione il futuro dell’energia
nucleare e i governi in carica.
Le azioni più imponenti si sono svolte in
Germania. Il 26 marzo 2011, 250mila per-sone hanno partecipato alle manifestazioni
contro il nucleare in tutto il paese: centomi-la a Berlino e quarantamila ad Amburgo,
Monaco e Colonia. “Le manifestazioni di
oggi sono il preludio di un nuovo e forte
movimento antinucleare”, ha detto Jochen
Stay,  uno  dei  promotori  dell’iniziativa.
“Non ci fermeremo inché le centrali non
saranno messe sotto naftalina”.
In  gioco  c’era  il  destino  delle  ultime
centrali nucleari attive in Germania. Anche
se viene spacciata come alternativa inte-ressante ai combustibili fossili, l’energia atomica è considerata pericolosa da molti
tedeschi. Alcuni mesi prima dell’incidente
di Fukushima la cancelliera Angela Merkel
aveva insistito per tenere in funzione ino al
2040 i diciassette reattori ancora in attività
nel paese, attuando una transizione gra-duale alle energie rinnovabili. Subito dopo
l’incidente di Fukushima, però, Merkel ha
ordinato la chiusura temporanea dei sette
reattori più vecchi per fare delle ispezioni
di sicurezza, ma non ha voluto spegnere gli
altri. In questo modo ha provocato un’on-data di proteste, di fronte alle quali, com-plice anche una sconitta elettorale nell’im-portante land del Baden-Württemberg, la
cancelliera è arrivata alla conclusione che
impuntarsi sarebbe stato un suicidio politi-co. Il 30 maggio ha annunciato che i sette
reattori  sotto  ispezione  sarebbero  stati
chiusi deinitivamente e che gli altri dieci
sarebbero stati disattivati entro il 2022.
Nessuno nega che la decisione di sba-razzarsi gradualmente dell’energia nucle-are con quasi vent’anni d’anticipo si riper-cuoterà in modo signiicativo sull’econo-mia tedesca. Secondo le stime, la chiusura
dei reattori e la loro sostituzione con l’ener-gia eolica e solare costerà 735 miliardi di
dollari e richiederà diversi decenni, provo-cando un’impennata delle tarife elettri-che, oltre a crisi energetiche periodiche.
Tuttavia, l’ostilità al nucleare in Germania
è così forte che Merkel ha ritenuto di non
avere altra scelta se non quella di disattiva-re comunque i reattori.
In Giappone le proteste contro il nucle-are sono cominciate molto dopo, ma non
sono state meno rilevanti. Il 16 luglio 2012,
sedici mesi dopo la catastrofe di Fukushi-ma, 170mila persone hanno protestato a
Tokyo contro il piano del governo di rimet-tere in funzione i reattori nucleari, bloccati
dopo l’incidente. Oltre a essere stata la ma-nifestazione antinucleare più imponente
organizzata in Giappone da anni, si è tratta-to anche della protesta più imponente nella
storia recente del paese.
Per il governo l’iniziativa del 16 luglio
ha rivestito un rilievo particolare. Prima di
Fukushima la maggioranza dei giapponesi
era favorevole all’energia nucleare e coni-dava nella capacità dello stato di garantirne
la sicurezza. Dopo l’incidente e i disastrosi
tentativi di afrontare la situazione com-piuti  dalla  proprietaria  dell’impianto,  la
Tokyo Electric Power Company (Tepco), il
sostegno dell’opinione pubblica all’energia
atomica ha toccato i minimi storici. Quan-do è diventato sempre più chiaro che il go-verno aveva gestito la crisi in modo inade-guato, la popolazione ha perso la iducia
nella sua capacità di esercitare un controllo
eicace sul settore nucleare. Le ripetute
promesse sulla possibilità di mettere in si-curezza i reattori hanno perso credibilità
quando si è scoperto che alcuni funzionari
pubblici avevano collaborato a lungo con i
dirigenti della Tepco per liquidare le preoc-cupazioni sulla sicurezza di Fukushima e,
in seguito all’incidente, per tenere segrete
le informazioni sulla vera portata della ca-tastrofe e delle sue conseguenze per la sa-lute umana.
La manifestazione del 16 luglio e altre
iniziative simili dovrebbero essere lette co-me un voto pubblico di siducia nei con-fronti della politica energetica e delle capa-cità di supervisione dello stato.
“Finora i giapponesi non si sono
espressi contro il governo nazio-nale”, ha afermato una manife-stante, una casalinga di 29 anni
scesa in piazza con il iglio di un
anno. “Ora dobbiamo far sentire la nostra
voce, altrimenti il governo ci metterà tutti
in pericolo”.
Lo scetticismo nei confronti dello stato,
un fenomeno raro nel Giappone del ventu-nesimo secolo, ha ostacolato in modo con-sistente il progetto del governo di riattivare
i  cinquanta  reattori  chiusi  temporanea-mente  in  tutto  il  paese.  Anche  se  molti
giapponesi sono contrari all’energia nucle-are, il primo ministro Shinzō Abe resta de-ciso a rimettere in funzione le centrali per
ridurre la forte dipendenza del Giappone
dall’importazione di energia elettrica e per
promuovere  la  crescita  economica.  “In
questa fase”, ha dichiarato il premier a ot-tobre, “mi sembra impossibile promettere
l’eliminazione delle centrali nucleari. Dal
punto di vista del governo, le centrali ato-miche sono molto importanti per stabiliz-zare la produzione di elettricità e le attività
economiche”. Ma, nonostante questa posi-zione, Abe sta facendo molta fatica a otte-nere il sostegno per i suoi piani ed è lecito
dubitare che un numero consistente di quei
reattori sarà ricollegato presto alla rete elet-trica.
Perdere il potere
Da questi episodi si può dedurre che in tut-to il mondo i cittadini sono sempre più pre-occupati per la politica energetica e per le
sue conseguenze, e sono pronti, spesso con
un preavviso minimo, a partecipare a pro-teste di massa. Allo stesso tempo i governi
di tutto il pianeta restano fedeli,
con rare eccezioni, alla politica
energetica già deinita. Questo li
trasforma quasi invariabilmente
in bersagli, a prescindere dal mo-tivo iniziale che ha dato impulso
al movimento d’opposizione. Man mano
che le conseguenze del cambiamento cli-matico diventano più devastanti, i funzio-nari pubblici si troveranno costretti a sce-gliere tra i progetti energetici già decisi in
passato e la possibilità di perdere il potere.
Dato che solo pochi paesi sono pronti a
realizzare le misure che permetterebbero
di cominciare ad afrontare il pericolo del
cambiamento climatico, i governi saranno
considerati sempre più spesso degli ostaco-li a un cambiamento sostanziale e quindi
degli elementi da eliminare. Insomma, la
ribellione ambientalista (una serie di pro-teste  spontanee  che  potrebbero  trasfor-marsi in qualunque istante in movimenti di
massa inarrestabili) è alle porte. Di fronte a
queste rivolte, i governi reagiranno in parte
accogliendo le rivendicazioni popolari e in
parte con una dura repressione.
Questi  sviluppi  metteranno  a  rischio
molti governi, ma a quanto pare i più vulne-rabili saranno i vertici cinesi. Per garantirsi
un futuro, il partito che governa la Repub-blica Popolare Cinese ha puntato su un pro-gramma di crescita continua, alimentata
dai combustibili fossili, che sta distruggen-do progressivamente l’ambiente. La Cina
ha già assistito a cinque o sei sollevamenti
ambientalisti come quello di Ningbo, e lo
stato ha reagito cedendo alle richieste dei
manifestanti oppure usando la forza. La
questione è quanto si possa continuare ad
andare avanti in questo modo.
Le condizioni dell’ambiente sono desti-nate a peggiorare, soprattutto se la Cina
continuerà a usare il carbone per il riscal-damento delle case e per la produzione di
energia elettrica. Eppure, nessun segnale   lascia pensare che il Partito comunista sia
pronto a compiere i drastici passi necessari
per ottenere una riduzione consistente del
consumo domestico di carbone. Data la si-tuazione, è possibile che in qualunque mo-mento in Cina scoppino proteste popolari
di portata potenzialmente senza preceden-ti. A loro volta, queste manifestazioni po-trebbero mettere in discussione l’esistenza
stessa del partito: uno scenario che di certo
produce un’ansia enorme tra gli alti diri-genti di Pechino.
Contro il fracking
E che dire degli Stati Uniti? Sarebbe ridico-lo afermare che a causa dei disordini i ver-tici politici del paese rischiano di essere
spazzati via o di essere costretti a passare
seriamente all’azione per ridimensionare
la dipendenza dai combustibili fossili. Tut-tavia, anche negli Stati Uniti si osservano
segni di una crescente opposizione popola-re ad alcuni aspetti dell’uso di queste fonti
energetiche, come le accese proteste con-tro la tecnica di estrazione del fracking e
contro l’oleodotto per le sabbie bituminose
Keystone Xl. Secondo lo scrittore e militan-te ambientalista Bill McKibben, tutti questi
elementi sono gli indizi che sta nascendo
un movimento di massa contro il consumo
di combustibili fossili. “Negli ultimi anni”,
ha scritto McKibben, questo movimento
“ha  bloccato  l’edificazione  di  decine  di
centrali elettriche a carbone, si è battuto
contro il piano dell’industria petrolifera di
costruire l’oleodotto Keystone Xl, ha con-vinto un gran numero di istituzioni statuni-tensi a disfarsi dei titoli legati alle aziende
dei  combustibili  fossili  e  ha  contrastato
progetti come lo spianamento delle vette
montuose  per  l’estrazione  di  carbone  e
l’impiego del fracking per la produzione di
gas  naturale”.  Queste  campagne  non
avranno ancora ottenuto lo stesso successo
del movimento per il matrimonio gay, ha
osservato l’attivista, ma “stanno crescendo
in fretta e cominciano a conseguire alcune
vittorie”.
Anche se è troppo presto per fare previ-sioni sul futuro di questo movimento con-tro l’emissione di anidride carbonica, sem-bra però che le proteste stiano acquistando
forza. Alle elezioni del 2013, per esempio,
Boulder, Fort Collins e Lafayette (tre città
del Colorado, uno stato ricco di fonti ener-getiche) hanno votato per mettere al bando
o stabilire una moratoria sul fracking nel
loro territorio, e intanto le proteste contro
il Keystone Xl e altri progetti simili si stan-no intensiicando. Nessuno può dire con
certezza se la rivoluzione per l’energia pu-lita ci sarà, ma chi può negare che le prote-ste ambientaliste incentrate sulla questio-ne energetica negli Stati Uniti e in altri pa-esi  possano  trasformarsi  in  qualcosa  di
molto più grande? Come la Cina, nei pros-simi anni anche gli Stati Uniti subiranno
gravi danni a causa del mutamento clima-tico  e  del  loro  incrollabile  legame  con  i
combustibili fossili.
Gli statunitensi non sono in genere per-sone passive. Aspettiamoci che, come i ci-nesi, anche loro reagiscano a questi perico-li con collera crescente e con una forte de-terminazione  a  cambiare  la  politica  del
governo. Quindi non sorprendiamoci se la
rivoluzione per l’energia pulita scoppierà
nel nostro quartiere: è la reazione dell’uma-nità al rischio più grave che abbiamo mai
dovuto afrontare. Se i governi non passe-ranno all’azione per salvare il pianeta, qual-cun altro ci penserà. u fp
L’AUTORE
Michael T. Klare insegna studi sulla pace
e sulla sicurezza mondiale all’Hampshire
college. Il suo ultimo libro uscito in Italia è
Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna
gli equilibri politici mondiali (Edizioni

1028 - INCHIESTA - Un clima rivoluzionario In copertina La crescita a ogni costo sta uccidendo il pianeta. Sulla base dei loro studi, anche i climatologi sono arrivati alla conclusione che il sistema economico capitalista non è più sostenibile

N
el dicembre  del  2012
l’esperto di sistemi com-plessi Brad Werner, con
i  suoi  capelli  rosa,  si  è
fatto strada tra i 24mila
studiosi di scienze della
Terra e dello spazio al convegno dell’Ameri-can geophysical union che si tiene ogni an-no a San Francisco. All’evento c’erano nomi
importanti, come Ed Stone, del progetto
Voyager della Nasa, che ha parlato di una
nuova pietra miliare sulla strada per lo spa-zio interstellare, e il regista James Came-ron, che ha raccontato le sue avventure in
sommergibile negli abissi del mare.
Ma la conferenza che ha fatto più scal-pore è stata quella di Werner, intitolata “La
Terra è f ***uta?” (il titolo intero era: “La
Terra è f ***uta? La futilità dinamica della
gestione ambientale globale e le possibilità
di garantire la sostenibilità attraverso l’azio-ne diretta degli attivisti”). In piedi di fronte
alla platea, il geoisico dell’Università della
California a San Diego ha risposto alla do-manda usando un modello computerizzato.
Lo scienziato ha parlato di limiti dei sistemi,
perturbazioni, dissipazione, attrattori, bi-forcazioni e altre cose per lo più incompren-sibili a chi non è esperto di teoria dei sistemi
complessi. Ma la morale era chiara: il capi-talismo globale ha reso lo sfruttamento in-tensivo delle risorse così rapido, convenien-te e illimitato che per reazione i “sistemi
geoumani” stanno diventando pericolosa-mente instabili. Messo sotto pressione da
un giornalista che chiedeva una risposta
chiara alla domanda “siamo f ***uti?”, Wer-ner ha messo da parte i termini tecnici e ha
risposto: “Più o meno”.
Tuttavia una dinamica del suo modello
ofriva qualche speranza. Werner l’ha dei-nita “resistenza”: i movimenti di “gruppi o
individui” che “adottano un certo insieme
di dinamiche che non si integrano nella cul-tura capitalistica”. Nel sommario della sua
presentazione si legge che questo fattore
comprende “l’azione diretta ambientalista,
la resistenza proveniente dall’esterno della
cultura dominante, come nelle manifesta-zioni di protesta e nei sabotaggi compiuti
dalle popolazioni indigene, dai lavoratori,
dagli anarchici e da altre organizzazioni di
attivisti”.
Di solito ai convegni scientiici non si
lanciano appelli alla resistenza politica di
massa e tanto meno all’azione diretta e al
sabotaggio. Ma a dire il vero Werner non ha
invitato a fare niente del genere: si è limita-to a osservare che le rivolte di massa (un po’
come il movimento abolizionista, quello
per i diritti civili o Occupy Wall street) rap-presentano l’elemento di “frizione” che con
più probabilità sarà in grado di rallentare un
meccanismo economico sempre più fuori
controllo. Come sappiamo, ha osservato lo
scienziato, in passato i movimenti sociali
hanno “esercitato un’inluenza straordina-ria sull’evoluzione della cultura dominan-te”. Quindi è ragionevole afermare che “se
pensiamo al futuro della Terra e della no-stra relazione con l’ambiente, dobbiamo
inserire la resistenza nel quadro di questa
dinamica”. Non si tratta, ha afermato Wer-ner, di un’opinione, ma “di un problema
geoisico”.
In manette
Molti scienziati sono stati spinti dai risultati
delle loro ricerche a scendere in piazza e a
passare all’azione. Fisici, astronomi, medici
e biologi si sono schierati in prima linea nel-le battaglie contro le armi nucleari, l’ener-gia atomica, la guerra, la contaminazione
chimica e il creazionismo. Poi nel novem-bre del 2012 Nature ha pubblicato un edito-riale del inanziere e ilantropo ambientali-sta Jeremy Grantham in cui si invitavano gli
scienziati a seguire questa tradizione e a
“farsi  arrestare  se  necessario”,  perché  il
cambiamento climatico “non è solo la crisi
della nostra vita: è anche la crisi dell’esi-stenza della nostra specie”.
Alcuni scienziati non hanno bisogno di
farsi convincere. James Hansen, il padre
della climatologia moderna, è un attivista
formidabile ed è stato arrestato almeno cin-que o sei volte per aver opposto resistenza
allo spianamento delle vette montuose per
l’estrazione di carbone e alla costruzione di
oleodotti  per  le  sabbie  bituminose
(quest’anno lo scienziato ha perino lasciato
il lavoro alla Nasa per dedicare più tempo
alla militanza). Due anni fa, quando sono
stata arrestata davanti alla Casa Bianca du-rante una manifestazione contro l’oleodot-to per sabbie bituminose Keystone Xl, una
delle 166 persone inite quel giorno in ma-nette era il glaciologo Jason Box, un esperto
di fama mondiale dello scioglimento dei
ghiacci della Groenlandia. “Se non ci fossi
andato avrei perso la mia autostima”, mi ha
detto allora Box, aggiungendo che “in que-sto caso votare non basta. Ho bisogno di
essere anche un cittadino”.
Questa reazione è lodevole, ma quello
che sta facendo Werner con i suoi modelli è
diverso. Lo scienziato non sta dicendo che
le sue ricerche lo hanno spinto a passare  ll’azione per fermare una particolare leg-ge: le sue ricerche dimostrano che il nostro
modello economico mette a rischio la stabi-lità ecologica e che contrastare questo mo-dello (attraverso l’opposizione di massa) è il
modo migliore di evitare la catastrofe. Sono
afermazioni drastiche, ma Werner non è
solo. Lo studioso fa parte di un gruppo ri-stretto ma sempre più autorevole di scien-ziati che hanno fatto ricerche sulla destabi-lizzazione dei sistemi naturali e sono arri-vati a conclusioni rivoluzionarie. A chiun-que nutra in cuor suo un impulso di ribellio-ne e abbia sognato di rovesciare l’attuale
ordine economico per introdurne uno che
non spinga al suicidio i pensionati italiani,
questo lavoro dovrebbe risultare particolar-mente interessante. Perché dimostra che
l’aspirazione a disfarsi di questo sistema
spietato per sostituirlo con uno nuovo (e
magari, lavorandoci molto, anche migliore)
non è più questione di orientamento ideo-logico, ma è piuttosto una necessità per la
sopravvivenza della specie umana.
Alla  testa  di  questo  nuovo  gruppo  di
scienziati rivoluzionari c’è uno dei più im-portanti climatologi britannici: Kevin An-derson, il vicedirettore del Tyndall centre
for climate change research. Rivolgendosi
a chiunque, dal ministero britannico dello
sviluppo internazionale al consiglio comu-nale di Manchester, Anderson ha dedicato
più  di  dieci  anni  al  paziente  tentativo  di
spiegare a politici, economisti e attivisti le
implicazioni degli ultimi risultati della cli-matologia. Usando un linguaggio chiaro e
comprensibile, lo scienziato ha deinito una
serie rigorosa di passi da compiere per ri-durre le emissioni in modo da mantenere
l’aumento della temperatura globale al di
sotto dei due gradi, un obiettivo che secon-do molti governi dovrebbe prevenire la ca-tastrofe. Ma negli ultimi anni gli articoli e le
conferenze di Anderson sono diventati più
allarmanti. Nei suoi interventi – intitolati
per esempio “Mutamento climatico: al di là
del pericolo, numeri brutali e tenui speran-ze” – lo studioso sottolinea che le possibilità
Superstiti in attesa di aiuti in un villaggio a nord di Tacloban, Filippine, 17 novembre 2013
44Internazionale 1028 | 29 novembre 2013
In copertina
di mantenere le temperature entro i limiti
di  sicurezza  si  stanno  riducendo  rapida-mente.  Insieme  alla  collega  Alice  Bows,
un’esperta del Tyndall centre che si occupa
di mitigazione del clima, Anderson osserva
che abbiamo perso tanto tempo tra stalli
politici e misure deboli per la gestione del
clima (mentre i consumi e le emissioni glo-bali  s’impennavano)  che  ora  dovremmo
fare tagli così drastici da mettere in discus-sione la logica stessa che assegna la massi-ma priorità alla crescita del pil.
Anderson  e  Bows  ci  comunicano  che
l’obiettivo tanto citato della mitigazione di
lungo periodo (ridurre dell’80 per cento le
emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il
2050) è stato indicato per motivi di pura
convenienza politica e non poggia su “nes-suna base scientiica”. Il fatto è che sul cli-ma non esercita un impatto solo quello che
emettiamo oggi e domani, ma le emissioni
cumulative che con il tempo si raccolgono
nell’atmosfera. Inoltre, gli scienziati ci av-vertono che concentrandoci su un obiettivo
distante trentacinque anni (invece di pen-sare a quello che si può fare per ridurre le
emissioni di anidride carbonica in modo
netto e immediato) rischiamo seriamente
che le emissioni continuino ad aumentare
per anni, mettendoci in una posizione inso-stenibile per il resto del secolo.
Per questo Anderson e Bows sostengo-no che se i governi dei paesi sviluppati han-no  davvero  intenzione  di  raggiungere
l’obiettivo concordato a livello internazio-nale  di  mantenere  l’innalzamento  della
temperatura al di sotto dei due gradi centi-gradi e se vogliono che i tagli rispettino un
principio di equità (secondo cui in sostanza
i paesi che hanno rilasciato anidride carbo-nica per buona parte degli ultimi due secoli
dovranno  ridurre  le  emissioni  prima  di
quelli in cui più di un miliardo di persone
vive ancora senza l’elettricità), allora i tagli
dovranno andare molto più a fondo e si do-vranno fare molto prima.
Per ottenere anche solo una possibilità
del 50 per cento di contenere il riscalda-mento climatico entro i due gradi (che, co-me avvertono Anderson, Bows e molti altri
scienziati, implica già una serie di disastri
climatici), i paesi industrializzati dovranno
ridurre le loro emissioni di gas serra di circa
il 10 per cento all’anno in da subito. Ma An-derson e Bows si spingono anche più in là,
facendo notare che quest’obiettivo non po-trà essere realizzato con le misure di mode-sta tassazione delle emissioni di anidride
carbonica o con le soluzioni di tecnologia
verde proposte in genere dalle grandi orga-nizzazioni ambientaliste. Queste strategie
non bastano: una riduzione del 10 per cento
all’anno è un fenomeno praticamente sen-za precedenti da quando abbiamo comin-ciato ad alimentare l’economia con il car-bone. In efetti, un calo superiore all’1 per
cento all’anno “è stato associato storica-mente solo alle recessioni economiche o ai
sovvertimenti politici”, spiega l’economista
Nicholas Stern nel suo rapporto sui cambia-menti climatici realizzato nel 2006 per il
governo britannico.
Neanche in seguito al crollo dell’Unione
Sovietica ci sono state riduzioni di questa
durata e intensità (gli ex stati sovietici han-no registrato in media un calo del 5 per cen-to all’anno per un periodo di dieci anni). Né
si sono osservati fenomeni simili dopo il
crollo di Wall street nel 2008 (nei paesi più
ricchi c’è stata una riduzione del 7 per cento
circa tra il 2008 e il 2009, ma le loro emis-sioni sono riprese a pieno ritmo
nel 2010 e intanto quelle della Ci-na e dell’India hanno continuato
a  crescere).  Solo  subito  dopo  il
grande crollo del 1929, si appren-de dai dati storici del Carbon dio-xide information analysis centre, negli Sta-ti Uniti le emissioni diminuirono per alcuni
anni a un ritmo superiore al 10 per cento
all’anno. Ma quella è stata la peggior crisi
economica dell’epoca moderna.
Se vogliamo evitare disastri di quell’en-tità e raggiungere gli obiettivi di riduzione
delle emissioni indicati dagli scienziati, il
taglio della produzione di anidride carboni-ca dovrà essere gestito, come scrivono An-derson e Bows, con prudenza e attraverso
“strategie drastiche e immediate di decre-scita negli Stati Uniti, nell’Unione europea
e in altri paesi ricchi”. Questo non sarebbe
un problema se non fosse che il nostro siste-ma economico venera la crescita del pil più
di qualunque altra cosa, senza riguardo per
le conseguenze umane o ecologiche, e che
la classe politica neoliberista si è sottratta a
qualunque  responsabilità  (dal  momento
che il mercato è il genio invisibile a cui va
aidato tutto il resto). Secondo Anderson e
Bows, quindi, c’è ancora tempo per evitare
un riscaldamento catastroico, ma non con
le regole del capitalismo. È forse il miglior
argomento che sia mai esistito per sostene-re il cambiamento di queste regole.
Diicile ma fattibile
In un saggio del 2012 uscito su Nature Cli-mate Change, un’autorevole rivista scienti-ica, Anderson e Bows hanno lanciato qual-cosa di simile a una sida, accusando molti
colleghi di scarsa trasparenza sulle trasfor-mazioni che il cambiamento cli-matico impone all’umanità. Vale
la pena di citare i due per esteso:
“Nell’elaborare previsioni sulle
emissioni, gli scienziati minimiz-zano ripetutamente e gravemen-te le implicazioni delle loro analisi. Quando
si tratta di evitare l’aumento della tempera-tura di due gradi, ‘impossibile’ diventa ‘dif-icile ma fattibile’ e ‘urgente e drastico’ si
trasforma in ‘impegnativo’. Il tutto per pla-care il dio dell’economia (o, per la precisio-ne, della inanza). Per esempio, per rispet-tare il limite di riduzione delle emissioni
issato dagli economisti, si parte dal presup-posto che le emissioni hanno toccato picchi
‘impossibilmente’ precoci e si abbracciano
idee ingenue sulle tecnologie ‘avanzate’ e le
infrastrutture a bassa produzione di anidri-de carbonica. Ma l’aspetto più preoccupan-te è che mentre gli stanziamenti per il taglio
delle emissioni si riducono, la geoingegne-ria è proposta sempre più spesso come mez-zo per garantire che i diktat degli economi-sti non siano mai messi in dubbio”.
Per sembrare ragionevoli negli ambien-ti  economici  neoliberisti,  insomma,  gli
scienziati tengono gravemente in sordina i
risvolti delle loro ricerche. Ad agosto An-derson si è espresso in modo ancora più
esplicito e ha scritto che ormai la linea adot-tata  mirava  al  cambiamento  graduale.
“Forse nel 1992, all’epoca della conferenza
di Rio, o anche all’inizio del nuovo millen-nio, contenere il riscaldamento climatico
entro i due gradi sarebbe stato possibile at-traverso una trasformazione graduale in-terna al sistema politico ed economico do-minante. Ma il mutamento climatico è un
fenomeno cumulativo. Ora, nel 2013, i pae-si (post)industriali, che hanno alte emissio- ni di gas serra, si trovano di fronte a una
prospettiva molto diversa. Il nostro sperpe-ro continuato e collettivo di anidride carbo-nica  ha  annientato  tutte  le  possibilità  di
‘trasformazione graduale’ oferte dal pre-cedente budget di anidride per il conteni-mento del riscaldamento entro i due gradi.
Oggi, dopo vent’anni di bluf e menzogne, il
budget che ci resta impone un cambiamen-to  rivoluzionario  del  sistema  politico  ed
economico dominante”.
Probabilmente non dovremmo sorpren-derci del fatto che alcuni climatologi siano
un po’ spaventati dalle conseguenze drasti-che dettate dalle loro stesse ricerche. Que-sti studiosi si occupavano quasi tutti sem-plicemente di misurare carote di ghiaccio,
di elaborare modelli climatici globali e di
studiare l’acidiicazione degli oceani. Ma a
un certo punto, per citare l’esperto austra-liano di clima Clive Hamilton, hanno sco-perto che “stavano involontariamente de-stabilizzando l’ordine politico e sociale”.
Molti altri, tuttavia, sono consapevoli
della natura rivoluzionaria della climatolo-gia. Per questo alcuni governi che avevano
deciso di mettere da parte i loro impegni sul
clima e di continuare a produrre anidride
carbonica sono stati costretti a usare meto-di ancora più scellerati per ridurre al silen zio e intimidire gli scienziati del loro paese.
Nel Regno Unito questa strategia è sempre
più  evidente.  Di  recente  Ian  Boyd,  capo
consulente  scientifico  del  ministero
dell’ambiente, dell’alimentazione e degli
afari rurali, ha scritto che gli scienziati do-vrebbero evitare di “afermare che deter-minate misure politiche sono giuste o sba-gliate” e dovrebbero esprimere le loro opi-nioni “collaborando con consulenti interni
(come me) e ponendosi come voci della ra-gione e non del dissenso”.
un into funerale
Se volete sapere dove porterà tutto questo,
pensate a quello che sta succedendo in Ca-nada, il paese dove abito. Il governo conser-vatore di Stephen Harper è stato così eica-ce  nel  suo  tentativo  di  imbavagliare  gli
scienziati e di bloccare i progetti di ricerca
più importanti, che nel luglio del 2012 un
paio di migliaia di ricercatori e comuni cit-tadini ha celebrato un into funerale sulla
collina del parlamento a Ottawa per annun-ciare “la morte dei fatti scientiici”. Sui loro
cartelli era scritto: “Niente scienza, niente
fatti, niente verità”.
Ma la verità sta venendo a galla comun-que. Per sapere che la ricerca del proitto e
della crescita sta destabilizzando la vita sul-la Terra non bisogna più leggere le riviste
scientiiche. I primi segnali sono di fronte ai
nostri occhi. E sempre più persone stanno
reagendo di conseguenza con un numero
incalcolabile di azioni di resistenza grandi e
piccole: bloccando le attività di estrazione
basate sul fracking a Balcombe, in Inghilter-ra, interferendo con i preparativi per le tri-vellazioni nell’Artico in acque russe (pren-dendo rischi enormi per la propria vita) o
denunciando  le  aziende  che  lavorano  le
sabbie bituminose per aver violato la sovra-nità delle popolazioni indigene.
Nel modello elaborato da Brad Werner è
questa la “frizione” necessaria a rallentare
le forze di destabilizzazione: il grande atti-vista  per  la  salvaguardia  del  clima  Bill
McKibben li deinisce “anticorpi” che si at-tivano per contrastare la “febbre alta” del
pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un ini-zio. E potrebbe farci guadagnare il tempo
che serve per trovare un modo di vivere sul
pianeta senza restare troppo f ***uti. u fp



Rivolte
verdi
Michael T. Klare, Tomdispatch, Stati Uniti
Come dimostra l’esperienza di
Fukushima, in futuro sempre
più movimenti di protesta
nasceranno intorno a questioni
legate al clima e all’ambiente




capi di governo dovrebbero stare
in guardia dopo che il tifone più
potente della storia ha ridotto in
ginocchio le Filippine e dopo che
una  devastante  “apocalisse  at-mosferica” ha sofocato la città
cinese di Harbin con l’inquinamento delle
centrali a carbone. Anche se non è possibile
ricondurre  con  certezza  assoluta  questi
episodi al crescente impiego di combusti-bili fossili e al cambiamento climatico, que-ste catastroi, a quanto ci dicono gli scien-ziati, diventeranno parte integrante della
vita del pianeta a causa delle trasformazio-ni prodotte dal consumo intensivo di com-bustibili ad alta emissione di anidride car-bonica. Se, come sta succedendo, i governi
di  tutto  il  mondo  prolungheranno  l’era
dell’anidride carbonica e raforzeranno la
dipendenza  da  combustibili  fossili  “non
convenzionali” come le sabbie bituminose
e il gas da argille, aspettiamoci di inire nei
guai. O meglio ancora: aspettiamoci una
serie di insurrezioni popolari che porteran-no a una rivoluzione per l’energia pulita.
Nessuno può prevedere il futuro, ma è
possibile farsi un’idea dei rivolgimenti che
ci attendono pensando agli avvenimenti
del presente.  Via  via  che  la  popolazione
prende coscienza del cambiamento clima-tico e che le alluvioni, gli incendi, le siccità
e le tempeste sempre più violente diventa-no una componente inevitabile della vita
quotidiana, un numero crescente di perso-ne aderisce a organizzazioni ambientaliste
e partecipa ad azioni di protesta sempre più
clamorose. È probabile che prima o poi i
capi di governo dovranno afrontare diver-se rivolte popolari, e alla ine saranno co-stretti ad apportare modiiche sostanziali
alla politica energetica. In efetti è possibile
immaginare che una rivoluzione per l’ener-gia pulita possa scoppiare in una zona del
mondo e poi allargarsi a macchia d’olio alle
altre. Dato che il cambiamento climatico
inliggerà danni sempre più gravi alle per-sone, è plausibile che l’impulso a ribellarsi
si accentui su scala mondiale. Le circostan-ze potranno variare, ma lo scopo principale
di queste insurrezioni sarà quello di mette-re ine al dominio dei combustibili fossili e
di intensiicare gli investimenti nelle fonti
di energia rinnovabili. E se questi movi-menti avranno successo in un luogo, inco-raggeranno altre persone a imitarli.
Una simile ondata di rivolte consecuti-ve non sarebbe senza precedenti. Nei primi
anni duemila, per esempio, in diversi paesi
dell’ex Unione Sovietica un governo dopo
l’altro è stato spazzato via da quelle che so-no  passate  alla  storia  come  “rivoluzioni
colorate”: insurrezioni populiste contro i
vecchi regimi autoritari. Si fanno rientrare
in questo fenomeno la “rivoluzione delle
rose”  in  Georgia  (2003),  la  “rivoluzione
arancione” in Ucraina (2004) e la “rivolu-zione dei tulipani” in Kirghizistan (2005).
Nel 2011 una serie di proteste simili c’è sta-ta in Nordafrica, culminando in quella che
è stata chiamata “primavera araba”.
Come  nei  casi  precedenti,  anche  in
quello di una “rivoluzione verde” diicil-mente l’impulso verrà da una campagna
politica strutturata e con dei leader chiara-mente identiicabili. Con ogni probabilità il
movimento nascerà in modo spontaneo
quando le catastroi causate dal cambia-mento climatico provocheranno un’esplo-sione di rabbia collettiva. Una volta inne-scate, però, le proteste metteranno sotto
pressione i governi, pretendendo un cam-biamento profondo sull’energia e sul clima.
In questo senso tutte le sollevazioni, qua-lunque forma assumano, si dimostreranno
“rivoluzionarie”, dal momento che punte-ranno a cambiamenti politici così grandi da
mettere in dubbio l’esistenza stessa dei go-verni in carica o da costringerli a decidere
trasformazioni radicali.
I segni di questo processo si possono già
osservare. Si pensi alle proteste ambienta-liste scoppiate in Turchia a giugno. Anche
se erano nate intorno a un problema di sca-la decisamente più ridotta rispetto alla de-vastazione planetaria causata dal cambia-mento climatico, per un certo periodo han-no rappresentato una grave minaccia per il
primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e
per il suo partito. Alla ine il governo è riu-scito a reprimere le manifestazioni, ma la
reputazione  di  islamico  moderato  di
Erdoğan è stata compromessa gravemen-te.
Come molte rivoluzioni, la ribellione
turca è cominciata in sordina: il 27 maggio
2013 un piccolo gruppo di ambientalisti ha
bloccato le ruspe inviate dal governo per
radere al suolo il parco Gezi, una minuscola
oasi verde nel cuore di Istanbul, e fare spa-zio alla costruzione di un centro commer-ciale di lusso. Il governo ha ordinato alle
truppe antisommossa di sgombrare l’area,
ma la decisione ha fatto infuriare molti tur-DAN KITwOOD (GETTy ImAGES)
 Internazionale 1028 | 29 novembre 2013 47
chi e ha spinto decine di migliaia di persone
a occupare la vicina piazza Taksim. Questa
mossa ha portato a sua volta a un giro di vi-te ancora più brutale e quindi a enormi ma-nifestazioni a Istanbul e in tutto il paese. Le
proteste di massa sono scoppiate in settan-ta città: l’espressione di malcontento più
vasta da quando Erdoğan è andato al pote-re nel 2002. È stata, nel senso più letterale
del termine, una rivoluzione “verde”, sca-tenata  dall’attacco  sferrato  dal  governo
all’ultimo spazio verde nel centro di Istan-bul. Ma quando la polizia è intervenuta con
tutta la sua forza, l’iniziativa si è trasforma-ta in una critica severa degli impulsi autori-tari di Erdoğan e della sua aspirazione a
trasformare la città in un’attrazione turisti-ca neo-ottomana, eliminando i quartieri
poveri e gestendo in modo sconsiderato gli
spazi pubblici come piazza Taksim.
Questa evoluzione (da una protesta am-bientalista di scala ridotta a una sida a tut-to tondo all’autorità del governo) si ritrova
in altre proteste popolari degli ultimi anni.
Nell’ottobre del 2012, in Cina, gli studenti e
i cittadini della classe media si sono uniti
alla protesta degli agricoltori poveri contro
la costruzione di uno stabilimento petrol-chimico da 8,8 miliardi di dollari a Ningbo,
una città con 3,4 milioni di abitanti a sud di
Shanghai. In un paese dove l’inquinamento
ha raggiunto livelli quasi impossibili, que-ste proteste sono state causate dal timore
che l’impianto producesse paraxilene, una
sostanza tossica impiegata nella fabbrica-zione di plastica, vernici e solventi.
Anche in questo caso la scintilla che ha
fatto scoppiare le proteste era minuscola. Il
22 ottobre 2012 un paio di centinaia di agri-coltori ha bloccato una strada nel tentativo
di  impedire  la  costruzione  dello  stabili-mento. Quando la polizia è stata inviata a
disperdere la folla, gli studenti della vicina
università si sono uniti alla protesta. Scri-vendo sui social network, i manifestanti
hanno  ottenuto  il  sostegno  dei  cittadini
della classe media, che si sono radunati a
migliaia nel centro della città. Quando le
truppe antisommossa sono intervenute per
sgomberare l’assembramento, i manife-stanti hanno risposto all’attacco avventan-dosi contro le auto della polizia e lanciando
mattoni e bottiglie d’acqua. Alla ine le for-ze dell’ordine hanno avuto la meglio dopo
giorni di scontri violenti, ma il governo ci-nese ha capito che quell’iniziativa popola-re, avvenuta nel cuore di una città impor-tante e voluta da un’alleanza di studenti,
agricoltori e giovani professionisti, era un
pericolo eccessivo. Dopo cinque giorni di
contrapposizione il governo ha ceduto, riti-rando il progetto dell’impianto petrolchi-mico.
Le manifestazioni di Ningbo non sono
state le prime di questo tipo in Cina. Tutta-via hanno messo in luce la crescente vul-nerabilità del governo di fronte alle prote-ste ambientaliste di massa. Da decenni il
Partito comunista cinese giustiica il suo
monopolio del potere con il successo otte-nuto nel garantire una rapida crescita eco-nomica. Ma questo sviluppo comporta un
uso sempre maggiore di combustibili fos-sili e prodotti petrolchimici, che a sua volta
produce  un  aumento  delle  emissioni  di
anidride carbonica e un disastroso inqui-namento atmosferico. Fino a poco tempo
fa  i  cinesi  sembravano  accettare  queste
condizioni come effetti inevitabili della
crescita, ma a quanto pare la tolleranza nei
confronti del degrado ambientale si sta ri-ducendo  rapidamente.  Di  conseguenza
Pechino si trova davanti a un dilemma: può
rallentare lo sviluppo per decontaminare
l’ambiente, ma con il rischio di un progres-sivo malcontento economico, oppure può
continuare con la crescita a ogni costo ed
essere travolto da un vortice di proteste co-me quella di Ning bo.
Germania e Giappone
Questo dilemma è al centro di rivolte simi-li scoppiate in altri luoghi del pianeta. Due
casi, uno in Germania e l’altro in Giappone,
sono legati all’incidente nucleare di Fuku-shima dell’11 marzo 2011, causato dal vio-lento tsunami che aveva colpito il nord del
Giappone.  In  entrambi  i  casi  sono  stati
messi in discussione il futuro dell’energia
nucleare e i governi in carica.
Le azioni più imponenti si sono svolte in
Germania. Il 26 marzo 2011, 250mila per-sone hanno partecipato alle manifestazioni
contro il nucleare in tutto il paese: centomi-la a Berlino e quarantamila ad Amburgo,
Monaco e Colonia. “Le manifestazioni di
oggi sono il preludio di un nuovo e forte
movimento antinucleare”, ha detto Jochen
Stay,  uno  dei  promotori  dell’iniziativa.
“Non ci fermeremo inché le centrali non
saranno messe sotto naftalina”.
In  gioco  c’era  il  destino  delle  ultime
centrali nucleari attive in Germania. Anche
se viene spacciata come alternativa inte-ressante ai combustibili fossili, l’energia atomica è considerata pericolosa da molti
tedeschi. Alcuni mesi prima dell’incidente
di Fukushima la cancelliera Angela Merkel
aveva insistito per tenere in funzione ino al
2040 i diciassette reattori ancora in attività
nel paese, attuando una transizione gra-duale alle energie rinnovabili. Subito dopo
l’incidente di Fukushima, però, Merkel ha
ordinato la chiusura temporanea dei sette
reattori più vecchi per fare delle ispezioni
di sicurezza, ma non ha voluto spegnere gli
altri. In questo modo ha provocato un’on-data di proteste, di fronte alle quali, com-plice anche una sconitta elettorale nell’im-portante land del Baden-Württemberg, la
cancelliera è arrivata alla conclusione che
impuntarsi sarebbe stato un suicidio politi-co. Il 30 maggio ha annunciato che i sette
reattori  sotto  ispezione  sarebbero  stati
chiusi deinitivamente e che gli altri dieci
sarebbero stati disattivati entro il 2022.
Nessuno nega che la decisione di sba-razzarsi gradualmente dell’energia nucle-are con quasi vent’anni d’anticipo si riper-cuoterà in modo signiicativo sull’econo-mia tedesca. Secondo le stime, la chiusura
dei reattori e la loro sostituzione con l’ener-gia eolica e solare costerà 735 miliardi di
dollari e richiederà diversi decenni, provo-cando un’impennata delle tarife elettri-che, oltre a crisi energetiche periodiche.
Tuttavia, l’ostilità al nucleare in Germania
è così forte che Merkel ha ritenuto di non
avere altra scelta se non quella di disattiva-re comunque i reattori.
In Giappone le proteste contro il nucle-are sono cominciate molto dopo, ma non
sono state meno rilevanti. Il 16 luglio 2012,
sedici mesi dopo la catastrofe di Fukushi-ma, 170mila persone hanno protestato a
Tokyo contro il piano del governo di rimet-tere in funzione i reattori nucleari, bloccati
dopo l’incidente. Oltre a essere stata la ma-nifestazione antinucleare più imponente
organizzata in Giappone da anni, si è tratta-to anche della protesta più imponente nella
storia recente del paese.
Per il governo l’iniziativa del 16 luglio
ha rivestito un rilievo particolare. Prima di
Fukushima la maggioranza dei giapponesi
era favorevole all’energia nucleare e coni-dava nella capacità dello stato di garantirne
la sicurezza. Dopo l’incidente e i disastrosi
tentativi di afrontare la situazione com-piuti  dalla  proprietaria  dell’impianto,  la
Tokyo Electric Power Company (Tepco), il
sostegno dell’opinione pubblica all’energia
atomica ha toccato i minimi storici. Quan-do è diventato sempre più chiaro che il go-verno aveva gestito la crisi in modo inade-guato, la popolazione ha perso la iducia
nella sua capacità di esercitare un controllo
eicace sul settore nucleare. Le ripetute
promesse sulla possibilità di mettere in si-curezza i reattori hanno perso credibilità
quando si è scoperto che alcuni funzionari
pubblici avevano collaborato a lungo con i
dirigenti della Tepco per liquidare le preoc-cupazioni sulla sicurezza di Fukushima e,
in seguito all’incidente, per tenere segrete
le informazioni sulla vera portata della ca-tastrofe e delle sue conseguenze per la sa-lute umana.
La manifestazione del 16 luglio e altre
iniziative simili dovrebbero essere lette co-me un voto pubblico di siducia nei con-fronti della politica energetica e delle capa-cità di supervisione dello stato.
“Finora i giapponesi non si sono
espressi contro il governo nazio-nale”, ha afermato una manife-stante, una casalinga di 29 anni
scesa in piazza con il iglio di un
anno. “Ora dobbiamo far sentire la nostra
voce, altrimenti il governo ci metterà tutti
in pericolo”.
Lo scetticismo nei confronti dello stato,
un fenomeno raro nel Giappone del ventu-nesimo secolo, ha ostacolato in modo con-sistente il progetto del governo di riattivare
i  cinquanta  reattori  chiusi  temporanea-mente  in  tutto  il  paese.  Anche  se  molti
giapponesi sono contrari all’energia nucle-are, il primo ministro Shinzō Abe resta de-ciso a rimettere in funzione le centrali per
ridurre la forte dipendenza del Giappone
dall’importazione di energia elettrica e per
promuovere  la  crescita  economica.  “In
questa fase”, ha dichiarato il premier a ot-tobre, “mi sembra impossibile promettere
l’eliminazione delle centrali nucleari. Dal
punto di vista del governo, le centrali ato-miche sono molto importanti per stabiliz-zare la produzione di elettricità e le attività
economiche”. Ma, nonostante questa posi-zione, Abe sta facendo molta fatica a otte-nere il sostegno per i suoi piani ed è lecito
dubitare che un numero consistente di quei
reattori sarà ricollegato presto alla rete elet-trica.
Perdere il potere
Da questi episodi si può dedurre che in tut-to il mondo i cittadini sono sempre più pre-occupati per la politica energetica e per le
sue conseguenze, e sono pronti, spesso con
un preavviso minimo, a partecipare a pro-teste di massa. Allo stesso tempo i governi
di tutto il pianeta restano fedeli,
con rare eccezioni, alla politica
energetica già deinita. Questo li
trasforma quasi invariabilmente
in bersagli, a prescindere dal mo-tivo iniziale che ha dato impulso
al movimento d’opposizione. Man mano
che le conseguenze del cambiamento cli-matico diventano più devastanti, i funzio-nari pubblici si troveranno costretti a sce-gliere tra i progetti energetici già decisi in
passato e la possibilità di perdere il potere.
Dato che solo pochi paesi sono pronti a
realizzare le misure che permetterebbero
di cominciare ad afrontare il pericolo del
cambiamento climatico, i governi saranno
considerati sempre più spesso degli ostaco-li a un cambiamento sostanziale e quindi
degli elementi da eliminare. Insomma, la
ribellione ambientalista (una serie di pro-teste  spontanee  che  potrebbero  trasfor-marsi in qualunque istante in movimenti di
massa inarrestabili) è alle porte. Di fronte a
queste rivolte, i governi reagiranno in parte
accogliendo le rivendicazioni popolari e in
parte con una dura repressione.
Questi  sviluppi  metteranno  a  rischio
molti governi, ma a quanto pare i più vulne-rabili saranno i vertici cinesi. Per garantirsi
un futuro, il partito che governa la Repub-blica Popolare Cinese ha puntato su un pro-gramma di crescita continua, alimentata
dai combustibili fossili, che sta distruggen-do progressivamente l’ambiente. La Cina
ha già assistito a cinque o sei sollevamenti
ambientalisti come quello di Ningbo, e lo
stato ha reagito cedendo alle richieste dei
manifestanti oppure usando la forza. La
questione è quanto si possa continuare ad
andare avanti in questo modo.
Le condizioni dell’ambiente sono desti-nate a peggiorare, soprattutto se la Cina
continuerà a usare il carbone per il riscal-damento delle case e per la produzione di
energia elettrica. Eppure, nessun segnale   lascia pensare che il Partito comunista sia
pronto a compiere i drastici passi necessari
per ottenere una riduzione consistente del
consumo domestico di carbone. Data la si-tuazione, è possibile che in qualunque mo-mento in Cina scoppino proteste popolari
di portata potenzialmente senza preceden-ti. A loro volta, queste manifestazioni po-trebbero mettere in discussione l’esistenza
stessa del partito: uno scenario che di certo
produce un’ansia enorme tra gli alti diri-genti di Pechino.
Contro il fracking
E che dire degli Stati Uniti? Sarebbe ridico-lo afermare che a causa dei disordini i ver-tici politici del paese rischiano di essere
spazzati via o di essere costretti a passare
seriamente all’azione per ridimensionare
la dipendenza dai combustibili fossili. Tut-tavia, anche negli Stati Uniti si osservano
segni di una crescente opposizione popola-re ad alcuni aspetti dell’uso di queste fonti
energetiche, come le accese proteste con-tro la tecnica di estrazione del fracking e
contro l’oleodotto per le sabbie bituminose
Keystone Xl. Secondo lo scrittore e militan-te ambientalista Bill McKibben, tutti questi
elementi sono gli indizi che sta nascendo
un movimento di massa contro il consumo
di combustibili fossili. “Negli ultimi anni”,
ha scritto McKibben, questo movimento
“ha  bloccato  l’edificazione  di  decine  di
centrali elettriche a carbone, si è battuto
contro il piano dell’industria petrolifera di
costruire l’oleodotto Keystone Xl, ha con-vinto un gran numero di istituzioni statuni-tensi a disfarsi dei titoli legati alle aziende
dei  combustibili  fossili  e  ha  contrastato
progetti come lo spianamento delle vette
montuose  per  l’estrazione  di  carbone  e
l’impiego del fracking per la produzione di
gas  naturale”.  Queste  campagne  non
avranno ancora ottenuto lo stesso successo
del movimento per il matrimonio gay, ha
osservato l’attivista, ma “stanno crescendo
in fretta e cominciano a conseguire alcune
vittorie”.
Anche se è troppo presto per fare previ-sioni sul futuro di questo movimento con-tro l’emissione di anidride carbonica, sem-bra però che le proteste stiano acquistando
forza. Alle elezioni del 2013, per esempio,
Boulder, Fort Collins e Lafayette (tre città
del Colorado, uno stato ricco di fonti ener-getiche) hanno votato per mettere al bando
o stabilire una moratoria sul fracking nel
loro territorio, e intanto le proteste contro
il Keystone Xl e altri progetti simili si stan-no intensiicando. Nessuno può dire con
certezza se la rivoluzione per l’energia pu-lita ci sarà, ma chi può negare che le prote-ste ambientaliste incentrate sulla questio-ne energetica negli Stati Uniti e in altri pa-esi  possano  trasformarsi  in  qualcosa  di
molto più grande? Come la Cina, nei pros-simi anni anche gli Stati Uniti subiranno
gravi danni a causa del mutamento clima-tico  e  del  loro  incrollabile  legame  con  i
combustibili fossili.
Gli statunitensi non sono in genere per-sone passive. Aspettiamoci che, come i ci-nesi, anche loro reagiscano a questi perico-li con collera crescente e con una forte de-terminazione  a  cambiare  la  politica  del
governo. Quindi non sorprendiamoci se la
rivoluzione per l’energia pulita scoppierà
nel nostro quartiere: è la reazione dell’uma-nità al rischio più grave che abbiamo mai
dovuto afrontare. Se i governi non passe-ranno all’azione per salvare il pianeta, qual-cun altro ci penserà. u fp
L’AUTORE
Michael T. Klare insegna studi sulla pace
e sulla sicurezza mondiale all’Hampshire
college. Il suo ultimo libro uscito in Italia è
Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna
gli equilibri politici mondiali (Edizioni
Ambiente 2010)