domenica 10 novembre 2013

1025 - L’Italia dei marines David Vine, TomDispatch, Stati Uniti. Foto di Francesca Leonardi La percentuale di forze statunitensi in Europa di stanza sul territorio italiano è triplicata dal 1991. Washington cambia strategia. E Roma l’assecond

gli ultimi  vent’anni  il
Pentagono ha investito
centinaia  di  milioni  di
dollari versati dai contri-buenti  statunitensi  in
basi  militari  in  Italia,
trasformando il paese in un centro sempre
più importante per la potenza bellica statu-nitense.  Soprattutto  dopo  l’inizio  della
guerra  al  terrorismo  nel  2001,  i  militari
hanno spostato il loro centro di gravità eu-ropeo: dalla Germania, dove dalla ine della
seconda  guerra  mondiale  stazionava  la
maggioranza  delle  forze  statunitensi,  al
sud del continente. Il Pentagono ha trasfor-mato la penisola italiana in una piattaforma
di lancio per le future guerre in Africa, in
Medio Oriente e altrove.
Nelle basi di Napoli e Aviano, a Pisa, a
Vicenza, in Sicilia e in altre località i milita-ri statunitensi hanno speso, nel secondo
dopoguerra, più di due miliardi di dollari
solo per le opere edilizie, a cui vanno ag-giunti miliardi di dollari destinati a progetti
segreti, spese operative e costi del persona-le. Mentre gli efettivi in Germania sono

diminuiti – da 250mila al momento del crol-lo dell’Unione Sovietica ai circa 50mila di
oggi – il numero di soldati statunitensi di
stanza in Italia (circa 13mila più 16mila fa-miliari) è lo stesso che all’apice della guerra
fredda. Questo signiica che la percentuale
di forze statunitensi in Europa che fanno
base in Italia è triplicata rispetto al 1991,
passando da circa il 5 per cento a più del 15
per cento.
A settembre ho avuto la possibilità di
visitare la più recente base americana in
Italia, operativa da appena quattro mesi e che si trova a Vicenza, non lontano da Ve-nezia. Ospita una forza di reazione e inter-vento  rapido  –  la  173
a
  brigata  di  fanteria
aviotrasportata combattente – e la compo-nente dell’esercito dell’Africa command
(Africom). Si estende per un chilometro e
mezzo, dominando la città: con i suoi 60
ettari, è grande all’incirca quanto 110 cam-pi da football americano. La spesa per que-sta base e per gli ediici relativi, in una città
che già ospitava almeno altre sei strutture
militari, ha superato i 600 milioni di dollari
a partire dall’anno inanziario 2007.
La Germania è ancora il paese in cui le
basi sono più numerose, e quindi riceve la
percentuale più alta delle spese militari
statunitensi all’estero (ino a poco tempo
fa erano destinate all’Afghanistan). Ma il
ruolo  dell’Italia  è  diventato  cruciale  da
quando il Pentagono lavora per cambiare
la composizione del suo schieramento glo-bale – oltre 800 basi – spostando la sua at-tenzione  a  sud  e  a  est  rispetto  al  centro
dell’Europa. L’esperto di basi Alexander
Cooley spiega: “I funzionari della difesa
americana riconoscono che la posizione
strategica dell’Italia nel Mediterraneo e
vicino al Nordafrica, la dottrina antiterro-rista dei militari italiani e l’atteggiamento
favorevole alle forze statunitensi dei poli-tici italiani sono fattori importanti nella
decisione del Pentagono di mantenere”
una presenza nel paese. Le sole persone
che sembrano aver prestato attenzione a
questo raforzamento militare sono i mili-tanti dei movimenti di opposizione locali,
come quelli di Vicenza, preoccupati che la
loro città possa diventare la piattaforma di
future guerre di Washington.
Da Vicenza a Sigonella
I turisti pensano all’Italia come alla terra
dell’arte rinascimentale, delle antichità ro-mane e ovviamente del buon cibo. Pochi la
considerano la terra delle basi americane.
Ma i 59 “siti dove si trovano basi” indivi-duati dal Pentagono in Italia sono inferiori
solo a quelli di Germania (179), Giappone
(103), Afghanistan (cento, ma in diminu-zione) e Corea del Sud (89).
In pubblico le autorità statunitensi di-chiarano  che  in  Italia  non  esistono  basi
americane. Ripetono che le guarnigioni,
con tutte le infrastrutture, le armi e gli equi-paggiamenti, sono semplici ospiti di quelle
che uicialmente restano basi italiane de-stinate alla Nato. Ovviamente si tratta di
una sottigliezza legale. Chiunque abbia oc-casione di visitare la nuova base di Vicenza
non ha dubbi sul fatto che si tratti di una
struttura  interamente  statunitense.  La
guarnigione occupa una ex base dell’aero-nautica italiana chiamata Dal Molin (alla
ine del 2011 le autorità italiane l’hanno ri-battezzata caserma Del Din, nel tentativo
di cancellare il ricordo della forte opposi-zione  suscitata  dalla  base).  Dall’esterno
potrebbe sembrare un gigantesco comples-so ospedaliero o un campus universitario.
Trentuno ediici simili a scatole, color cre-ma e pesca e con il tetto rosso chiaro domi-nano l’orizzonte. Sullo sfondo solo le pen-dici delle Alpi meridionali. Un reticolo sor-montato da ilo spinato circonda il perime-tro, con schermi a maglie verdi che impedi-scono  di  guardare  all’interno.  Dentro  ci
sono due caserme in grado di ospitare ino
a  600  soldati  ciascuna  (fuori  della  base
l’esercito sta contrattando l’aitto di circa
240 case di recente costruzione). Ci sono
anche due garage di sei piani che possono
contenere 850 vetture, una serie di grandi
complessi di uici, alcune piccole aree di
addestramento, compreso un poligono di
tiro al coperto ancora in costruzione, una
palestra con piscina riscaldata, il
centro di intrattenimento War-rior zone, un piccolo spaccio, un
bar e una grande mensa. In realtà
sono impianti piuttosto modesti
per una grande base statuniten-se. Molti degli alloggi ristrutturati o di nuo-va costruzione, le scuole, le strutture medi-che, i negozi e altri servizi per i soldati e le
loro famiglie si trovano dall’altra parte della
città, presso la base della caserma Ederle in
viale della Pace, e nel vicino Villaggio della
Pace.
Il Pentagono ha anche speso cifre enor-mi per ammodernare alcune basi italiane.
Fino all’inizio degli anni novanta la base
aerea di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia,
era un piccolo sito noto come Sleepy hollow
(la valle addormentata). Dopo il trasferi-mento degli F-16 dalla Spagna nel 1992,
l’aviazione ha speso almeno 610 milioni di
dollari in oltre 300 progetti di costruzione
(Washington ha convinto la Nato a fornire più della metà della cifra, e l’Italia ha cedu-to gratuitamente 85 ettari di terreno) per
trasformarla in uno scalo e in un grande
centro di raccolta per le operazioni belliche
importanti, a partire dalla prima guerra del
Golfo.  Parallelamente,  dall’anno  fiscale
2004 l’aeronautica americana ha speso al-tri 115 milioni di dollari in opere edili.
Per non essere da meno, dal 1996 la ma-rina ha sborsato più di 300 milioni di dolla-ri per costruire una nuova base operativa
presso l’aeroporto di Napoli, nelle cui vici-nanze ha aittato per trent’anni un “sito di
supporto” del valore stimato di 400 milioni
di dollari. Somiglia a un grande centro com-merciale circondato da una distesa di prati
ben curati (è stata costruita da un’azienda
sospettata di legami con la camorra). Nel
2005, poiché l’interesse si andava spostan-do dall’Atlantico settentrionale ad Africa,
Medio Oriente e mar Nero, la marina ha
trasferito il suo quartier generale europeo
da Londra a Napoli. Dopo la creazione di
Africom, che ha in Germania la sede princi-pale, Napoli oggi ospita un comando Na-veur-Navaf, cioè Naval forces Europe più
Naval forces Africa.
Nel frattempo è cresciuta la centralità
della Sicilia nella guerra globale al terrore,
e il Pentagono sta trasformando la regione
in un nodo cruciale per le operazioni mili-tari statunitensi in Africa, sull’altra sponda
del Mediterraneo. Dall’anno inanziario
2001 il Pentagono ha investito nella base
aerea di Sigonella quasi 300 milioni di dol-lari, più che in qualunque altra
base  italiana  eccetto  Vicenza.
Sigonella, che oggi è la seconda
stazione aeronavale più traica-ta d’Europa, fu usata per la prima
volta nel 2002 per lanciare i dro-ni di sorveglianza Global Hawk. Nel 2008
le autorità statunitensi e italiane hanno ir-mato un accordo segreto che autorizzava
uicialmente il dispiegamento dei droni
nella base. Da allora il Pentagono ha sbor-sato almeno 31 milioni di dollari per costru-ire un complesso destinato alla manuten-zione e alle operazioni dei Global Hawk. I
droni  sono  il  fondamento  dell’Alliance
ground surveillance della Nato, un sistema
da  1,7  miliardi  di  dollari  che  garantisce
all’alleanza  atlantica  capacità  di  sorve-glianza  fino  a  diecimila  miglia  da  Sigo-nella.
Dal 2003 la Joint task force aztec silence
usa gli aerei di sorveglianza P-3 di stanza a
Sigonella per controllare i gruppi di ribell

nell’Africa settentrionale e occidentale. E
dal 2011 Africom ha assegnato alla base una
task force di circa 180 marines e due velivo-li per fornire addestramento antiterrorismo
al personale militare africano in Botswana,
Liberia, Gibuti, Burundi, Uganda, Tanza-nia, Kenya, Tunisia e Senegal.
Sigonella  ospita  anche  una  delle  tre
strutture di comunicazioni satel-litari del Global broadcast service
e presto accoglierà una base Nato
congiunta di intelligence, sorve-glianza e ricognizione e un centro
di addestramento e di analisi dei
dati. A giugno una sottocommissione del
senato statunitense ha raccomandato di
trasferire in Sicilia le forze operative spe-ciali e i Cv-22 Ospreys dal Regno Unito, per-ché “Sigonella è diventata una piattaforma
di lancio cruciale per le missioni legate alla
Libia, considerando anche il persistente
disordine in quel paese così come la com-parsa di attività di addestramento terrori-stico nel Nordafrica”. Nella vicina Niscemi,
la marina spera di costruire un impianto di
comunicazioni satellitari ad altissima fre-quenza, anche se alcuni siciliani e italiani si
oppongono al progetto, preoccupati per gli
efetti delle radiazioni elettromagnetiche
sugli esseri umani e sulla riserva naturale
circostante.
Flessibilità operativa
Contemporaneamente  il  Pentagono  ha
chiuso alcune basi, tra cui quelle di Comiso,
Brindisi e La Maddalena. L’esercito ha ta-gliato parte del personale a Camp Darby,
una grande installazione sotterranea per
l’immagazzinamento di armi ed equipag-giamenti lungo la costa toscana, ma la base
è ancora un centro logistico e di preposizio-namento molto importante, perché con-sente il dispiegamento globale di truppe,
armi e rifornimenti via mare. Dall’anno i-scale 2005 nella base sono sorte nuove co-struzioni per quasi 60 milioni di dollari.
 Ma a cosa servono tutte queste basi sul
territorio italiano? Ecco come la questione
mi è stata spiegata da un funzionario mili-tare statunitense in Italia che ha chiesto di
rimanere anonimo: “Mi dispiace, Italia, ma
questa non è la guerra fredda. Le basi non
sono qui per difendere Vicenza da un attac-co sovietico. Sono qui perché abbiamo con-cordato che devono essere qui per fare altre
cose, che si tratti del Medio Oriente, dei
Balcani o dell’Africa”.
Le basi in Italia giocano un ruolo sem-pre più importante nella strategia globale
del Pentagono grazie soprattutto alla collo-cazione del paese sulla cartina geograica.
Durante la guerra fredda il cuore della dife-sa Nato e statunitense in Europa era la Ger-mania Ovest, per la sua posizione lungo le
rotte più probabili di un attacco sovietico
all’Europa  occidentale.  Finita  la  guerra
fredda, l’importanza geograica
della Germania è molto diminui-ta. Di fatto, le basi e le truppe sta-tunitensi  al  centro  dell’Europa
sembravano prigioniere della lo-ro stessa geograia, con le forze
terrestri che dovevano prevedere tempi di
spiegamento più lunghi al di fuori del con-tinente e l’aviazione che doveva ottenere
diritti di sorvolo dai paesi vicini per rag-giungere qualunque altro luogo.
 Le  truppe  di  stanza  in  Italia,  invece,
hanno accesso diretto alle acque e allo spa-zio aereo internazionali del Mediterraneo.
Come disse nel 2006 l’assistente segretario
dell’esercito Keith Eastin parlando al con-gresso, dislocare la 173
a
 brigata aviotraspor-tata al Dal Molin “posiziona strategicamen- te l’unità a sud delle Alpi con accesso im-mediato allo spazio aereo internazionale
per un rapido spiegamento e operazioni di
ingresso forzato o di ingresso precoce”.
Il Pentagono approittò della posizione
dell’Italia già negli anni novanta, quando la
base di Aviano giocò un ruolo di rilievo nel-la prima guerra del Golfo e durante gli in-terventi  Nato  e  americani  nei  Balcani.
L’amministrazione Bush, a sua volta, scelse
alcune basi in Italia come avamposti euro-pei “duraturi” nel riposizionamento a sud e
a est della Germania. Negli anni di Obama,
il  crescente  coinvolgimento  militare  in
Africa ha reso l’Italia un’opzione ancora più
appetibile.
Oltre che per la sua posizione, le autori-tà statunitensi prediligono l’Italia perché,
come mi ha detto lo stesso funzionario mi-litare, è “un paese che ofre suiciente les-sibilità operativa”. In altri termini, garanti-sce la libertà di fare ciò che si vuole con re-strizioni e interferenze minime.
Soprattutto rispetto alla Germania, la
lessibilità italiana rispecchia le ragioni del-la più ampia tendenza ad allontanare le ba-si da due dei paesi più ricchi e più potenti
del mondo – Germania e Giappone – verso
nazioni relativamente più povere e meno
potenti. Oltre a garantire costi operativi più
bassi, questi paesi ospitanti di regola sono
più sensibili alle pressioni politiche ed eco-nomiche di Washington. Tendono anche a
irmare “accordi sullo status delle forze” –
le intese che regolano la presenza di truppe
e basi statunitensi all’estero – meno restrit-tivi per i militari americani. Questi accordi
spesso ofrono normative più permissive in
materia di ambiente e di lavoro o assicura-no al Pentagono maggiore libertà di perse-guire azioni militari unilaterali con minime
consultazioni con il paese ospitante.
Anche se diicilmente può essere consi-derata  una  delle  nazioni  più  deboli  del
mondo, l’Italia è il secondo paese più inde-bitato d’Europa, e il suo potere economico
e politico impallidisce in confronto a quello
della Germania. Non sorprende, quindi,
come ha sottolineato il funzionario del Pen-tagono, che l’accordo sullo status delle for-ze stipulato con la Germania sia lungo e
dettagliato, mentre l’accordo fondamenta-le con l’Italia rimane il breve (e tuttora se-greto) accordo bilaterale sulle infrastruttu-re del 1954. I tedeschi tendono anche a es-sere piuttosto esigenti quando si tratta di
rispettare le regole, mentre gli italiani, ha
detto il funzionario, “ne danno una lettur più interpretativa”. La libertà con cui i mili-tari  statunitensi  usarono  le  basi  italiane
durante la guerra in Iraq è un esempio illu-minante. Il governo italiano permise alle
forze americane di utilizzarle anche se il
loro uso per una guerra condotta al di fuori
della Nato può violare i termini dell’accor-do del 1954. Un telegramma segreto del
maggio 2003 inviato dall’ambasciatore sta-tunitense in Italia, Mel Sembler, e reso pub-blico da Wikileaks, mostra che il governo di
Silvio Berlusconi concesse al Pentagono
“in pratica tutto” quello che voleva. “Abbia-mo ottenuto quello che chiedevamo”, scris-se Sembler, “per l’accesso alle basi, il tran-sito e il sorvolo, garantendo che le forze
possano attraversare agevolmente l’Italia
per arrivare ai luoghi di combattimento”.

Il business delle armi
Da parte sua l’Italia sembra aver diretta-mente beneiciato di questa cooperazione
(secondo alcuni, spostare le basi dalla Ger-mania al paese mediterraneo doveva esse-re anche un modo per punire Berlino del
suo mancato appoggio alla guerra in Iraq).
Secondo uno studio del Jane’s sentinel se-curity  assessment  del  2010,  “il  ruolo
dell’Italia nella guerra in Iraq, con i tremila
uomini messi a disposizione dell’iniziativa
guidata dagli Stati Uniti, ha aperto la possi-bilità di contratti di ricostruzione alle azien-de italiane, oltre a cementare i rapporti tra i
due alleati”. Il suo ruolo nella guerra in Af-ghanistan ha sicuramente oferto vantaggi
simili. Queste opportunità sono arrivate
mentre la crisi economica si aggravava e in
un momento in cui il governo italiano guar-dava alla produzione di armi come a uno
strumento importante per rilanciare la sua
economia. Secondo il Jane’s sentinel i pro-duttori di armi italiani, come Finmeccani-ca, hanno tentato con forza di entrare nel
mercato statunitense e non solo. Nel 2009
le esportazioni italiane di armi erano au-mentate di oltre il 60 per cento.
Nell’ottobre 2008 i due paesi hanno rin-novato un “memorandum d’intesa concer-nente il reciproco procurement per la difesa”
(un accordo di “nazione maggiormente fa-vorita” per le vendite militari). È stato sug-gerito che il governo italiano può aver ce-duto Dal Molin ai militari americani – a tito-lo gratuito – anche per assicurarsi un ruolo
di primo piano nella produzione “dell’arma
più costosa mai costruita”, il cacciabom-bardiere F-35, e in altri accordi militari. Un
entusiastico telegramma del 2009, a irma
dell’incaricata di afari dell’ambasciata sta-tunitense a Roma Elizabeth Dibble, deini-va la collaborazione militare tra i due paesi
una “partnership durevole”. Dibble osser-vava in particolare che Finmeccanica (per
il 30 per cento controllata dallo stato) “nel
2008 ha venduto agli Stati Uniti equipag-giamenti militari per 2,3 miliardi di dollari e
ha un ruolo di rilievo nella solidità del rap-porto tra Stati Uniti e Italia”.
 Naturalmente c’è un altro motivo da
non da trascurare negli investimenti italia-ni del Pentagono. Proprio come i turisti
americani che afollano il paese, i soldati
statunitensi apprezzano la dolce vita. Oltre
a godere di tutti i comfort delle basi di stile
suburbano, 40mila visitatori militari pro-venienti dall’intera Europa e da altri conti-nenti si recano ogni anno nel “resort” mili-tare di Camp Derby e nella “spiaggia ame-ricana” della riviera italiana, che accresco-no ancora di più le attrattive del paese.
L’Italia non prenderà il posto della Ger-mania  come  fondamento  della  potenza
militare statunitense in Europa. La Germa-nia è da tempo profondamente integrata
nel sistema militare americano, e i pianii-catori strategici non vogliono che la situa-zione cambi. Ricordate l’argomento usato
dal Pentagono per convincere il congresso
a  investire  600  milioni  di  dollari  in  una
nuova base a Vicenza e nelle relative co-struzioni? L’esercito aveva bisogno di por-tare soldati dalla Germania a Vicenza per
concentrare la 173
a
 brigata in un solo luogo.
E poi nel marzo scorso, una settimana dopo
aver avuto accesso al primo ediicio a Dal
Molin e a lavori quasi ultimati, l’esercito ha
annunciato che non avrebbe trasferito l’in-tera unità. Un terzo della brigata rimarrà in
Germania. In un periodo in cui i tagli di bi-lancio, la disoccupazione e la stagnazione
economica colpiscono tutti tranne i più ric-chi e impediscono di soddisfare i bisogni di
molti statunitensi, a fronte di un investi-mento di 600 milioni di dollari solo mille
soldati si trasferiranno a Vicenza.
Ma anche se queste truppe restano in
Germania, l’Italia è destinata a diventare
uno dei cardini della potenza bellica degli
Stati Uniti a livello globale. Sebbene sia sta-to soprattutto “l’asse asiatico” di Barack
Obama ad attirare l’attenzione, il Pentago-no sta concentrando le sue forze in basi che
rappresentano altrettanti assi in località co-me Gibuti nel Corno d’Africa, Diego Garcia
nell’oceano Indiano, Bahrein e Qatar nel
golfo Persico, Bulgaria e Romania nell’Eu-ropa dell’est, Australia, Guam e Hawaii nel
Paciico, e Honduras in America Latina.
 Le basi statunitensi in Italia rendono
più facile condurre nuove guerre e inter-venti militari in conlitti di cui gli america-ni sanno poco, dall’Africa al Medio Orien-te.  Se  noi  americani  non  cominciamo  a
chiederci perché gli Stati Uniti hanno an-cora basi in Italia e in decine di altri paesi in
tutto il mondo – ed è incoraggiante che un
numero crescente di politici, giornalisti e
altri stiano sollevando la questione – que-ste basi contribuiranno a portarci, in nome
della sicurezza, su una strada di violenza
perpetua, guerra perpetua e perpetua insi-curezza. u gc

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