sabato 30 novembre 2013

1027 - INCHIESTA - La lentezza delle idee Atul Gawande, The New Yorker, Stati Uniti Alcune innovazioni fondamentali si difondono rapidamente, altre incontrano resistenze apparentemente senza senso. Come accelerare i tempi di quelle più lente? La tecnologia non basta, scrive il chirurgo Atul Gawande, per cambiare le norme e le abitudini serve il contatto diretto tra le persone

P
erché certe novità si difon-dono rapidamente e altre
lentamente?  Pensate  ai
percorsi  del  tutto  diversi
che hanno seguito due sco-perte dell’ottocento come
l’anestesia  e  gli  antisettici.  Gli  effetti
dell’anestesia furono dimostrati pubblica-mente per la prima volta nel 1846. Il chirur-go di Boston Henry Jacob Bigelow fu avvici-nato da un dentista suo concittadino di no-me William Morton, che gli disse di aver
scoperto un gas in grado di rendere i pa-zienti insensibili al dolore degli interventi.
Era un’afermazione clamorosa.
A quei tempi, anche la semplice estra-zione di un dente era atroce. Non potendo
eliminare la soferenza, i chirurghi lavora-vano a una velocità fulminea. I loro assi-stenti tenevano fermi i pazienti che urlava-no e si dibattevano ino a quando non sveni-vano  per  il  dolore.  Niente  di  quanto  era
stato tentato ino a quel momento aveva
mai funzionato. Nonostante questo, Bige-low permise a Morton di dimostrare la sua
afermazione.
Il 16 ottobre 1846, al Massachusetts ge-neral hospital, Morton somministrò attra-verso un inalatore inserito nella bocca il suo
gas a un ragazzo che doveva essere sottopo-sto all’escissione di un tumore alla mandi-bola. Durante l’operazione il paziente si li-mitò a borbottare tra sé in uno stato di se-micoscienza. Il giorno dopo, con lo stesso
gas, una donna alla quale doveva essere
asportato un grosso tumore all’avambrac  cio rimase completamente muta e immobi-le, e quando si svegliò disse di non aver sen-tito nulla.
Quattro settimane dopo, il 18 novem-bre, Bigelow pubblicò sul Boston Medical
and Surgical Journal un articolo sulla “in-sensibilità indotta per inalazione”. Morton
non voleva divulgare la composizione del
gas, che aveva chiamato letheon, perché ne
aveva chiesto il brevetto. Ma Bigelow scris-se di aver riconosciuto l’odore dell’etere
(che veniva già usato come ingrediente in
alcune preparazioni), e sembra che questo
sia stato suiciente. A metà dicembre i chi-rurghi di Parigi e di Londra somministrava-no già l’etere ai loro pazienti. A febbraio
l’anestesia era stata usata in quasi tutte le
capitali d’Europa, e a giugno nella maggior
parte dei paesi del mondo. Naturalmente,
c’era stata qualche resistenza. Qualcuno
riteneva che l’anestesia fosse un “lusso inu-tile”, i preti ne deploravano l’uso per ridurre
la soferenza durante il parto perché anda-va contro il progetto divino. James Miller,
un chirurgo scozzese dell’epoca che docu-mentò l’avvento dell’anestesia, notò che i
chirurghi più anziani erano contrari. “Chiu-devano gli occhi, si tappavano le orecchie e
incrociavano le braccia. Era come se aves-sero deciso che il dolore era un male neces-sario e doveva essere sopportato”. Ma ben
presto anche i più dubbiosi “saltarono di
corsa sul carro, lanciando grida di gioia”.
Nel giro di sette anni quasi tutti gli ospedali
statunitensi e britannici avevano adottato
la nuova scoperta.  La sepsi, o infezione, era l’altra grande
piaga della chirurgia. Era la principale re-sponsabile della morte dei pazienti, uccide-va circa la metà delle persone sottoposte a
interventi di alta chirurgia, come la ripara-zione di una frattura scoperta o l’amputa-zione  di  un  arto.  Le  infezioni  erano  così
frequenti che la suppurazione, l’uscita di
pus dalla ferita, era ritenuta una fase inevi-tabile della guarigione.
L’importanza di lavarsi le mani
Negli anni sessanta dell’ottocento il chirur-go di Edimburgo Joseph Lister lesse un arti-colo in cui Louis Pasteur dimostrava che i
processi di decomposizione e di fermenta-zione erano causati da microrganismi. Li-ster si convinse che lo stesso processo si
veriicava nelle ferite infette. Pasteur aveva
osservato che, oltre che con il iltraggio e il
calore, i germi potevano essere eliminati
esponendoli  a  certe  sostanze  chimiche.
Aveva letto che nella città di Carlisle erano
riusciti  a  eliminare  l’odore  delle  fogne
usando una piccola quantità di acido feni-co, e ne aveva dedotto che distruggesse i
germi. Forse si poteva fare la stessa cosa in
chirurgia.
Negli anni immediatamente successivi
ideò vari modi per usare l’acido fenico per
lavare le mani e le ferite e per eliminare i
germi dall’ambiente operatorio. Il risultato
fu una notevole riduzione del tasso di setti-cemia e di morte. Si sarebbe potuto pensare
che, dopo la pubblicazione delle sue osser-vazioni su The Lancet nel 1867, il metodo  antisettico si sarebbe difuso con la stessa
rapidità dell’anestesia. Ma le cose non an-darono afatto così.
Il chirurgo J.M.T. Finney ricordava che,
quando era praticante al Massachusetts ge-neral hospital, vent’anni dopo, l’obbligo di
lavarsi le mani era ancora solo formale. I
chirurghi immergevano i ferri nell’acido
fenico ma continuavano a operare con le
loro redingote nere incrostate di sangue e
viscere delle operazioni precedenti, per di-mostrare che erano molto impegnati. Inve-ce di usare garze pulite, riutilizzavano le
stesse spugne marine senza sterilizzarle.
Sarebbe passata una generazione prima che
le indicazioni di Lister venissero rispettate
regolarmente e fossero fatti i passi succes-sivi verso i moderni standard dell’asepsi:
escludere totalmente i germi dall’ambiente
operatorio, usare strumenti sterilizzati con
il calore e indossare camici e guanti sterili.
In un’epoca di comunicazioni digitali ci
aspetteremmo una diffusione più rapida
delle innovazioni importanti. E
in molti casi è così. Pensate alla
fecondazione assistita, alla geno-mica e alla stessa tecnologia della
comunicazione.  Ma  potremmo
stilare una lista altrettanto lunga
di scoperte vitali che non hanno attecchito.
Il problema è: perché? Forse la difusione
dell’anestesia e degli antisettici è stata di-versa per motivi economici? In realtà, gli
incentivi erano gli stessi. Se la chirurgia in-dolore attirava più pazienti che pagavano,
lo stesso discorso sarebbe dovuto valere per
un più basso tasso di mortalità. Senza con-tare che era più probabile che un paziente
vivo pagasse la parcella.
Forse le idee controtendenza sono più
diicili da accettare. Per i chirurghi dell’ot-tocento,  la  teoria  dei  germi  era  illogica
quanto  quella  di  Darwin  sull’evoluzione
degli esseri umani. Ma in fondo lo era anche
l’idea che inalando un gas si potesse entrare
in una sorta di stato comatoso in cui non si
provava dolore. I sostenitori dell’anestesia
aiutarono  i  chirurghi  a  superare  questo
scetticismo incoraggiandoli a provare l’ete-re su un paziente e vedere i risultati con i
loro  occhi.  Ma  quando  Lister  propose  la
stessa strategia non andò molto lontano, in
parte a causa della complessità tecnica. Per
“provare”  il  metodo  di  Lister  bisognava
prestare un’estrema attenzione ai dettagli.
I chirurghi dovevano immergere scrupolo-samente le mani, i ferri e perino il ilo di
sutura nella soluzione antisettica. Lister
aveva anche ideato un congegno che spruz-zava continuamente antisettico nebulizza-to nella sala operatoria. Ma anche usare
l’anestesia era complicato. Produrre l’etere
e costruire l’inalatore era laborioso. Biso-gnava assicurarsi che il congegno emettes-se la giusta dose di gas, e il suo meccanismo
doveva essere tenuto continuamente sotto
controllo. Eppure molti chirurghi usarono
lo stesso questo metodo, o passarono al clo-roformio, che si era rivelato un anestetico
ancora più potente sebbene presentasse
qualche problema (se si sbagliava la dose si
poteva uccidere il paziente). Nonostante la
complessità della tecnica, non ci rinuncia-rono, anzi, diedero vita a una nuova specia-lizzazione: l’anestesiologia.
Allora quali erano le diferenze? In pri-mo luogo, un metodo combatteva un pro-blema  immediato  e  visibile  (il  dolore),
mentre  l’altro  combatteva  un  problema
invisibile (i germi) i cui efetti si sarebbero
manifestati solo molto tempo dopo l’ope-razione.  In  secondo  luogo,  sebbene  en-trambi migliorassero la vita dei pazienti,
solo  uno  migliorava  quella  dei  dottori.
L’anestesia aveva trasformato la
chirurgia da una frettolosa e bru-tale  aggressione  a  un  paziente
urlante, in una procedura tran-quilla e ponderata. Il listerismo,
al contrario, imponeva al chirur-go di lavorare in una nebbia di acido fenico
che, anche alle concentrazioni più basse,
gli bruciava le mani. Quindi si capisce per-ché la crociata di Lister non ebbe molto
successo.
La stessa cosa si è veriicata nel caso di
molte  scoperte  importanti.  Risolvevano
problemi gravi ma invisibili agli occhi di
molti, e applicarle era noioso, se non addi-rittura doloroso. La distruzione prodotta
dal riscaldamento globale, i danni alla salu-te causati dalla moderna dieta troppo ricca
di zuccheri, la catastrofe economica e so-ciale provocata dai miliardi di prestiti non
restituiti dagli studenti sono fenomeni che
si  aggravano  impercettibilmente  giorno
dopo giorno. Ma i rimedi, che richiedono
qualche tipo di sacriicio personale, fatica-no a essere adottati.
Il problema mondiale della morte per
parto è un altro esempio. Ogni anno 300mi-la  donne  e  più  di  sei  milioni  di  bambini
muoiono al momento del parto, soprattutto
nei paesi più poveri. In quasi tutti i casi è a
causa di qualcosa che si veriica durante o
subito dopo il parto. La madre può avere
un’emorragia.  Lei  o  il  bambino  possono
contrarre un’infezione. Molti neonati non
riescono a respirare subito senza aiuto e,
soprattutto quelli che nascono sottopeso,
hanno diicoltà a regolare la temperatura
corporea. Soluzioni semplici, che potreb-bero salvare molte vite, sono state trovate
da tempo, ma non si sono difuse. Molte
non si possono provare in casa, e questo è
uno dei problemi. Eppure le donne che par-toriscono in ospedale sono in aumento in
tutto il mondo.
In India un programma governativo of-fre alle madri ino a 1.400 rupie – più del
reddito mensile di molti indiani – se parto-riscono in ospedale, e adesso in molte zone
la maggior parte delle nascite avviene in
una struttura attrezzata. Il tasso di mortali-tà è diminuito, ma è ancora dieci volte su-periore a quello dei paesi ad alto reddito.
Non molto tempo fa ho visitato alcuni ospe-dali nel nord dell’India e ho visto che solo a
un terzo delle madri venivano sommini-strati i farmaci per prevenire un’emorragia,
meno del 10 per cento dei neonati veniva
riscaldato a suicienza, e solo il 4 per cento
del personale si lavava le mani prima di una
visita ginecologica o di un parto. In media, i
medici rispettavano solo 10 delle 29 prati-che di base consigliate.
La cura del canguro
Siamo all’inizio del ventunesimo secolo e
stiamo ancora cercando di capire come far
attecchire delle idee che risalgono all’inizio
del ventesimo. Nella speranza di difondere
pratiche ostetriche più sicure, insieme ad
alcuni colleghi ho collaborato con il gover-no indiano, l’Organizzazione mondiale del-la sanità, la Gates foundation e Population
services international a un’iniziativa chia-mata BetterBirth project. Attualmente la-voriamo nell’Uttar Pradesh, uno degli stati
più poveri dell’India. A gennaio ci siamo
spostati a un paio d’ore dalla capitale, Luck-now, per visitare un ospedale di campagna
circondato da terreni coltivati e villaggi di
capanne. L’ospedale è un ediicio di cemen-to a un piano dipinto di giallo. Vi si accede
da una strada sterrata iancheggiata da ile
di motociclette, che in quella regione sono
il principale mezzo di trasporto per le lun-  ghe  distanze.  Se  non  riescono  a  trovare
un’ambulanza o un motorisciò, le donne in
travaglio si siedono a cavalcioni su una mo-to.
In quell’ospedale nascono tremila bam-bini all’anno, che in India sono la norma ma
negli Stati Uniti lo collocherebbero tra i pri-mi cinque ospedali del paese. Eppure non
ha quasi nessuno dei comfort che ci si aspet-terebbe da una struttura moderna. Ho co-nosciuto il medico di turno, un internista
intelligente e capace di poco più di trent’an-ni che si è formato nella capitale. Mi ha det-to, in tono contrito, che il suo staf non è in
grado di eseguire né esami del sangue né
trasfusioni né interventi ostetrici d’emer-genza come i parti cesarei. Durante il gior-no non c’è elettricità. E ovviamente niente
riscaldamento – quel giorno la temperatura
era di cinque gradi –, né aria condizionata,
sebbene in estate le temperature raggiun-gano i 35 gradi. In tutta la struttura ci sono
solo due apparecchi per misurare la pres-sione. L’infermeria della scuola elementare
del mio quartiere è più attrezzata.
Anche il personale è insuiciente: il me-dico ci ha detto che metà dei posti disponi-bili era scoperta. Per far nascere i bambini
in un’area con 250mila abitanti, l’ospedale
ha a disposizione due infermiere e un’oste-trica. Quasi tutti i parti sono gestiti dalle
infermiere che hanno frequentato un corso
di formazione di sei mesi, mentre l’ostetri-ca segue l’ambulatorio e interviene nei casi
più complicati. Durante le ferie o se una
delle due infermiere si ammala, le infer-miere si sostituiscono a vicenda, e se non
c’è nessuno a disposizione, le donne vengo-no mandate in un altro ospedale, a chilome-tri  di  distanza,  oppure  deve  intervenire
un’infermiera non specializzata.
Sembra incredibile che le donne abbia-no meno problemi quando partoriscono in
un posto del genere che a casa loro in un vil-laggio, ma diversi studi hanno dimostrato
che le possibilità di sopravvivenza nel pri-mo caso aumentano. Il personale che ho
conosciuto in India ha un’esperienza note-vole. Perino le infermiere più giovani han-no eseguito più di mille parti. Hanno afron-tato e imparato a risolvere innumerevoli
problemi: placente lacerate, cordoni ombe-licali avvolti intorno al collo del bambino,
spalle incastrate. Vedendo l’eroismo quoti-diano  necessario  per  mandare  avanti  un
posto del genere, ci si sente sciocchi e inde-licati a suggerire come si potrebbero mi-gliorare le cose. Ma poi abbiamo fatto un
giro nelle corsie.
In sala parto era appena nato un bambi-no. Era steso su una branda con la madre,
che riposava sotto un mucchio di coperte di
lana. La stanza era un frigorifero. Non mi
sentivo più le dita dei piedi. Ho cercato di
immaginare  come  poteva  sentirsi  quel
bambino. I neonati hanno una supericie
corporea estesa rispetto alla loro massa e
perdono calore rapidamente. Anche quan-do fa caldo, l’ipotermia è molto comune e li
rende deboli e meno reattivi, meno capaci
di poppare e più soggetti alle infezioni. Ho
notato che il bambino non era avvolto nella
stessa coperta della madre. È ampiamente
dimostrato che è molto meglio mettere il
neonato sul petto o sulla pancia della ma-dre, pelle a pelle, così il corpo della donna
può regolare la temperatura di quello del
piccolo ino a quando non si assesta. Tra i
bambini nati sottopeso o prematuri, la cura
del canguro (come viene chiamata) riduce
la mortalità di un terzo. Allora perché l’in-fermiera non li aveva avvolti insieme? In
quel caso il problema non era di certo la
mancanza di risorse, la cura del canguro
non costa nulla. Ne aveva mai sentito parla-re? Oh, certo, mi ha detto. Nel suo corso di
specializzazione glielo avevano insegnato.
Se n’era dimenticata? No. Aveva proposto
di mettere il bambino a contatto del corpo
della madre, e mi ha mostrato la cartella  clinica dove lo aveva annotato. “Ma lei non
ha voluto”, mi ha spiegato. “Ha detto che
aveva troppo freddo”.
L’infermiera sembrava sorpresa che fa-cessi tante storie per così poco. Il bambino
stava bene, no? In efetti sì. Era dolcemente
addormentato, una nocciolina avvoltolata
nella coperta con il faccino scuro grinzoso e
la bocca aperta a formare una piccola “o”.
Ma gli avevano misurato la temperatura?
No. L’infermiera ha detto che aveva l’inten-zione di farlo. Ma poi la nostra visita aveva
interrotto  la  routine.  Supponendo  che
l’avesse  presa,  e  l’avesse  trovata  bassa,
avrebbe fatto qualcosa di diverso? Avrebbe
sfasciato il bambino e lo avrebbe appoggia-to sul petto della madre?
Tutto quello che fa quell’infermiera – le
ore che dedica al lavoro, le condizioni che
sopporta, la soddisfazione che prova per la
sua professionalità – dimostra il suo impe-gno. Ma l’ipotermia, come i germi che vole-va combattere Lister, è invisibile. Immagi-niamo che il bambino diventi cianotico, che
lo vediamo sofrire sotto i nostri occhi. Ma
l’ipotermia non si manifesta così. Se la tem-peratura è troppo bassa di qualche grado, il
neonato diventa troppo lento nel poppare.
Passa un po’ di tempo prima che cominci a
perdere peso, smetta di urinare, contragga
una polmonite o un’infezione del sangue.
Molto prima che questo succeda – di solito
la mattina dopo il parto, o forse la notte
stessa – la madre dovrà saltare su un moto-risciò, o sedersi su una moto dietro al mari-to, tenendo stretto il neonato, e tornare a
casa su quelle strade dissestate.
Dal punto di vista dell’infermiera, lei ha
contribuito a mettere al mondo una nuova
vita. Se poi, una volta tornato a casa, il 4 per
cento dei bambini muore, questo cos’ha a
che vedere con il modo in cui ha avvolto lui
e la madre nelle coperte? O se si è lavata le
mani prima di mettere i guanti? O se il bi-sturi con cui ha tagliato il cordone ombeli-cale era sterilizzato?
Siamo innamorati dell’idea che questi
problemi possano essere risolti dalla tecno-logia, con un’incubatrice, per esempio. Ne-gli ospedali di campagna si trovano incuba-trici ad altissima tecnologia mangiate dalle
tarme perché non è stato possibile trovare
un  pezzo  di  ricambio,  o  perché  non  c’è
l’elettricità per farle funzionare. Ma negli
ultimi anni ne sono stati progettati alcuni
modelli  pensati  specificatamente  per  il
mondo in via di sviluppo. Il dottor Steven
Ringer, il neonatologo che dirige il progetto
BetterBirth, è stato uno dei consulenti della
squadra che ha creato un’incubatrice eco-nomica e ingegnosa, costruita con pezzi di
vecchie auto facilmente reperibili e sostitu-ibili anche nei paesi a basso reddito, che ha
vinto perino un premio. Ma neanche quella
ha attecchito. “Se ne trovano di più nei mu-sei che nelle sale parto”, spiega Ringer.
Per afrontare la maggior parte dei pro-blemi sanitari del mondo, la diicoltà prin-cipale non è la mancanza di un’adeguata
tecnologia. Tutti hanno a disposizione una
tecnologia per il riscaldamento che funzio-na benissimo: il corpo della madre. Ma an-che nei paesi ad alto reddito, non viene usa-ta  regolarmente.  Secondo  Ringer,  negli
Stati Uniti più della metà dei bambini che
arrivano in rianimazione sono ipotermici.
Prevenire l’ipotermia è un classico esempio
di compito che richiede un grande sforzo
ma non produce un risultato immediato. Se
riuscissimo a costringere gli ospedali e il
personale ostetrico a fare anche solo alcune
delle cose indispensabili per rendere più
sicuro un parto salveremmo centinaia di
migliaia di vite. Ma come possiamo farlo?
Nuove norme
Il  modo  più  comune  per  modificare  un
comportamento  è  dire:  “Per  favore  fate
questo”. Per favore, scaldate il bambino.
Per favore, lavatevi le mani. Per favore, ap-plicate  tutte  le  27  pratiche  necessarie.  È
questo che diciamo nelle nostre
lezioni, nei video educativi, nelle
campagne  per  sensibilizzare  il
pubblico. E funziona, ma solo i-no a un certo punto. Poi c’è il me-todo poliziesco. “Dovete fare co-sì”. Stabilire standard e regole, e minacciare
chi non li rispetta con multe, sospensioni, e
revoca delle licenze: le punizioni possono
funzionare. Gli economisti comportamen-tali hanno addirittura quantiicato l’avver-sione per le sanzioni. Nei giochi sperimen-tali, molti preferiscono lasciare che rischia-re conseguenze negative. E questo è il pro-blema quando si minaccia di punire il per-sonale ostetrico che fa un lavoro diicile in
condizioni esasperanti. Si corre il rischio
che rinunci.
Una versione più morbida del “Dovete
fare così” è quella di ofrire incentivi invece
che minacciare sanzioni. Forse potremmo
promettere al personale ostetrico un bonus
per ogni bambino che supera la settimana
di vita in buone condizioni. Ma poi viene da
pensare a quanto sarebbe diicile far fun-zionare un sistema simile, soprattutto nei
paesi più poveri. Servirebbe una procedura
di controllo molto soisticata per essere si-curi che la gente non aggiri il sistema, e bi-sognerebbe fare complicati calcoli statistici
per tenere conto dei rischi di partenza. Ci
sarebbe anche il problema di come dividere
la ricompensa. Quanto dovremmo dare a
chi  ha  garantito  l’assistenza  prenatale?
All’ostetrica che ha seguito le prime dodici
ore di travaglio? A quella che è entrata in
servizio e ha assistito al parto? Al dottore
che è stato chiamato in aiuto quando le cose
si sono complicate? Al farmacista che aveva
in magazzino l’antibiotico giusto?
E poi, né con le sanzioni né con gli in-centivi è possibile ottenere quello che si
vuole veramente: un sistema e una cultura
in cui tutti fanno una certa cosa, giorno do-po giorno, anche se nessuno li controlla. Il
metodo poliziesco premia semplicemente
il rispetto delle norme. Per arrivare a dire “è
così che si fa” bisogna stabilire che quella è
la norma. Ed è questo che vogliamo ottene-re per il riscaldamento corpo a corpo, il la-vaggio delle mani e tutti gli altri accorgi-menti  che  possono  salvare  la  vita  di  un
bambino: che diventino la norma. Per crea-re nuove norme bisogna prima capire quali
sono quelle vigenti e cosa ne impedisce l’at-tuazione. Allora perché non parlare con le
persone, una per una?
Nel corso del progetto BetterBirth ci
siamo  chiesti,  in  particolare,  cosa  acca-drebbe se avessimo un gruppo di speciali-sti che va a trovare il personale ostetrico e i
direttori degli ospedali, mostran-dogli come eseguire una serie di
procedure essenziali, cercando
di capire le loro diicoltà, ascol-tando le loro obiezioni e aiutan-doli a esercitarsi a fare le cose in
modo  diverso.  In  pratica,  dei  mentori.
L’esperimento è appena cominciato. Ab-biamo reclutato solo un piccolo gruppo di
persone che stiamo mandando negli ospe-dali di sei regioni dell’Uttar Pradesh per
uno studio che seguirà circa 200mila parti
in due anni. Non siamo sicuri che questo
metodo funzionerà. Ma ci è sembrato che
valesse la pena tentare.
Le reazioni che ho raccolto sia all’estero
sia negli Stati Uniti sono interessanti e fon-damentalmente di due tipi. L’obiezione più
comune è che, anche se funzionerà, questo
tipo di insegnamento individuale sul posto
non è “applicabile su vasta scala”. Ma non è
così. Se l’intervento salverà tutte le madri e
i bambini che speriamo, un migliaio di vite   all’anno negli ospedali interessati, l’unica
cosa che resterà da fare sarà formare squa-dre di insegnanti simili e mandarle in altre
zone del paese, se non in tutto il mondo.
Agli occhi di molti questa non è una solu-zione realistica. Richiederebbe una vasta
mobilitazione, una spesa altissima, e forse
anche la nascita di una nuova professione.
Ma per combattere la resistenza a molte
nuove scoperte, come gli antisettici, è esat-tamente questo il metodo che ha funziona-to. Pensate alla nascita dell’anestesiologia:
bisognava raddoppiare il numero dei medi-ci presenti a ogni intervento, eppure l’ab-biamo fatto. Per ridurre l’analfabetismo,
molti paesi, a partire dagli Stati Uniti, han-no costruito scuole, formato insegnanti e
reso l’istruzione gratuita e obbligatoria per
tutti. Per migliorare la produzione agricola
i governi hanno mandato centinaia di mi-gliaia di periti agrari in visita alle fattorie di
tutti gli Stati Uniti e in ogni angolo del mon-do  per  insegnare  le  nuove  tecniche  agli
agricoltori. Questi programmi hanno fun-zionato benissimo. In tutto il pianeta, dal
1970 a oggi, hanno ridotto il tasso di analfa-betismo da un adulto su tre a uno su sei, e ci
hanno regalato la rivoluzione verde che ha
salvato dalla morte per fame più di un mi-liardo di persone.
Nell’era dell’iPhone, di Facebook e di
Twitter, ormai siamo innamorati delle idee
che  si  diffondono  con  la  stessa  facilità
dell’etere.  Vorremmo  trovare  soluzioni
semplici e “chiavi in mano” per i grandi
problemi del mondo: fame, malattia, po-vertà. Preferiamo i video agli insegnanti in
carne e ossa, i droni ai soldati, gli incentivi
alle istituzioni. Le persone e le istituzioni ci
sembrano anacronistiche perché introdu-cono, come dicono i tecnici, variabili incon-trollate. Ma la tecnologia e i sistemi incenti-vanti non bastano. “La difusione è fonda-mentalmente un processo sociale grazie al
quale un’innovazione viene trasmessa da
persone che parlano con altre persone”, ha
scritto Everett Rogers, il grande studioso
della comunicazione e della circolazione
delle idee. I mezzi d’informazione possono
proporre una nuova idea. Ma, come ha di-mostrato Rogers, quando devono decidere
se adottarla o meno, le persone si lasciano
guidare da altre persone che conoscono e di
cui si idano. Ogni cambiamento richiede
uno sforzo, e la decisione di fare quello sfor-zo viene presa a livello sociale.
Questa è una cosa che gli agenti di com-mercio sanno bene. Una volta ho chiesto al
rappresentante di una casa farmaceutica
come riesca a convincere i medici – che so-no notoriamente testardi – ad adottare un
nuovo farmaco. Per quanto possa essere
convincente, mi ha risposto, la documenta-zione non basta. Bisogna anche applicare
“la regola dei sette tocchi”. Letteralmente
“toccare” il medico sette volte perché abbia
la sensazione di conoscerci. Se ti conosco-no, si idano di te. E se si idano di te, cam-bieranno. Era per questo che riempiva per-sonalmente  gli  armadietti  dei  dottori  di
campioni gratuiti. Poi inilava la testa nella
stanza e chiedeva: “Com’è andata la partita
di tua iglia Debbie?”. E alla ine arrivava a
chiedere:  “Hai  letto  lo  studio  sul  nostro
nuovo farmaco? Che ne dici di provarlo?”.
In conclusione, il rapporto umano è il modo
più eicace per vincere la resistenza e acce-lerare il cambiamento.
Nel 1968 The Lancet pubblicò i risultati
di un modesto studio su quella che oggi è
considerata una delle più importanti sco-perte della medicina del ventesimo secolo.
Non era un nuovo farmaco né un vaccino
né  un  tipo  di  intervento  chirurgico.  Era
semplicemente  una  soluzione  di  acqua,
zucchero e sale che si poteva preparare in
qualsiasi cucina. I ricercatori la sommini-strarono alle vittime di un’epidemia di cole-ra scoppiata a Dhaka, oggi la capitale del
Bangladesh, e i risultati furono sorprenden-ti. Il colera si manifesta con una diarrea vio-lenta e potenzialmente mortale, causata da
un batterio, il vibrione del colera, che di so-  lito la vittima ingerisce bevendo acqua con-taminata. I batteri secernono una tossina
che  innesca  un  rapido  afflusso  di  fluidi
all’intestino. Il corpo, che è costituito al 60
per cento di acqua, diventa come una spu-gna strizzata. Il liquido che esce è di un co-lore bianco torbido, simile a quello dell’ac-qua con cui si è lavato il riso. Produce vio-lenti conati di vomito e scariche di diarrea
esplosiva. I bambini possono perdere un
terzo del loro luido corporeo in meno di 24
ore,  una  quantità  fatale.  Bere  acqua  per
compensare quella perdita non serve, per-ché l’intestino non l’assorbe. Di conseguen-za, tra le persone colpite, la mortalità di so-lito raggiunge o supera il 70 per cento.
Nel diciannovesimo secolo, le pande-mie di colera uccisero milioni di persone in
Asia, Europa, Africa e Nordamerica. La ma-lattia era soprannominata la “morte blu”
per via del colore azzurro-grigiastro che as-sume la pelle a causa dell’estrema disidra-tazione.Nel 1906 fu scoperta una cura par-zialmente efficace: una soluzione salina
somministrata per via endovenosa riduce-va la mortalità al 30 per cento. La strategia
più eicace rimaneva la prevenzione. Nei
paesi più ricchi i sistemi fognari moderni e
il trattamento delle acque eliminarono que-sta malattia. Ma nel mondo ogni anno mi-lioni di bambini continuavano a morire di
diarrea. Anche se riuscivano a raggiungere
un ospedale, gli aghi, i tubi di plastica e i litri
di luido necessari per il trattamento erano
molto costosi, in quantità limitata, e gli am-malati dipendevano totalmente dal perso-nale medico, che a sua volta era insuicien-te, soprattutto quando un’epidemia provo-cava migliaia di vittime.
Poi, negli anni sessanta del novecento,
gli scienziati scoprirono che lo zucchero
aiuta l’intestino ad assorbire i luidi. Due
ricercatori statunitensi, David Nalin e Ri-chard Cash, si trovavano a Dhaka durante
l’epidemia di colera, e decisero di testare la
nuova scoperta, somministrando alle vitti-me per via orale una soluzione che conte-neva zucchero oltre che sale. Molti dubita-vano  che  i  malati  potessero  berne  abba-stanza per compensare la perdita di liquidi,
che in media andava dai 10 ai 20 litri al gior-no. Perciò i due studiosi limitarono l’esperi-mento a 29 persone. I pazienti non ebbero
nessuna diicoltà a bere abbastanza acqua
da ridurre o addirittura eliminare la som-ministrazione del luido per via endoveno-sa, e nessuno di loro morì.
Tre anni dopo, nel 1971, un medico in-diano di nome Dilip Mahalanabis dirigeva
il servizio di assistenza sanitaria di un cam-po profughi del Bengala occidentale che
ospitava 350mila rifugiati della guerra d’in-dipendenza del Bangladesh, quando scop-piò il colera. Le scorte di luido da sommini-strare per via endovenosa inirono e Maha-lanabis ordinò ai suoi di provare con la solu-zione di Dhaka. Solo il 3,6 per cento delle
persone colpite morì, rispetto al consueto
30 per cento. La soluzione orale funzionava
addirittura meglio di quella per endovena.
Le vittime del colera erano vigili, in grado
di ingerirla e, se ne bevevano abbastanza,
quasi sempre si salvavano.
Quando questi risultati furono resi noti,
ci si sarebbe potuti aspettare che tutti ne
avrebbero chiesto la formula. La reidrata-zione orale era come l’etere: una soluzione
miracolosa per un problema immediato e
terriicante. Ma le cose non andarono così.
Per capirne il motivo, dobbiamo immagi-nare un bambino che vomita e ha una diar-rea incontenibile. Si ha l’impressione che
facendolo bere si provochi solo ulteriore
vomito. Combattere il vomito e la diarrea
sembra diicile e inutile. La maggior parte
delle persone tende a non dargli nulla. Inol-tre,  perché  pensare  che  questa
particolare miscela di zucchero e
sale sia diversa dall’acqua o da
qualsiasi altra cosa che abbiamo
provato? E in efetti è particolare.
Basta  che  la  concentrazione  di
sale sia leggermente più alta e lo squilibrio
elettrolitico  può  diventare  pericoloso.  Il
bambino deve continuare a bere quella ro-ba anche quando migliora, inché dura la
diarrea, cioè in media per cinque giorni. Gli
infermieri di solito smettevano di dargliela.
Perché mai nei villaggi avrebbero dovuto
fare di meglio?
Dieci anni dopo, questa importante sco-perta non si era ancora difusa. Le cose non
erano molto cambiate. In tutto il mondo, la
diarrea  rimaneva  la  principale  causa  di
morte dei bambini sotto i cinque anni. Ma
nel 1980 un’organizzazione non proit ban-gladese chiamata Brac decise di provare a
difondere la terapia di reidratazione orale
in tutto il paese. La campagna era rivolta a
una popolazione in gran parte analfabeta.
L’ultima campagna che aveva condotto –
quella per la pianiicazione familiare – era
stata molto impopolare. E il messaggio che
doveva trasmettere era complicato. Invece
questa volta la campagna ebbe successo.
Un bellissimo libro pubblicato in Bangla-desh, e intitolato Una soluzione semplice, ne
racconta  la  storia.  L’organizzazione  non
usò i mezzi d’informazione. Dopotutto, so-lo il 20 per cento della popolazione aveva la
radio. Afrontò il problema in un modo che
di solito viene considerato poco pratico e
ineiciente: andando di casa in casa e par-lando con le persone.
Una soluzione semplice
Cominciò con un progetto pilota che si pro-poneva di raggiungere circa 60mila donne
in 600 villaggi. L’impresa non era sempli-ce. Chi sarebbero stati, per esempio, gli in-segnanti? Come avrebbero viaggiato? Co-me sarebbe stato possibile garantire la loro
sicurezza? I dirigenti della Brac program-marono il lavoro nel miglior modo possibile
e poi fecero man mano degli aggiustamen-ti. Reclutarono squadre formate da quat-tordici giovani donne, un cuoco e un super-visore,  immaginando  che  quest’ultimo
avrebbe protetto le donne e che il loro nu-mero le avrebbe difese da lui. Viaggiavano
a piedi, si accampavano vicino ai villaggi,
andavano di capanna in capanna, e resta-vano lì inché non avevano parlato con tutte
le donne. Lavoravano per molte ore al gior-no, sei giorni alla settimana. Ogni sera, do-po cena, si riunivano per discutere com’era-no andate le cose e per pensare a come mi-gliorarle. Periodicamente, veni-vano anche chiamati a rapporto
dai dirigenti.
Le persone scelte erano semi-analfabete, quindi avevano ridot-to il messaggio a pochi punti chia-ve  facili  da  ricordare.  Una  forte  diarrea
conduce alla morte per disidratazione; i se-gni della disidratazione sono: lingua asciut-ta, occhi afossati, sete, estrema debolezza
e minzione ridotta; per curare la disidrata-zione bisogna reintegrare l’acqua e i sali che
il corpo ha perduto, a partire dalla prima
scarica; la soluzione reidratante è l’unico
modo per farlo. Gli scienziati della Brac do-vettero pensare anche a come i loro inviati
avrebbero potuto insegnare la ricetta della
soluzione.  Nei  villaggi  non  c’erano  stru-menti di misurazione precisi. Consideraro-no la possibilità di distribuire speciali cuc-chiai con le dosi scritte sul manico. Ma sa-rebbero  costati  troppo,  la  maggior  parte
delle persone non sarebbe stata in grado di
leggerle, e non avrebbero saputo come so-stituirli se fossero andati perduti. Alla ine,
pensarono di usare le mani: un pugno di
zucchero grezzo più un pizzico di sale in un
seer d’acqua, la misura comunemente usata  nei villaggi per il latte e l’olio. I test dimo-strarono che le madri riuscivano a dosare
gli ingredienti in modo suicientemente
preciso.
All’inizio i loro inviati parlavano con una
ventina di madri al giorno. Ma da un con-trollo efettuato qualche tempo dopo, emer-se che la qualità dell’insegnamento ne ri-sentiva, quindi cominciarono a visitare solo
dieci famiglie al giorno. Poi fu introdotto un
nuovo sistema di retribuzione. Ognuno era
pagato in base al numero di madri che ave-va imparato la lezione al controllo successi-vo. La qualità dell’insegnamento migliorò
notevolmente. Gli inviati sul campo si rese-ro conto che far preparare la soluzione di-rettamente alle madri funzionava meglio
che mostrare come si faceva. Appena arri-vavano  in  un  villaggio,  cominciavano  a
chiedere se c’erano casi di diarrea e li cura-vano per dimostrare quanto quel rimedio
fosse eicace e sicuro. I ricercatori cercaro-no una risposta anche ad altri dubbi che
erano sorti, per esempio se era necessario
usare acqua pulita (e scoprirono che, sebbe-ne l’acqua bollita fosse preferibile, quella
contaminata era meglio di niente).
I primi segnali erano promettenti. Le
madri sembravano ricordare il cuore del
messaggio. L’analisi delle soluzioni dimo-strava che tre quarti di loro le preparavano
correttamente, e solo in quattro casi su mil-le la quantità di sale era potenzialmente
pericolosa. Perciò la Brac e il governo ban-gladese decisero di estendere il programma
a  tutto  il  paese.  Assunsero,  formarono  e
spedirono migliaia di persone in tutte le re-gioni. L’esperimento non funzionò perfet-tamente. Ma, andando di porta in porta in
più di 75mila villaggi, insegnarono a 12 mi-lioni di famiglie come salvare i loro bambi-ni. Il programma ebbe un successo straor-dinario. L’uso della reidratazione per via
orale salì alle stelle. La tecnica cominciò a
difondersi spontaneamente. Erano riusci-ti a cambiare le norme. Spingendo gli abi-tanti dei villaggi a preparare la soluzione da
soli e a ripetere i messaggi a parole loro,
mentre un insegnante li osservava e li gui-dava, si otteneva molto di più che con qual-siasi pubblicità progresso o video di istru-zioni. Nel corso del tempo, è stato possibile
difondere il messaggio anche attraverso la
radio e la televisione, e l’aumento della do-manda ha fatto sorgere un iorente mercato
di pacchetti di sale pronti per la reidratazio-ne  orale.  A  trent’anni  di  distanza,  da  un
sondaggio è emerso che a quasi il 90 per
cento dei bambini afetti da diarrea acuta
era stata somministrata quella soluzione.
Dal 1980 al 2005 i casi di morte per diarrea
sono diminuiti dell’80 per cento.
Quando altri paesi hanno adottato il si-stema del Bangladesh, in tutto il mondo le
morti per diarrea sono scese da cinque a
due milioni all’anno, nonostante l’aumento
del 50 per cento della popolazione degli ul-timi trent’anni. Eppure, nel mondo in via di
sviluppo ancora oggi solo un terzo dei bam-bini afetti da diarrea è curato con la reidra-tazione orale. Molti paesi hanno cercato di
difondere il sistema a distanza, senza man-dare nessuno sul campo. Ma hanno fallito
quasi completamente. Parlare direttamen-te con le persone è ancora l’unico modo per
cambiare le norme.
Alla ine del diciannovesimo secolo, tut-ti i chirurghi avevano inalmente adottato il
metodo antisettico. Ma come spesso succe-de per le nuove idee, questo risultato aveva
richiesto cambiamenti molto più profondi
del previsto. Con le loro palandrane nere
macchiate di sangue e incrostate di viscere,
i chirurghi si sentivano guerrieri che com-battevano l’emorragia poco più che a mani
nude. Alcuni pionieri tedeschi, tuttavia, co-minciarono  a  pensare  a  se  stessi  come
scienziati. Sostituirono le redingote nere
con impeccabili camici bianchi da laborato-rio,  riorganizzarono  le  sale  operatorie  in  modo da farle diventare sterili, e diedero
più importanza alla precisione anatomica
che alla velocità.
La cosa principale da insegnare ai chi-rurghi, scoprirono, non era tanto eliminare
i germi quanto ragionare come scienziati da
laboratorio. I giovani dottori statunitensi e
di altri paesi che andavano a studiare con i
grandi luminari della chirurgia tedesca si
convertivano con entusiasmo al loro modo
di pensare e ai loro metodi. Quando torna-vano a casa, erano diventati apostoli non
solo delle pratiche antisettiche (per uccide-re i germi) ma anche delle più impegnative
pratiche asettiche (per prevenire i germi),
che prevedevano l’uso di guanti, camici,
cuie e mascherine sterili. Facendo prose-liti tra i loro colleghi e studenti, alla ine dif-fusero quelle idee in tutto il mondo.
Come un’amica
Nel campo dell’ostetricia, abbiamo già ca-pito  che  gli  accorgimenti  più  importanti
non si difonderanno mai da soli. La sem-plice “consapevolezza” non sarà suicien-te. Abbiamo bisogno anche qui di rappre-sentanti di commercio e di regole facili da
ricordare. E in molti posti del mondo è già
cominciato un tentativo di cambiare le nor-me persona per persona. Qualche tempo fa
ho chiesto agli operatori di BetterBirth in
India se avevano già visto un’ostetrica lavo-rare in modo diverso. Sì, hanno detto, ma ci
vuole un po’ di tempo. Cominciano con una
giornata di lezione per le ostetriche e i diret-tori degli ospedali sulla prassi da seguire.
Poi li vanno a trovare sul posto e li osserva-no mentre cercano di applicarla.
Sorella Seema Yadav, un’infermiera di
24 anni dal viso tondo diplomata da tre an-ni, è una delle formatrici (in India le infer-miere sono chiamate “sorelle”, come face-vano i britannici ai tempi dell’impero). Il
suo primo compito è stato quello di seguire
una collega di trent’anni che aveva molta
più esperienza di lei. Osservandola assiste-re una donna durante il travaglio e il parto,
si è resa conto di quanto poco avesse assor-bito quello che le era stato insegnato. La
stanza non era stata disinfettata, in un sec-chio c’era ancora il sangue del parto prece-dente. Quando la donna era arrivata, ge-mendo perché le contrazioni stavano di-ventando più frequenti, non ha controllato
i suoi parametri vitali. Non si è lavata le ma-ni. Non ha preparato nulla per un’eventuale
emergenza. Dopo il parto ha controllato la
temperatura del neonato con la mano, non
con un termometro. Invece di appoggiare il
bambino sul corpo della madre perché lo
riscaldasse, lo ha aidato ai parenti.
Quando Seema le ha fatto notare la di-screpanza tra quello che le aveva insegnato
e come si era comportata, l’infermiera si è
ofesa. Ha cercato di spiegare perché aveva
saltato alcuni passaggi: non c’era tempo,
aveva molte donne in attesa, non c’era mai
un termometro a portata di mano, il perso-nale delle pulizie non faceva mai il suo do-vere. Seema, una ragazza esuberante e alle-gra che parla molto velocemente, l’ha por-tata dall’inserviente di turno e insieme le
hanno spiegato perché era così importante
pulire la sala tra un parto e l’altro. Sono an-date dal direttore sanitario e hanno chiesto
un termometro. Alla seconda e terza visita
ha visto che la sala parto veniva disinfettata
più regolarmente. In un armadietto aveva-no trovato un termometro. Ma la routine
dell’infermiera non era molto cambiata.
Alla quarta o quinta visita, la loro con-versazione si è spostata su un altro piano.
Hanno bevuto un tè insieme e discusso per-ché bisognava lavarsi le mani anche se si
mettevano i guanti (perché i guanti poteva-no essere bucati e spesso si toccavano i ferri
prima di indossarli) e perché era importan-te controllare la pressione sanguigna (per-ché  l’ipertensione  è  uno  dei  segnali
dell’eclampsia che, se non viene curata, è
una della cause di morte più comuni in gra-vidanza). Hanno imparato anche a cono-scersi  meglio.  Con  il  passare  del  tempo,
l’infermiera ha capito che Seema era lì solo
per  aiutarla  e  per  imparare  lei  stessa  da
quell’esperienza. Si sono perino scambiate
il numero di cellulare e telefonate tra una
visita e l’altra. Ben presto, l’infermiera ha
cominciato a cambiare comportamento.
Dopo diverse visite prendeva la temperatu-ra e la pressione sanguigna regolarmente, si
lavava le mani, somministrava i farmaci
giusti, faceva quasi tutto. Seema l’ha visto
con i suoi occhi. Ma ormai si è dovuta spo-stare in un altro ospedale pilota. E passerà
un po’ di tempo prima di avere dati sui-cienti per veriicare se ha cambiato vera-mente le cose. Perciò, mi sono fatto dare il
numero di telefono dell’infermiera e l’ho
chiamata.
Erano passati quattro mesi dall’ultima
visita di Seema. Le ho chiesto se aveva in-trodotto qualche cambiamento. Molti, ha
risposto. “Qual è stato il più diicile?”, le
ho chiesto.
“Lavarmi le mani”, ha detto. “Devo far-lo tante di quelle volte!”.
“E il più facile?”.
“Controllare bene i parametri vitali”.
Prima, ha detto, “lo facevamo ogni tanto”.
Adesso, “tutto è diventato molto più siste-matico”. E alla ine aveva cominciato a ve-derne gli efetti. Le emorragie postparto
erano  diminuite.  Si  accorgeva  prima  se
c’era un problema. Aveva salvato un bambi-no che non respirava. Aveva diagnosticato
l’eclampsia in una donna e l’aveva curata. Si
sentiva che era orgogliosa di quello che rac-contava. Per introdurre molti dei cambia-menti c’era voluto tempo. Aveva dovuto
imparare a inserire queste abitudini nella
sua routine quotidiana e a convincere le
madri e i familiari che la cosa migliore per il
neonato era stenderlo sul corpo della ma-dre. Ma, passo dopo passo, Seema l’aveva
aiutata. “Mi ha mostrato in pratica come
fare le cose”, ha detto l’infermiera.
“E perché l’ha ascoltata?”, le ho chiesto.
“Aveva molta meno esperienza di lei”.
All’inizio non l’ascoltava, ha ammesso.
“Il primo giorno che è venuta ho avuto la
sensazione che il mio carico di lavoro fosse
aumentato”. Ma dalla seconda volta in poi
aveva cominciato a prendere meglio le sue
visite, arrivando quasi ad aspettarle con im-pazienza.
“Perché?”, le ho chiesto. L’unica cosa
che ha trovato da dire è stata: “Era simpati-ca”.
“Tutto qui?”.
“Non era come parlare con qualcuno
che cercava di coglierti in fallo”, ha detto.
“Era come parlare con un’amica”.
Quella, secondo me, era la vera risposta.
Da allora l’infermiera aveva trovato un suo
modo per spiegare perché i neonati devono
essere riscaldati a contatto con la pelle della
madre. Adesso dice alle famiglie: “All’in-terno dell’utero fa molto caldo. Quando il
bambino esce fuori, dev’essere mantenuto
caldo. Il corpo della madre serve a questo”.
Non ero sicuro che fosse davvero sincera e
non mi stesse solo dicendo quello che vole-vo sentirmi dire. Ma quando mi ha spiegato
come diceva con parole sue quello che ave-va imparato, ho capito che il messaggio era
arrivato.
“E le famiglie l’ascoltano?”.
“Di solito sì”. u bt
L’AUTORE
Atul Gawande è un chirurgo statunitense.
Scrive per il New Yorker. Il suo ultimo libro
uscito in Italia è Check list. Come fare andare
meglio le cose (Einaudi 2011)

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