sabato 30 novembre 2013

1028 - SCIENZA - L’ora di casa - Cara Parks, Aeon, Regno Unito Foto di Quentin Bertoux Una giornalista statunitense ha viaggiato per il mondo senza mai spostare l’orologio dal fuso orario di New York. E racconta cosa ha imparato sui ritmi circadiani

P
oche cose scatenano l’ango-scioso  senso  di  colpa  che
provo ogni volta che mi sve-glio alle tre del pomeriggio.
Appena leggo l’ora sul cel-lulare provo un brivido di
vergogna, come se mi ricordassi di aver be-vuto un bicchiere di troppo la sera prima.
Ho sprecato tempo e ho dimostrato ai miei
simili quanto sono pigra. Potrei anche tirar-mi di nuovo il lenzuolo sulla testa e ingere
che la giornata non sia mai cominciata.
Da qualche tempo conosco in troppo
bene questa sensazione. Spesso non sento
la sveglia e continuo a dormire, ino a po-meriggio inoltrato. E non (solo) perché sono
una giornalista pigra. Mi sto sottoponendo
a un esperimento molto poco scientifico
che consiste nel dissociare i miei ritmi cir-cadiani  dal  normale  ciclo  notte-giorno.
All’inizio di quest’anno ho lasciato il mio
posto isso di redattrice per viaggiare e lavo-rare come freelance. Il mio compagno col-labora con un sito di notizie che gli consente
di passare lunghi periodi lontano dall’ui-cio. Ci siamo resi conto che potevamo vive-re dovunque – purché rimanessimo entro il
fuso orario della costa orientale degli Stati
Uniti – così abbiamo annullato il contratto
d’aitto della nostra casa, messo i mobili in
un deposito e cominciato a prenotare voli.
Avremmo dovuto alzarci alle 7 di matti-na e andare a letto a mezzanotte Eastern
standard time (Est), con un po’ più di lessi-bilità durante il weekend. Questo signiica-va che potevamo esplorare l’Europa occi-  dentale, alcune parti del Nordafrica, il Su-damerica e l’America Centrale (l’Asia e tutto
l’oriente erano fuori questione, perché sarei
diventata praticamente un vampiro). Chi
non avrebbe sopportato il piccolo fastidio di
un cambio di ritmi per avere la possibilità di
vedere tante cose?
E così abbiamo cominciato a viaggiare.
Ci siamo fermati a Lisbona (Est + 5 ore) per
un  mese:  mi  svegliavo  a  mezzogiorno  e
scendevo come uno zombie a prendere il
cafè. Su una spiaggia del Paciico nordocci-dentale (-3), mi alzavo prima dell’alba, e a
Parigi (+ 6) mi lavavo i denti alle sei di mat-tina, non per mettermi a lavorare ma per
andare a letto. Quando siamo tornati a New
York (0) per qualche settimana, ho ripreso i
normali ritmi sociali. Tra poco partirò per
Barcellona (+ 6) e poi per Buenos Aires (+
1). L’esperienza che sto vivendo si chiama
discronia circadiana, in pratica sono indi-pendente dal giorno solare.
La battaglia del jet lag
Quando sono partita per il mio primo viag-gio sapevo poco dei ritmi circadiani e del
sonno in generale. Nel 1729 l’astronomo
francese Jean-Jacques Dortous de Mairan
fu uno dei primi scienziati a osservare que-sti cicli biologici. Mentre scriveva si accorse
che la sua mimosa ripiegava le foglie per la
notte e decise di veriicare se la pianta aveva
un orologio interno tenendola nell’oscurità.
Nel suo libro Internal time Till Roenneberg,
docente di cronobiologia a Monaco di Ba-viera e presidente della Federazione mon  diale delle società di cronobiologia, descri-ve il risultato di quell’esperimento. Anche
se privata della luce naturale, “evidente-mente la pianta ‘conosceva’ la posizione del
Sole e ‘sapeva’ quando era giorno e quando
era notte. Ogni mattina, poco prima dell’al-ba, le sue foglie si aprivano, e ogni sera, po-co prima che il Sole tramontasse, si ripiega-vano di nuovo”. I suoi cicli interni erano in-dipendenti dal mondo esterno. Ma fu solo
negli  anni  cinquanta  del  novecento  che
Franz Halberg, uno dei fondatori della cro-nobiologia – lo studio di questi cicli – intro-dusse il termine “circadiani” per deinire i
ritmi biologici interni. Nello stesso periodo
fu scoperto il sonno rem, si cominciò a com-prendere meglio la natura del sonno stesso
– che non è un blocco unico ma è costituito
da una serie di fasi –, si arrivò a una deini-zione dell’apnea notturna e si scoprirono le
proprietà della melatonina. Fu un periodo
molto attivo per il sonno.Dormiamo per circa un terzo della no-stra esistenza. Nonostante il ruolo fonda-mentale che il sonno svolge nella nostra vi-ta, non avevo pensato che modiicare ogni
poche settimane il mio ritmo sonno-veglia
rispetto  al  giorno  solare  avrebbe  potuto
avere delle conseguenze.
Quando sono arrivata a Lisbona con gli
occhi rossi per la stanchezza dopo il volo da
New York, sono uscita dall’aeroporto sul
piazzale assolato. Sulla costa orientale degli
Stati Uniti erano le 3.20 del mattino, lì erano
le 8.20. Quando i miei occhi hanno visto il
Sole, il mio cervello ha deciso che doveva
ancora essere il giorno prima. Da quel mo-mento tra me e il mio corpo è cominciata
una silenziosa battaglia per stabilire quali
dovessero essere le normali ore di sonno.
Sapendo di dover rimanere sveglia ino alle
5 del mattino locali, cercai di fare un pisoli-no, ma il mio corpo opponeva resistenza,
sostenendo che dovevo aspettare ino al po-meriggio. La camera da letto aveva una por-tafinestra coperta da tende leggerissime
che ondeggiavano al vento e lasciavano ar-rivare fasci di luce sul letto. Di solito chi
viaggia conosce i sintomi del jet lag e cerca
di adattarsi ai nuovi orari prima possibile. Io
invece avevo sperato che il jet lag mi avreb-be aiutato a non adattarmi a ogni nuova al-ternanza tra luce e buio. Ma quella stanza
illuminata la pensava diversamente.
Il termine jet lag fu coniato intorno al
1966. Fino a quel momento i lenti viaggi in
nave attraverso l’Atlantico o le cavalcate at-traverso l’Asia avevano permesso agli esse-ri umani di adattarsi gradualmente al nuovo
ambiente (l’orologio interno può spostarsi
all’incirca di un’ora al giorno). Le indicazio-ni che il nostro orologio interno raccoglie
dall’ambiente esterno in tedesco si chiama-no zeitgeber (segnali del tempo). Sono fatto-ri come la temperatura e, soprattutto, la lu-ce: per i primi esseri umani il segnale più  importante per stabilire quando potevano
andare a caccia e quando dovevano metter-si al riparo veniva dal Sole. A questi si ag-giungono segnali interni, elaborati da una
regione del cervello chiamata nucleo supra-chiasmatico, o Scn. È quel mucchietto di
materia grigia a controllare i ritmi circadia-ni. Lo fa in parte agendo sulla ghiandola
pineale per indurla a produrre l’ormone ip-noinducente detto melatonina, che in alcu-ne parti del mondo si può anche comprare
in farmacia senza ricetta.
Dissociati
Di solito viviamo in base a un ciclo di 24 ore
collegato  alla  luce  del  giorno.  Ma  alcuni
esperimenti sul sonno hanno rivelato che,
quando siamo privati di qualsiasi indicazio-ne esterna come la luce solare e gli orologi,
quasi tutti passiamo a un ciclo libero di 25
ore, perché gli zeitgeber ci spostano legger-mente in avanti rispetto al nostro tempo
interno. Uno dei primi esperimenti in que-sto campo fu condotto dallo scienziato te-desco Jürgen Aschof e dal suo collega Rüt-ger Wever, che all’epoca lavoravano a Prin-ceton. Fecero costruire due bunker in Ba-viera dai quali erano stati eliminati tutti i
segni del tempo esterno. Non avevano ine-stre, erano isolati acusticamente e perino
progettati per non risentire dei cambiamen-ti del campo elettromagnetico. I soggetti
che si trovavano al loro interno erano accu-ratamente monitorati, sia dal punto di vista
mentale sia da quello isico (perino tramite
una sonda rettale attaccata con un lungo
tubo a un’apertura sul muro). Come aveva-no previsto, nel corso di tre settimane la
maggior parte delle persone si stabilizzò su
un ciclo leggermente più lungo di 24 ore,
dormendo circa un terzo del tempo. Come
le mimose di Mairan, pur non vedendo il
Sole gli esseri umani seguivano i loro ritmi
naturali.
Il vero orologio è dentro di noi. I segnali
esterni lo sincronizzano con il mondo, im-pedendoci di slittare ogni giorno in avanti
rispetto al ciclo solare. È proprio a causa di
questo tempo interno che sperimentiamo il
jet lag. “Qualunque ora sia per il suo orolo-gio interno”, scrivevano nel 2007 gli autori
di un articolo sul jet lag pubblicato sulla rivi-sta medica The Lancet, “il nostro corpo si
deve adattare al giorno solare”. È per que-sto che i medici chiamano il jet lag disincro-nosi. Chi viaggia è temporaneamente dis-sociato dal mondo che lo circonda.
Quel primo giorno, a Lisbona, alla ine
ho ceduto a un sonno leggero. Da quel mo-mento il mio corpo ha opposto sempre più
resistenza  con  il  passare  dei  giorni,  sve  gliandomi appena la luce del giorno comin-ciava a iltrare attraverso le tende, indipen-dentemente  da  quanto  avevo  dormito.
All’inizio il jet lag mi ha aiutato a rimanere
ancorata all’ora della costa est degli Stati
Uniti (mi alzavo a mezzogiorno e andavo a
letto all’alba), ma poi non ha più funzionato
perché i miei ritmi circadiani facevano di
tutto per adattarsi al ciclo solare. Mi sentivo
stanchissima a strane ore del giorno, e qua-si sempre dovevo dormire un po’ intorno
alle 11 di sera. La mattina (che a Lisbona era
pomeriggio) ero disorientata e nervosa. Era
diicile programmare i pasti e spesso li sal-tavamo, accontentandoci di fare uno spun-tino con un cafè quando non ci andava di
mangiare a mezzanotte. Ho cominciato a
ingrassare e ho dovuto prendere un leggero
antidepressivo. E comunque, mi svegliavo
un po’ prima ogni mattina e avevo sonno un
po’ prima ogni sera.
La doccia entro mezzogiorno
Per un adulto non è facile dormire in dopo
mezzogiorno. Il nostro ciclo circadiano in-vecchia con noi. Da bambini ci svegliamo
presto, da adolescenti non andremmo mai
a letto e da adulti ci attestiamo su una via di
mezzo. Naturalmente, all’interno di questa
tendenza generale esistono molte varianti
personali. I cronobiologi chiamano crono-tipi gli orologi genetici interni che spingono
certe persone ad alzarsi presto e altre a stare
alzate ino a tardi.
A New York di solito mi svegliavo verso
le 8.30 di mattina. Adesso gli orari irregolari
mi impediscono di accorgermi dei piccoli
cambiamenti del mio ciclo sonno-veglia. A
Parigi (+ 6) ho cercato di alzarmi presto co-me ero abituata a fare negli Stati Uniti, ma
concetti come presto e tardi diventano piut-tosto confusi quando presto signiica riusci-re a fare la doccia entro mezzogiorno.
Prima che arrivassero i viaggi aerei e lo
spiazzamento temporale che li accompa-gna, gli esseri umani si sono staccati per la
prima volta dai loro ritmi naturali quando è
stata inventata la luce elettrica. La sua dif-fusione ha reso possibili anche i turni di la-voro notturni. Praticamente è quello che
faccio  in  Europa.  Accendo  tutte  le  luci
dell’appartamento dove abito, mi metto al
computer e cerco di convincere il mio cer-vello che è spuntato il Sole. Come mi ha det-to  Steven  Scharf,  un  esperto  di  sonno
dell’università del Maryland, alcuni se la
cavano meglio di altri in queste situazioni
innaturali. Per ridurre al minimo il disagio
dei turni di notte, mi ha suggerito di usare
tende molto pesanti per non far entrare la
luce del giorno e di indossare occhiali con le
lenti gialle di sera, per contrastare l’esposi-zione alla luce azzurra. “Se veramente non
vuole rinunciare all’ora della costa orienta-le, cosa che non le consiglierei di fare, oltre
a rispettare i suoi ritmi di sonno e veglia de-ve anche evitare la luce”, mi ha detto. Non
sarebbe un cattivo consiglio, però non pos-so accettarlo. La ragion d’essere di tutto
questo esperimento sono proprio le poche
ore  che  riusciamo  a  strappare  prima  del
clou della giornata lavorativa sulla costa
orientale, per correre a fare i turisti o andare
a pranzo fuori appena alzati. Se restassi a
casa dietro quelle tende pesanti, tutta la fa-tica che stiamo facendo non sarebbe più
giustiicata.
La  luce  è  la  cosa  più  importante  per
scandire il nostro tempo, il principale siste-ma di regolazione del nostro orologio in-terno. Quindi non c’è da sorprendersi se
l’introduzione del nostro Sole personale
ha comportato tante conseguenze. Solo un
paio di anni fa i neurologi della Thomas
Jefferson university di Filadelfia si sono
resi conto che la luce azzurra che mi aveva-no consigliato di evitare inluisce notevol-mente sui ritmi circadiani. In occasione di
uno studio del 2001 diretto da Christian
Cajochem, un cronobiologo dell’universi-tà svizzera di Basilea, i ricercatori hanno
chiesto a 13 uomini di issare lo schermo di
un computer per cinque ore a notte. Per
una  settimana  hanno  guardato  schermi
luorescenti, che emettono luce di tutti i
colori; per un’altra settimana hanno avuto
davanti schermi a led, la cui luce è molto
più azzurra. Gli studiosi hanno riscontrato
“enormi diferenze” tra le due situazioni:
quando i soggetti guardavano gli schermi
azzurri nel corso della notte mostravano
un abbassamento dei livelli di melatonina.
Il nostro corpo, creato per la luce solare,
adesso assorbe la luce azzurra di innume-revoli schermi che modiica leggermente il
nostro orologio interno e ci spinge a rima-nere alzati un po’ di più ritardando il rila-scio della melatonina che ci farebbe addor-mentare.
Vita da nomade
Qualche settimana fa mi sono ammalata
più seriamente di quanto mi fosse mai ac-caduto da adulta e alla ine sono stata co-stretta a sottopormi a un’operazione chi-rurgica. I medici che mi curavano non riu-scivano a capire perché mi fossi ammalata
così all’improvviso. Non credo che siano
state le mie strane ore di sonno a farmi ini-re in ospedale, ma questo mi ha spinto a ri-lettere sulla mia battaglia contro i ritmi
circadiani. Prima della malattia pensavo
che valesse la pena di fare quell’esperienza
nonostante il disagio, anche se non riusci-vo a vedere molto dei posti che visitavo.
Sono convinta che la capacità di andare
contro la nostra natura sia uno dei tratti che
rendono unici gli esseri umani.
Ma  ora  mi  chiedo  se  non  sono  stata
troppo arrogante a voler ignorare il mio
orologio interno. La malattia ci fa capire
quanto la nostra coscienza superiore di-penda dal corpo. Da uno studio commis-sionato  dall’Organizzazione  mondiale
della sanità e pubblicato su The Lancet nel
2007  è  emerso  che  qualsiasi  sconvolgi-mento dei ritmi circadiani, come quello
provocato dai turni di lavoro, è probabil-mente cancerogeno, e una ricerca condot-ta nel 2013 da Paolo Sassone-Corsi e dai
suoi colleghi dell’università della Califor-nia a Irvine ha dimostrato che i ritmi circa-diani controllano la reazione del corpo ad
agenti patogeni come la salmonella. Men-tre ero in ospedale mi sono chiesta quali
forze  avevo  sfidato  giocando  con  il  mio
orologio interno.
Questa vita da nomade mi piace ancora.
Mentre faccio le valige per Barcellona (+ 6)
mi preparo ancora una volta a combattere i
miei ritmi circadiani, lasciandomi alle spal-le il cronotipo che mi spinge ad andare a
letto leggermente tardi per entrare nel re-gno dei veri uccelli notturni che stanno sve-gli ino alle sei di mattina e si alzano dopo
mezzogiorno. Per circa sei giorni cercherò
di non lasciare che il mio ritmo sonno-ve-glia si adatti al giorno solare. Ma ora ho più
rispetto per i miei ritmi circadiani, che sono
molto personali e funzionano indipenden-temente da dove sorge la nostra stella. Den-tro di me c’è un orologio che batte come un
secondo cuore invisibile, e ho deciso di pre-stare più attenzione a quel battito. u bt
La luce è la cosa più
importante per
scandire il nostro
tempo, il principale
sistema di regolazione
del nostro orologio
interno
Alec Baldwin
Cate Blanchett
Louis C.K.
Bobby Canna

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