sabato 30 novembre 2013

1028 - I marchi dell’ingiustizia Jason Motlagh, The Nation, Stati Uniti Foto di Munem Wasif Sette mesi dopo il crollo del Rana Plaza, in cui sono morti più di mille operai, la sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento rimane scarsa, gli incidenti continuano e le famiglie delle vittime aspettano i risarcimenti

no straniero non viene
mai lasciato solo davan-ti  alle  rovine  del  Rana
Plaza.  In  una  rovente
mattina  di  agosto,  un
gruppo di persone addo-lorate mi circonda con fasci di documenti e
fotograie facendo a gara per conquistare la
mia attenzione. Cercano disperatamente
un qualche riconoscimento per la iglia, il
iglio, la moglie o il marito che hanno perso
quando,  il  24  aprile  2013,  gli  otto  piani
dell’ediicio che ospitava diversi laboratori
tessili sono crollati uccidendo più di 1.100
persone. Mentre la calca intorno a me au-menta, le lebili richieste diventano riven-dicazioni a piena voce, e ben presto mi ri-trovo schiacciato contro il recinto di ilo
spinato davanti alla zona del disastro, oggi
una pozza d’acqua scura. L’unica via d’usci-ta è appuntarmi il nome e il numero di tele-fono di ciascuno di loro, con la vaga pro- messa di fare qualcosa.
Una donna, Rashida Begum, si tiene a
distanza. Ha un sari arancione e stringe al
petto una foto plastiicata. “Mia iglia”, dice
quando mi avvicino. Si chiamava Nasima,
aveva sedici anni e guadagnava 110 dollari
al mese cucendo pantaloni per la New Wa-ve Bottoms. Il giorno prima della tragedia,
Nasima e i suoi compagni erano stati man-dati a casa presto perché sulle pareti erano
comparse delle enormi crepe. La madre
racconta che Nasima era così spaventata
che non riuscì a mangiare, ma siccome era
lei a mantenere la famiglia, quando i capi le
ordinarono di tornare al lavoro non ha avu-to scelta. Non voleva perdere il posto.
Adesso Rashida ha un disperato biso-gno di aiuto economico, e torna sul luogo
dell’incidente con la speranza di trovare
qualcuno che possa darle delle risposte.
Certi giorni prende un pullman da Savar,
dove vive e dove si trovava il Rana Plaza,
ino a Dhaka e si unisce ai manifestanti che
chiedono un risarcimento davanti agli ui-ci dell’Associazione degli esportatori mani-fatturieri del Bangladesh (Bgmea), la po-tente associazione di categoria che rappre-senta un’industria da 20 miliardi di dollari
all’anno. Uno striscione nero recita: “Non
vi dimenticheremo”. Ma Rashida ha ben
poche speranze di essere risarcita. Il corpo
di Nasima non è stato recuperato intatto,
perciò non ha modo di dimostrare che sua
iglia era tra le vittime. E così torna a casa a
mani vuote.
Ho  incontrato  diverse  volte  Rashida
nelle settimane successive, sempre con gli
stessi vestiti sgualciti e lo stesso sguardo
vuoto, con la foto della iglia sul petto. La
sua presenza mi sembra il simbolo dell’in-capacità delle autorità e delle aziende stra-niere di afrontare adeguatamente l’inci-dente più terribile nella storia dell’industria
dell’abbigliamento. A distanza di cinque
mesi, tutte le promesse di migliorare la si-curezza delle fabbriche e prendere provve-dimenti contro i subappalti illegali riman-gono  frustrate  dalla  scarsità  di  risorse  e
dalla quasi totale mancanza di coordina-mento tra le parti. Il risarcimento ricono-sciuto alle vittime varia da poco a niente.
Secondo l’Istituto bangladese di studi sul
lavoro, nessuna delle quattromila famiglie
colpite dalla tragedia ha ricevuto l’intera
cifra promessa dal governo e dalla Bgmea.
Alcune decine di invalidi hanno ricevuto in
pompa magna dei sussidi da un fondo ad
hoc gestito dalla prima ministra, ma ormai
il denaro è quasi completamente esaurito.
Malgrado le generose assicurazioni, le
famiglie delle vittime inora hanno ricevu-to appena 1.250 dollari dal fondo di aiuto
d’emergenza creato dal governo, una som-ma misera per una vita umana “persino per
i bassi standard del Bangladesh”, dice Sara
Hossain, un avvocato che lavora per le vit-time. Le famiglie potrebbero ottenere di
più da un tribunale speciale se il governo si
decidesse a crearlo. Ma il potere dell’indu-stria tessile è troppo forte.
All’estero l’indiferenza dimostrata dal-le aziende di abbigliamento della grande
distribuzione non è meno sconvolgente. A
Ginevra, nel settembre scorso, ventinove
imprese erano state invitate a una confe-renza che mirava a raggiungere un accordo
sul risarcimento per il disastro del Rana
Plaza – e per le vittime di un incendio scop-piato a novembre 2012 in una fabbrica della
Tazreen Fashions dove hanno perso la vita
117 persone –  ma se ne sono presentate so-lo nove. Tra quelle che non hanno parteci-pato  spiccano  le  statunitensi  Walmart  e
Sears che, com’è  risultato in seguito, si ser-vivano  anche  della  fabbrica  di  Tazreen
Fashions (Walmart, uno dei più grandi ac-quirenti delle fabbriche bangladesi, si è ri-iutata di pagare le vittime e le loro famiglie
sostenendo che gli ordini erano stati subap-paltati a sua insaputa). Solo un’azienda che
usava un fornitore del Rana Plaza, la catena
irlandese a basso costo Primark, ha accet-tato di fornire aiuti per un periodo di sei
mesi Subito  dopo  il  crollo  del  Rana  Plaza
c’erano stati segnali incoraggianti. Decine
di afermate aziende europee e statuniten-si  avevano  firmato  accordi  separati  che
prevedevano ampie ristrutturazioni, eser-citazioni antincendio, la pubblicazione dei
rapporti degli ispettori della sicurezza e il
divieto del subappalto. Anche se gli impe-gni presi dal gruppo, prevalentemente sta-tunitense, non erano vincolanti e non la-sciavano spazio e signiicative possibilità
legali ai lavoratori per organizzarsi, gli atti-visti dei diritti dei lavoratori inizialmente
hanno deinito questi accordi una “svolta”
per milioni di operai bangladesi.
Tutto come prima
Sono venuto per la prima volta in Bangla-desh a febbraio per scoprire se e cosa era
cambiato dopo l’incendio alla Tazreen. Il
numero di morti era stato così alto e la co-pertura  dei  mezzi  d’informazione  così
grande che la tragedia aveva spinto molti a
giurare “mai più”. Ma al mio arrivo ho sco-perto che tutto continuava come al solito. Il
padrone della Tazreen, Delwar Hossain,
era ancora a piede libero (anche se in segui-to gli è stato vietato di lasciare il paese). E,
secondo i dati raccolti dal Solidarity center,
un’organizzazione non proit ailiata alla
più grande confederazione sindacale degli
Stati Uniti, ogni settimana scoppiavano in
media due o tre incendi, in alcuni casi mor-tali. In una fabbrica in subappalto costruita
sopra un forno alla periferia della città ho
visto di persona le conseguenze di un rogo.
Il pavimento era disseminato di macchine
da cucire e indumenti carbonizzati. A setti-mane di distanza dall’incendio nessuno si
era preoccupato di far sparire le etichette
dei vari marchi e i moduli degli ordini o di
cancellare le manate che macchiavano le
pareti ino a una porta chiusa dove otto per-sone erano morte nella calca.
 Quando  sono  tornato  a  Dhaka
quest’estate immaginavo che le autorità e
gli acquirenti stranieri sarebbero stati pron-ti a pubblicizzare i loro sforzi per mantene-re le promesse e migliorare le condizioni di
sicurezza. Sbagliavo. Ho passato un mese
cercando di ottenere un permesso per ac-compagnare  l’ispezione  ufficiale  di  una
fabbrica. I vigili del fuoco, le autorità per lo
sviluppo civile e gli ingegneri strutturali
dell’università di Dhaka si sono tutti riiu-tati di darmi il permesso. L’unica soluzione
è stata quella di contattare un giornalista
bangladese che è riuscito a procurarsi il
permesso di unirsi a un rapido controllo di
conformità e ha accettato di condividere i
suoi appunti con me. Quando mi ha riferito quello che aveva visto, ho capito perché mi
avevano lasciato fuori.
 La struttura che aveva visitato, la fab-brica di abbigliamento Al Muslim, si trova
a pochi minuti di auto dal Rana Plaza. È un
impianto “di prima linea” dove c’è un pro-duttore che lavora con noti marchi stranie-ri. Il suo cancello di ferro battuto espone un
cartello con la scritta: “No al lavoro minori-le”. All’interno, gli ispettori statali hanno
veriicato che le uscite d’emergenza erano
insuicienti, proprio il genere di violazione
che comporta la chiusura immediata. Ma
in base alla legge del Bangladesh non han-no un mandato esecutivo quando queste
violazioni vengono individuate, possono
solo formulare raccomandazioni. Alla ine
la valutazione della fabbrica per la sicurez-za antincendio è stata 12 su 26: abbastanza
per una promozione.
 Il  vicepresidente  della  Bgmea,  Raez
Bin Mahmood, ammette che in un paese
caotico e a corto di liquidi come il Bangla-desh, le ispezioni sono “un processo molto
approssimativo”. La Bgmea ha solo dieci
ispettori, il corpo dei vigili del fuoco ne ha
ottanta, ma dice che gliene servono dieci
volte tanti. Le squadre formate da ingegne-ri hanno attrezzature insuicienti e il mini-stero del lavoro sta cercando di trovare e
formare altri duecento ispettori nei prossi-mi mesi. Nel frattempo continua a mancare
un organismo di coordinamento centrale
che registri l’attività delle varie agenzie. I
fabbricanti lamentano che certi impianti
sono stati ispezionati più volte mentre altri
vengono ignorati.
Uicialmente in Bangladesh ci sono cir-ca  2.500  fabbriche  che  producono  per
l’esportazione, anche se molti  mezzi d’in-formazione raddoppiano la cifra. Un grup-po di più di 80 distributori prevalentemen-te europei calcola che ci vorranno cinque
anni per portare a termine le ispezioni e di-chiarare sicure le mille fabbriche da cui si
riforniscono. I membri della North ameri-can alliance dicono che iniranno di esami-nare 500 fabbriche entro l’estate del 2014.
Il ministero del lavoro si è impegnato a con-trollarne altre duemila non coperte da nes-suno  dei  due  accordi,  d’intesa  con  la
 Bgmea, che dichiara di aver già chiuso ven -ti fabbriche a rischio.
Ma perfino il grattacielo che ospita il
quartier generale dell’organizzazione, una
torre di vetro azzurro circondata dall’ac-qua, getta un’ombra sul suo impegno. Nel
2011 l’alta corte del Bangladesh ha decreta-to che il terreno su cui sorge era stato otte-nuto illegalmente e che il palazzo era stato
costruito senza le necessarie autorizzazio-ni, a danno di un sistema di drenaggio na-turale che attraversa il centro della città. La
corte ha deinito l’ediicio “una frode di di-mensioni colossali”, e ha ordinato che ve-nisse distrutto entro novanta giorni. Eppu re due anni dopo la torre è ancora in piedi,
anche se con qualche inestra rotta.
A giugno gli Stati Uniti hanno fatto in-nervosire il mondo degli afari del Bangla-desh tagliando tutte le agevolazioni com-merciali. L’accesso senza dazi al mercato
statunitense è stato sospeso. L’industria
dell’abbigliamento in realtà non aveva mai
avuto diritto a queste agevolazioni iscali,
ma la decisione ha fatto seguito a un severo
monito dell’Unione europea, che acquista
circa il 60 per cento delle esportazioni del
paese. Con miliardi di dollari in gioco, alcu-ni proprietari preferirebbero gestire la que-stione della sicurezza direttamente invece
di aidarsi alle ineicienti agenzie pubbli-che. Un industriale che è tra i dieci maggio-ri esportatori del Bangladesh mi ha riferito
che “gli ispettori vogliono solo vedere le li-cenze e tralasciano i dettagli”. Come altri
con cui ho parlato, non ha voluto che rive-lassi il suo nome per paura di mettere a re-pentaglio la sua posizione con i clienti stra-nieri.
Un altro industriale importante mi ha
raccontato  che  quando  aveva  chiesto  le
carte del progetto di una vecchia fabbrica,
il precedente proprietario si era riiutato di
dargliele:  “Ho  immaginato  che  ci  fosse
qualcosa da nascondere: cemento scaden-te, una struttura fragile. Almeno tre quarti
degli ediici di questo paese non sono a nor-ma”, aggiunge, “costruiti da gente che non
aveva le competenze per farlo”. Corrompe-re gli ispettori statali perché chiudessero
un occhio non era un problema, ha detto,
osservando che il Rana Plaza aveva supera-to quattordici volte le ispezioni prima di
crollare. Così ha contattato un ingegnere
libero  professionista  per  fare  un’analisi
strutturale e altri test accurati e poi ha chiu-so la fabbrica ino al completamento di una
costosa ristrutturazione. “Non prendiamo
questi provvedimenti per accontentare gli
acquirenti”, spiega. “Lo facciamo per noi
stessi”, per evitare incidenti ancora più co-stosi.
Alcuni proprietari sostengono che per-ino i revisori indipendenti inviati dai gran-di  marchi  prendono  mazzette.  E  anche
quando hanno un comportamento corretto
si limitano a controllare le grandi fabbri-che. Un industriale con tanto di certiicati
rilasciati da H&M, la seconda azienda di
abbigliamento che produce in Bangladesh,
che attestano eccellenti standard di sicu-rezza, ammette che quando gli fanno pres-sione perché evada gli ordini in meno tem-po è costretto a esternalizzare alcune fasi
della produzione. “Ci sono così tante incer-tezze – scioperi, ritardi nelle spedizioni,
vacanze, funzionari corrotti nei porti – che
il  subappalto  non  sarà  mai  eliminato
dall’industria tessile del Bangladesh”, spie-ga l’industriale. “Le grandi aziende lo san-no”, aggiunge, ma “fanno inta di niente”.
La  verità  è  che  nessuno  sa  davvero
quante fabbriche di abbigliamento ci siano
in Bangladesh. Ci sono i giganti delle espor-tazioni visibili dalle strade principali, e poi
altre migliaia di piccoli laboratori diretta-mente o indirettamente coinvolti nell’in-dustria, per cucire chiusure lampo o taglia-re ili. Questi piccoli laboratori di solito  si
trovano agli ultimi piani di ediici tetri con
sbarre alle inestre, ventilatori al soitto e
pessima  illuminazione.  Molti  altri  sono
completamente invisibili e non hanno nep-pure un’insegna sulla porta. Sono pagati in
nero, hanno dipendenti disposti
a lavorare ore e ore per una mise-ria e restano fuori dal raggio delle
ispezioni.  Per  preservare  i  loro
esigui margini di proitto, i pro-prietari risparmiano sulla sicu-rezza, spesso con la protezione di funzio-nari che partecipano agli afari. Se dovesse
scoppiare un incendio o cedere un pavi-mento, possono consolarsi pensando che
in più di vent’anni nessuno è mai stato per-seguito legalmente per la morte dei lavora-tori. E intanto le aziende straniere possono
afermare di essere all’oscuro delle viola-zioni delle norme di sicurezza.
La notte dell’8 ottobre 2013 è scoppiato
un  incendio  in  una  fabbrica  di  abbiglia-mento fuori Dhaka e dieci operai sono ri-masti uccisi. I documenti di spedizione le-gavano la fabbrica a una serie di noti mar-chi occidentali, tra cui alcuni che avevano
avuto rapporti con il Rana Plaza. Le loro
reazioni erano le solite: Loblaw, il proprie-tario canadese dell’etichetta Joe Fresh, ha
negato di aver fatto ordinazioni, sostenen-do di aver aperto un’indagine per accertare
eventuali responsabilità dei subappaltato-ri. Primark ha dichiarato di aver smesso di
utilizzare la fabbrica diversi mesi prima, e
lo stesso ha detto Hudson’s Bay. Un porta-voce di Walmart ha riferito che l’azienda
non aveva “una diretta relazione contrat-tuale” con la fabbrica.
L’ultimo incendio è scoppiato subito
dopo le manifestazioni di settembre in cui
i lavoratori chiedevano un aumento del sa-lario minimo da 38 a cento dollari al mese.
Con il moltiplicarsi delle prote-ste  a  Savar  e  nella  cittadina  di
Gazipur, il cuore dell’industria
tessile, ci sono stati blocchi stra-dali e molte automobili sono sta-te distrutte, costringendo più di
cento fabbriche a chiudere. Ci sono voluti
giorni – oltre ai lacrimogeni e ai proiettili di
gomma della polizia – per far rientrare la
rivolta.
L’ultima volta che l’ho vista, Rashida
Begum  stava  aspettando  con  il  marito
Azad nell’atrio di un laboratorio per le ana-lisi del dna nel campus dell’università di
Dhaka. Dalle ossa e dai denti dei corpi si-gurati e irriconoscibili estratti dalle rovine
del Rana Plaza erano stati prelevati più di
300 campioni. Dopo tutti quei mesi dove-vano essere inalmente pubblicati i risulta-ti delle analisi, ma Rashida era sempre più
scoraggiata. Azad, che non ha i soldi per
aprire un piccolo chiosco di tè per mante-nere la famiglia, era distrutto. Un test posi-tivo gli avrebbe garantito il diritto all’in-dennizzo iniziale di 1.250 euro, abbastanza
per arrivare alla ine dell’anno. Un risultato
negativo signiicava niente soldi.
Ma  come  spesso  succede  in  Bangla-desh, il laboratorio non aveva rispettato i
tempi e i risultati non erano ancora pronti.
Un tecnico ha detto alla coppia che biso-gnava aspettare almeno qualche altra set-timana prima che i giornali pubblicassero
l’elenco deinitivo. Quando Rashida non
ne poteva più, il tecnico ha aggiunto che il
numero delle richieste superava sensibil-mente il quantitativo dei campioni da  ana-lizzare, perciò molti parenti sarebbero ri-masti delusi. Ma Rashida era già rassegna-ta:  “Non  c’è  niente  per  i  parenti  degli
scomparsi”, ha detto infilandosi sotto il
braccio la foto di Nasima per afrontare il
lungo viaggio di ritorno ino a Savar. u gc

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