sabato 30 novembre 2013

1027 - Il valore invisibile creato da internet

l successo della quotazione in borsa di Twitter
ofre alcune cifre su cui rilettere. C’è lo strabi-liante valore attribuito alla società: 20 miliardi
di dollari. E ci sono i suoi introiti: solo 535 milio-ni. Twitter ha più di 230 milioni di utenti attivi,
con circa mezzo miliardo di tweet al giorno. Poi
c’è il numero più incredibile di tutti: zero. È questa la
cifra che l’azienda fa pagare per usare la sua tecnologia.
Da quando Twitter è nato, sono stati inviati 300 miliar-di  di  tweet,  e  nessuno  ha  pagato  nulla.  Da  quando
Netscape decise di regalare al mondo il suo browser, su
internet la gratuità è stata più la norma che l’eccezione.
E anche se alcuni mezzi d’informazione
hanno cominciato a far pagare i loro con-tenuti, la maggior parte del tempo che
siamo online consumiamo prodotti per
cui non spendiamo niente. Dal punto di
vista economico è una situazione molto
strana: i prodotti e i servizi digitali sono
ovunque, ma è diicile rilevarne l’impat-to nelle statistiche economiche.
Il parametro principale che usiamo
per misurare la salute dell’economia è la
crescita del prodotto interno lordo. Se
aumenta  rapidamente,  sappiamo  che
l’economia è in buona salute. Se rallenta, capiamo che
dobbiamo preoccuparci. Questa teoria parte da un pre-supposto molto semplice: più cose produciamo e ven-diamo e più siamo ricchi. Nell’era industriale era un
presupposto ragionevole, ma in quella digitale il qua-dro diventa molto più confuso: buona parte delle cose
prodotte è a disposizione gratuitamente. È chiaro che
Wikipedia, Twitter, Snapchat, Google Maps hanno un
valore. Ma dal punto di vista del pil, quasi non esistono.
L’economista del Massachusetts institute of technolo-gy (Mit) Erik Brynjolfsson mi ha fatto notare che, se-condo le statistiche governative, il settore dell’econo-mia relativo “all’informazione” – editoria, software,
dati e telecomunicazioni – dagli anni ottanta a oggi è
cresciuto pochissimo, nonostante l’enorme aumento
della quantità di informazioni e di dati consumati dai
singoli e dalle aziende. Brynjolfsson è l’autore, con An-drew MacAfee, di un libro di prossima pubblicazione
che esamina come il digitale sta modiicando l’econo-mia. “Stiamo sottostimando il valore di quella parte
dell’economia che è gratuita”, dice. “Poiché ormai i
prodotti digitali sono una percentuale sempre maggio-re dell’attività economica, probabilmente abbiamo
una visione distorta dell’economia”. Il problema è che
non è possibile dedurre il benessere di un paese dal
reddito nazionale medio. Per esempio, la maggior par-te  dei  siti  viene  costruita  usando  applicazioni open
source gratuite. Quindi gestire un sito non costa molto,
il che comporta molti vantaggi per i consumatori, ma il
pil inisce per risultare più basso di quello che sarebbe
se tutti pagassero il software della Microsoft. Alcune
innovazioni lo fanno addirittura scendere. Skype ha
molto ridotto le spese per le telefonate internazionali,
e le applicazioni degli smartphone stanno sostituendo
dispositivi che un tempo producevano vendite per mi-liardi di dollari. La Garmin, l’azienda leader nel settore
della tecnologia gps, un tempo era una delle imprese in
maggior crescita degli Stati Uniti. Grazie a Google e
Apple Maps, le sue vendite hanno subìto un forte calo,
ma i consumatori, che oggi hanno le stes-se informazioni a costo zero, sono sicu-ramente più contenti.
Le nuove tecnologie hanno sempre
sostituito le vecchie, ma un tempo entra-vano a far parte dell’economia di merca-to e quindi facevano salire il pil, come
quando il motore a combustione interna
sostituì i cavalli. Il digitale è diverso, per-ché molto del valore che crea per i consu-matori non entra a far parte dell’econo-mia misurata dal pil. Questo fa aumenta-re più che in passato il divario tra ciò che
accade davvero nell’economia e quello che possono
misurare le statistiche. Calcolare il valore invisibile cre-ato da internet non è afatto facile. Uno dei sistemi che
usano gli economisti è quello di misurare quanto tempo
passiamo online (perché il tempo è denaro). In un loro
recente studio, Brynjolfsson e Joo Hee Oh sono giunti
alla conclusione che nel 2011 il valore dei prodotti ofer-ti gratuitamente da internet era di centinaia di miliardi
di dollari, e che stava aumentando al ritmo di più di 40
miliardi di dollari all’anno. Sono solo stime approssi-mative, ma danno un’idea di quanto ci stia arricchendo
l’economia digitale.
Purtroppo, però, c’è un problema. A fare le spese di
questi enormi guadagni per chi consuma sono spesso i
lavoratori. Wikipedia è meravigliosa per chi la usa, ma
è un disastro per gli editori di enciclopedie. Anche se
genera nuovi modi per far soldi, l’economia digitale
non dà lavoro a molte persone: basta avere un’idea, cre-are un programma e distribuirlo a centinaia di milioni
di persone. È molto diverso da ciò che succede con i
prodotti tangibili, che richiedono molto più lavoro per
essere fabbricati e distribuiti. E anche se il digitale ha
già trasformato il mondo dell’informazione e dell’in-trattenimento, non si fermerà lì. “Sono molto pochi i
settori che non toccherà”, dice Brynjolfsson. Quindi il
valore che l’economia digitale sta creando è reale. Ma è
reale anche lo sconvolgimento che causa. u b

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