sabato 30 novembre 2013

1026 - Per crescere servono le donne U. J. Heuser e M. Thumann, Die Zeit, Germania. Foto di Lynsey Adda

La rigida separazione dei sessi in pubblico è diventata un problema per l’Arabia
Saudita. Soprattutto quando si tratta dei luoghi di lavoro



A
bdul  Salem  al  Mutlaq
avrebbe potuto fare altro
nella  vita.  Come  molti
sauditi, avrebbe potuto
accontentarsi dei sussidi
concessi dal re o fare do-manda per un posto da dipendente pubbli-co nei grandi palazzi della burocrazia che
iancheggiano le vie della capitale Riyadh.
Il lavoro è poco impegnativo e lascia molto
tempo libero a disposizione.
Ma Al Mutlaq non voleva la vita facile. È   andato a studiare nel Regno Unito e, al ri-torno, ha lavorato per un’agenzia privata di
consulenza aziendale. Neanche questo era
normale per il suo paese. Poi, trentasette
anni fa, ha aperto un’azienda. Una scelta
condivisa da pochi. “Sembrava uno scher-zo”,  commenta  l’imprenditore,  che  oggi
dirige un impero miliardario.
L’Arabia Saudita è la prima economia
del mondo arabo. Il benessere di cui godo-no i suoi cittadini deriva dal fatto che più di
ottant’anni fa la dinastia Al Saud, tuttora al potere, scoprì un’immensa quantità di pe-trolio. Da allora le grandi potenze di tutto il
mondo comprano qui il petrolio che gli ser-ve. Con i proventi del greggio, gli Al Saud
possono fare la felicità dei cittadini – che in
cambio lasciano che la dinastia scelga il so-vrano.
Oggi  il  re  Abdullah  bin  Abdulaziz  al
Saud e il suo regime assolutistico traballa-no. Gli Stati Uniti e gli altri paesi che inora
hanno comprato il petrolio saudita hanno
trovato nuove fonti di approvvigionamento   Riyadh potrebbe perdere il suo ruolo di
fornitrice del  carburante  dell’economia
globale. Allo stesso tempo il paese è in rapi-da espansione e si prevede che consumerà
più greggio rispetto al passato.
La popolazione saudita, poco meno di
trenta milioni di persone, cresce del 2 per
cento all’anno. Se il paese non riuscirà a ri-durre la dipendenza dagli idrocarburi, il
patto tra i cittadini e il sovrano potrebbe
crollare. Il re sa bene che per evitare il peri-colo dovrà prendere esempio da Abdul Sa-lem al Mutlaq: l’Arabia Saudita ha bisogno
di persone che lavorino nel settore privato.
Ma il raggiungimento di quest’obiettivo è
ostacolato dalle tradizioni religiose e cultu-rali. Inoltre bisognerebbe attingere alla ri-sorsa meno sfruttata del paese: le donne. In
Arabia Saudita meno del 20 per cento della
popolazione femminile ha un lavoro.
L’interruttore del futuro
L’oasi  industriale  appare  all’improvviso,
dopo una mezz’ora di autostrada da Riya-dh. È la sede di Alfanar, il gruppo di Al Mut-laq, che si occupa di costruzioni e di prodot-ti di elettronica. Prati, alberi, mura di cinta
decorate,  lunghi  viali  orlati  da
palme nel bel mezzo del deserto,
in uno dei parchi industriali che il
re ha fatto costruire nei dintorni
della capitale. Al Mutlaq ha com-prato 700mila metri quadrati di
terreno per Alfanar, pensando in dall’ini-zio che la sua azienda avrebbe avuto biso-gno di spazio per espandersi.
“Siamo ossessionati dalla qualità. E vo-gliamo crescere”, dice Al Mutlaq, 65 anni.
Inizialmente Alfanar, “il faro”, era una pic-cola impresa edile che Al Mutlaq aveva fon-dato insieme ai suoi due fratelli. Oggi è la
Siemens saudita: costruisce centrali elettri-che, è un’azienda di punta nel settore delle
condotte e degli impianti di illuminazione,
e ha un’ailiata che si occupa d’informati-ca. Alfanar è presente alle iere internazio-nali e ha laboratori di ricerca in India e in
Cina.
L’imprenditore  indossa  un thobe,  un
lungo abito bianco. Curioso, energico, infa-ticabile e creativo, Al Mutlaq si è mantenuto
giovane. Racconta dei frenetici anni ottan-ta, quando lui aveva appena 27 anni, e i sau-diti costruivano di tutto: da qualche parte i
petrodollari dovevano pur investirli.
Oggi “siamo i leader del nostro merca-to”, spiega l’imprenditore: la sua azienda
registra un fatturato di due miliardi di dol-lari e ha quattordicimila dipendenti nella
sola capitale. La sua intenzione è continua-re a crescere, per esempio con prodotti co-me l’interruttore della luce portatile che
tiene in mano. “Provatelo”, ci esorta, al-lungando un cubo di plastica bianca oltre il
tavolo  della  sala  riunioni  nella  sede  del
gruppo.
Ma la questione della crescita è compli-cata. In Arabia Saudita quasi due terzi degli
abitanti hanno meno di 25 anni. I cittadini
sono una ventina di milioni, mentre il resto
della popolazione è costituito da lavoratori
immigrati. Nel corso dei decenni il petrolio
e l’abbondanza di denaro hanno reso i sau-diti molto pigri. Molti non hanno voglia di
lavorare, e comunque non a tempo pieno, e
chi deve farlo per necessità non è partico-larmente motivato.
Un tempo i sauditi lavoravano esclusi-vamente per lo stato, e le aziende private
puntavano sugli stranieri: ingegneri e ope-rai  specializzati  provenienti  dall’Egitto,
dalla Siria, dall’India e dal Pakistan. Nel
2011 il re ha cambiato di colpo la situazione
istituendo un sistema di quote per i dipen-denti locali, variabili a seconda del tipo e
delle dimensioni dell’azienda.
Il 12 per cento dei dipendenti di Alfanar
è saudita: una percentuale che supera la so-glia obbligatoria, ma Al Mutlaq fa
notare che anche la buona volon-tà ha dei limiti. “Noi cerchiamo
di attirare i lavoratori più bravi”,
dice Al Mutlaq. “La politica delle
quote da sola non basta”. Solo un
decimo dei sauditi lavora nel privato. E alle
aziende non interessa assumere i dipen-denti pubblici. Perciò, per il momento, la
scelta è limitata. Alfanar ha cercato di risol-vere il problema con le donne.
Alle  spalle  del  quartier  generale  del
gruppo sorge un ediicio di lamiera ondula-ta. Le porte sono chiuse e non ci sono ine-stre da cui guardare all’interno, perché qui
dentro lavorano solo donne: operaie, re-sponsabili della produzione, caposquadra e
ingegnere. Producono componenti elettri-che, come gli interruttori.
Al Mutlaq è un pioniere: in Arabia Saudi-ta  è  possibile  assumere  donne  solo  dal
2004. Fin da subito l’imprenditore ha sele-zionato quattro collaboratrici. Ma perché
l’investimento sulla manodopera femmini-le cominci a rendere, bisogna fare di più. Il
capannone, i macchinari e il trasporto in
autobus separati, da casa al lavoro e dal la-voro a casa, costano troppo se non li si sfrut-ta al massimo.
Al Mutlaq vorrebbe avere più donne tra
i dirigenti ed eliminare le barriere tra ma-nodopera femminile e maschile, perché si
otterrebbero risultati migliori. Ma spesso,
fa notare, sono le donne a insistere perché si mantengano le vecchie regole sulla separa-zione dei sessi. Le più conservatrici contri-buiscono a tenere in piedi il sistema in cui
sono cresciute. Questo sistema crea ostaco-li immensi, che limitano gli spostamenti di
circa la metà della popolazione. A fare in
modo che le cose non cambino ci pensano
l’islam wahabita e le tradizioni, vecchie e
nuove. I professori universitari parlano alle
studentesse da dietro una parete a specchio
che gli impedisce di vederle; per spostarsi le
donne hanno bisogno di un autista stranie-ro; le aziende hanno un’ala riservata agli
uomini e una alle donne; ristoranti, banche
ed enti pubblici prevedono entrate diferen-ziate. Tutto quello che si costruisce in Ara-bia Saudita dev’essere doppio. Il paese ha
investito molto tempo, creatività e denaro
per tenere distanti gli uomini dalle donne, e
ora deve dedicare parecchie energie alla ri-cerca di un sistema per rilanciare l’econo-mia a dispetto di queste divisioni.
Il iore all’occhiello
Per molto tempo le donne non sono state
neanche preparate al mercato del lavoro.
Gli istituti di formazione professionale han-no accolto le prime studentesse solo nel
1970. Oggi nelle università del paese stu-diano tante donne quanti uomini, approit-tando del fatto che re Abdullah destina oltre
un quarto del bilancio statale alla pubblica
istruzione.
Anno dopo anno, il sovrano fa sorgere
dal nulla nuovi istituti scolastici e universi-tari. Il iore all’occhiello è l’Università fem-minile principessa Nora bint Abdulrahman,
ai margini della capitale. Tutto quello che
gli uomini possono vedere è un muro lungo
chilometri che racchiude un complesso ri-servato alle donne. Ma attraverso i grandi
cancelli d’ingresso riccamente decorati si
coglie uno scorcio del campus: alcuni stu-dentati, una biblioteca, una moschea, cu-pole dorate, viali iancheggiati da palme e
palestre, uno stadio in vetro e acciaio, co-lonnati che sostengono il tetto degli ediici
con le aule.
Ma come fanno le donne ad arrivare in
qui? Non sono autorizzate a guidare e gli
uomini non possono entrare nel campus.
Perciò lo stato ha avuto un’idea. Un autobus
guidato da un uomo porta le studentesse
fino all’entrata. Poi le ragazze prendono
una ferrovia sopraelevata, senza conducen-te, che serve tutta l’area.
Wah Yin Rixson insegna in quest’uni-versità in dalla sua apertura, nell’autunno
del 2011. La docente sa che la retta è costosa
e che alcune studentesse hanno denaro in
abbondanza. Le iglie delle famiglie più po-vere, invece, ricevono delle borse di studio.
L’Arabia Saudita prevede sovvenzioni per
far studiare le saudite sia in patria sia nei
paesi  stranieri.  Tra  gli  studenti  sauditi
all’estero un terzo è composto da donne.
La prima cosa da imparare all’Universi-tà principessa Nora è gestire il tempo. Tra le
cinque preghiere al giorno, il caldo rovente,
le lunghe ferie estive e le festività religiose,
i sauditi non fanno tanto caso al tempo che
passa.  All’inizio  Rixson,  nata  a
Hong Kong, si meravigliava del
fatto che le sue studentesse cam-minassero  lentamente  pur  sa-pendo  che  sarebbero  arrivate
tardi a lezione. A un certo punto
la docente ha capito che “il problema è che
non hanno obiettivi. Io gli insegno a porsi
un obiettivo e a essere puntuali”. Tuttavia
molti genitori non sono contenti che le iglie
studino e pensano che dovrebbero limitarsi
a sposarsi al più presto. “Alcune madri si
mettono a piangere quando le iglie vanno
all’università”, osserva Rixson. Ma solo una
minoranza delle ragazze si piega alle pres-sioni familiari.
Quasi tutte vogliono sposarsi. Tuttavia
non vogliono farlo prima della laurea e ne-anche subito dopo. Anche questo fa parte
della modernizzazione di un paese in cui ci
si sposa ancora da minorenni. Il governo ha
stabilito che sugli atti di matrimonio si deb-ba scrivere l’età della sposa, ma la legge non
impone nessun limite.
Per Rixson la nuova università è un pro-gresso, ma altri la considerano un passo in-dietro. Anni fa, quand’era consulente della
shura,  il  parlamento  consultivo  saudita,
Nourah al Yousef si è battuta per la creazio-ne di un’università femminile. Oggi non lo
rifarebbe.  “Credo  in  un’università  mista
come istituto di formazione superiore mo-derno”, spiega Al Yousef. “I giovani sono
più aperti, vanno a studiare all’estero: a che
serve mantenere la separazione dei sessi in
patria?”. Del resto, prosegue, l’Università
principessa Nora fatica a trovare professo-resse che insegnino alcune materie. Nelle
scienze naturali ed economiche non ci sono
abbastanza docenti e quindi istituti misti
come l’Università re Saud – dove Al Yousef
insegna economia – possono ofrire di più.
Dappertutto si cerca di abolire la separa-zione tra i sessi. Da un anno gli uomini non
sposati possono entrare nei centri commer-ciali, dove vanno a fare acquisti anche le
donne. In un nuovo complesso di
grattacieli a Riyadh, il King Ab-dullah inancial district, il com-mittente non ha voluto ambienti
e ingressi separati per uomini e
donne. E il committente prende
ordini direttamente dallo stato. A quanto
pare, l’eliminazione cauta e graduale della
segregazione è voluta proprio dallo stato. E
in Arabia Saudita lo stato è il re, che ha 89
anni. Questo tentativo è il rilesso della mo-dernizzazione che avanza, anche se lenta-mente. Il sistema fondato sul petrolio non
solo ha reso indolenti cittadini e governan-ti, ma ha anche determinato lo sviluppo di
una struttura e di una cultura che ostacola-no il cambiamento. Miliardi di riyal desti-nati alle grandi opere si perdono in corru-zione. L’Arabia Saudita è al 66 ° posto su 176
paesi nell’indice della corruzione di Tran-sparency international. Nella famiglia rea le
molti pensano solo a proteggere i loro inte-ressi. I riformisti governano il pae se come
gli pare, racconta un architetto occidentale
che lavora come direttore di un cantiere di
Riyadh.
Al denaro non si dà troppa importanza.
Ma di fronte all’incremento demograico e
alle incertezze del mercato petrolifero glo-bale, la situazione sta cambiando. Una per-sona che si occupa del futuro del paese è Ali
Muhanna, consulente del ministro del pe-trolio. Per il funzionario non è un problema
che gli Stati Uniti abbiano trovato il modo di
estrarre più petrolio dagli strati profondi del
terreno  e  non  debbano  più  comprarne all’Arabia Saudita in grandi quantità. “Sia-mo lieti di vedere che la quantità di greggio
a disposizione è aumentata: il fracking ren-derà  i  mercati  più  stabili”,  commenta
Muhanna.
L’Arabia Saudita, continua il consulente,
non mira a un aumento, ma a una stabiliz-zazione del prezzo del petrolio. Muhanna
non perde la calma nemmeno di fronte alle
previsioni secondo cui, entro il 2020, l’Ara-bia Saudita potrebbe arrivare a consumare
più del 50 per cento del greggio estratto per
la produzione di corrente elettrica. “Nei no-stri deserti del sud del paese abbiamo tro-vato vasti giacimenti di gas intrappolato in
accumuli di rocce argillose”, spiega il fun-zionario. E poi bisogna contare le nuove
tecnologie che permettono di risparmiare
energia. Riyadh vuole puntare su vari setto-ri energetici e, stando alle dichiarazioni di
alcuni esponenti del mondo dell’economia,
ha intenzione di costruire entro il 2035 sedi-ci centrali nucleari per ridurre il consumo di
greggio. Per lo stesso motivo sta realizzan-do impianti a energia solare.
A queste attività si aggiungono le teleco-municazioni, le banche e il turismo, ma an-che in questo caso serve un’apertura cultu-rale per attirare gli occidentali. Per ora i tu-risti sono solo i musulmani che vanno a fare
i pellegrinaggi alla Mecca e a Medina. Co-me molti altri settori, anche quello turistico
subisce la burocrazia eccessiva e i severi
dettami religiosi. Tra le speranze che do-vrebbero contribuire a un rapido raddop-piamento della produzione industriale si
conta anche sull’industria aeronautica, così
come quella petrolchimica, plastica e auto-mobilistica.
Cauta ristrutturazione
Il rapido incremento demograico implica
che più persone dovranno lavorare, aferma
Fahad al Turki, uno degli economisti più
autorevoli del paese, direttore del settore
ricerca della Jadwa investment a Riyadh.
Non tutti potranno contare su un impiego
statale:  “L’amministrazione  pubblica  ha
troppi dipendenti e va ridimensionata”. Già
oggi si vedono più sauditi che lavorano co-me cassieri o custodi.
Oltre che nell’oferta universitaria d’ec-cellenza, Al Turki spera anche nell’istitu-zione di un sistema moderno di formazione
professionale. Con l’aiuto della Germania,
Riyadh sta formando milleduecento inse-gnanti delle scuole professionali. Ogni nuo-va assunzione nel settore privato è conside-rata un successo, tanto più che in questo
modo  lo  stato  evita  di  pagare  il  sussidio
mensile di 2.500 riyal (circa 500 euro) che
spetta a ogni cittadino. Grazie agli investi-menti e alle riforme del governo, lo sviluppo
dell’Arabia Saudita procede meglio di quan-to possa lasciar pensare la fama del paese in
occidente,  ma  anche  più  lentamente  di
quanto desidererebbero molti riformisti. Se
il paese vuole davvero sconiggere la male-dizione del petrolio e i tradizionalisti, la fa-zione dei modernizzatori dovrà restare al
potere.
Il re compirà novant’anni nel 2014 e non
è scontato che dopo di lui la dinastia degli
Al Saud proseguirà lungo un cammino di
cauta ristrutturazione. Di certo, l’esito del
conlitto tra vecchio e nuovo, tra dogmi wa-habiti  e  visione  economica  capitalistica,
non è ancora deciso. Negli ultimi decenni il
processo  di  modernizzazione  ha  subìto
continue interruzioni.
Negli  anni  settanta,  per  esempio,  in
molti paesi del mondo arabo e anche in Ara-bia Saudita le donne erano più libere rispet-to a oggi. Il ripristino di quelle libertà e la
durata dei nuovi diritti e del benessere dei
sauditi non dipenderanno solo dalle azioni
dei leader, ma anche dalla possibilità che
cittadini come Abdul Salem al Mutlaq trovi-no alleati che vogliono a loro volta diventa-re imprenditori. u fp

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