sabato 30 novembre 2013

1027 - RISTRATTI - Mboua Massock Demolire il passato

Dominique Malaquais, Chimurenga, Sudafrica
Illustrazione di Ale & Ale


Ha dedicato gli ultimi quindici
anni a una battaglia molto
particolare: vuole abbattere la
statua di un ex generale
francese, simbolo del dominio
coloniale sul Camerun. 
E riscrivere la storia




i chiama Mboua Massock. A
Douala, in Camerun, ha fon-dato il Conseil supérieure de
la  rebellion  morale  (Consi-glio superiore per la ribellio-ne morale), un’organizzazio-ne “che cerca mezzi paciici per condurre
delle battaglie”. Anche se il suo nome com-pleto è Camille Mboua Massock ma Bata-long, il nome che lo contraddistingue è un
altro: Combattant (combattente). Anche
se non ha mai occupato nessuna carica po-litica, Massock è un politico molto cono-sciuto nel paese. Per sottolineare la sua
posizione, si autodeinisce Honorable de-puté nationaliste non declaré elu (l’onore-vole deputato nazionalista non dichiarato
eletto). È stato più volte in carcere per aver
partecipato a imprese giudicate inaccetta-bili dalle istituzioni. Tra queste, c’è una
lotta che conduce dal 2001. Il suo bersaglio
è un monumento.
Nel cuore di Douala c’è una statua che
Mboua Massock contesta duramente. Eret-ta nel 1948, ritrae il maresciallo Philippe
Leclerc de Hautecloque (1902-1947), un
alto uiciale dell’esercito francese sotto il
governo di Charles de Gaulle. Interamente
in bronzo, alta quasi due metri e poggiata
su un piedistallo di cemento, la statua mo-stra il maresciallo in una posa rilassata, la
mano destra su un bastone da passeggio e
la mano sinistra sul ianco. Indossa una di-visa militare semplice: camicia a maniche
corte,  pantaloni  rimboccati  in  stivali  da
combattimento e un cappello con la visiera
caratteristico dell’esercito francese. Dietro
di lui c’è un ampio sfondo di cemento bian-co dove sono rappresentati alcuni simboli
bellici. In alto, tra riproduzioni in bassori-lievo di carri armati, aeroplani, strutture
architettoniche assortite e insegne militari,
ci sono molti nomi di città e campi di batta-glia (soprattutto in Africa, ma non solo) e
Ha dedicato gli ultimi quindici
anni a una battaglia molto
particolare: vuole abbattere la
statua di un ex generale
francese, simbolo del dominio
coloniale sul Camerun. 
E riscrivere la storia
Dominique Malaquais, Chimurenga, Sudafrica
Illustrazione di Ale & Ale
date che vanno dal 1940 al 1946. Alla base
del piedistallo c’è un cerchio di bronzo, or-nato con diverse insegne militari tra cui la
croix de Lorraine, il simbolo scelto dal ge-nerale de Gaulle.
Leclerc non occupa un posto piacevole
nella storia del Camerun. Durante la se-conda guerra mondiale, alla Francia man-cavano  soldati  per  combattere  contro
l’esercito tedesco. Per rinfoltire i ranghi,
Parigi si rivolse alle sue colonie africane. Il
26 agosto 1940, Leclerc arrivò a Douala via
mare. Da lì al 10 novembre, come riportano
i libri di storia francesi, avrebbe “arruolato”
il Camerun e il Ciad “nelle forze della Fran-cia Libera” . Douala fu il primo porto tocca-to da Leclerc sul continente; poi fu la volta
di altre città e colonie africane, i cui nomi
appaiono sullo sfondo ricurvo che incorni-cia la sua statua. In Camerun, come in altri
paesi dell’Africa, l’obiettivo non era sempli-cemente raccogliere soldati per sostenere
l’esercito  francese:  si  trattava  di  trovare
carne da macello. Durante la seconda guer-ra mondiale decine di migliaia di africani
morirono nel teatro di guerra europeo. Ve-nivano spediti in missioni impossibili, era-no male equipaggiati e trattati peggio dei
soldati bianchi dei ranghi più bassi, .
Era successo qualcosa di simile già du-rante la prima guerra mondiale, quando
migliaia di sudditi coloniali furono costret-ti a combattere per la Francia, in Africa e in
Europa. Quando le ostilità cessarono, quel-li che erano sopravvissuti furono rispediti a
casa e dimenticati. Solo nel 2006, dopo an-ni di lavoro da parte degli attivisti e dopo
l’uscita di Indigènes, un ilm che è stato visto
da centinaia di migliaia di persone in tutta
la Francia, c’è stato un minimo di ricono-scimento: i veterani africani della prima
guerra mondiale, ha deciso l’Eliseo, avreb-bero da lì in avanti ricevuto la stessa pen-sione dei loro pari grado francesi. La deci-sione arrivava con un po’ di ritardo: la gran-de maggioranza di quei soldati era già mor-ta di vecchiaia o di malattia.
Strumenti più radicali
La statua di Leclerc si trova al centro di Bo-nanjo, il distretto amministrativo ed eco-nomico di Douala. È rivolta verso place du
Gouvernement, una grande piazza dove si
trovano il principale tribunale e il maggiore
uicio postale del paese, una struttura stra-ordinaria che nella seconda metà dell’otto-cento aveva ospitato il re Rudolph Douala
Manga Bell, due importanti banche, la sede
di Air France e gli uici della Pmuc, una
compagnia di scommesse ippiche di pro-prietà francese del valore di diversi milioni   di euro. Nella piazza, alcune panchine sono
sistemate intorno a un monumento il cui
piedistallo poggia su una fontana bassa. Più
grande della statua di Leclerc, questo mo-numento, anch’esso in bronzo e inaugurato
nel 1920, ritrae un soldato francese di pro-ilo, che avanza a grandi falcate, traspor-tando  uno  zaino  pesante,  una  baionetta
sulla spalla sinistra e, stretta nella mano de-stra, una corona di alloro. Una targa spiega
che il monumento è dedicato a tutti i solda-ti e i marinai ignoti, “francesi e alleati”, ca-duti  “sul  campo  della  gloria”  durante  la
“battaglia  per  il  Camerun”,  nella  prima
guerra mondiale. I soldati “alleati” in que-stione erano stati coscritti con la forza, e il
Camerun per il quale avevano combattuto
non apparteneva a loro. Così la statua dedi-cata a un uomo che costrinse migliaia di
camerunesi a combattere contro le truppe
naziste nella seconda guerra mondiale si
trova proprio di fronte al monumento che
celebra la coscrizione forzata di migliaia di
persone per un’altra battaglia tra francesi e
tedeschi.
Entrambi i monumenti sono stati eretti
dall’ex potenza coloniale. Invece non c’è
nessun monumento e nessuna targa dedi-cati a un uomo o a una donna coinvolti nella
lotta per la liberazione dal potere coloniale.
A Douala c’è solo una strada a scorrimento
veloce che porta il nome di boulevard de
l’Indépendance.
Mboua Massock si oppone a questa si-tuazione più che alla statua di Leclerc in sé.
Una situazione a dir poco bizzarra. È dii-cile trovare un paese nell’Africa subsaha-riana  dove  non  sia  celebrata  in  qualche
modo la ine del dominio coloniale. Secon-do Massock, ci sono molti “martiri locali”
che meriterebbero di essere ricordati. Co-me  Rudolph  Douala  Manga  Bell  (1872-1914), impiccato dal governo tedesco in-sieme ad altre venti persone con l’accusa di
tradimento. Tutto quello che resta agli abi-tanti di Douala in memoria di quest’uomo
è la sua tomba, una struttura semplice si-tuata dietro la sua casa di un tempo di cui si
prende cura la famiglia Bell, e un pezzo di
legno che dovrebbe essere la base dell’al-bero  a  cui  fu  impiccato.  Ci  sono  anche
combattenti non originari di Douala che
meriterebbero un posto nella piazza della
città. Come Ruben Um Nyobé, il vero pa-dre dell’indipendenza, ucciso dalle truppe
coloniali nel 1958.
Stanco di continuare a chiedere al go-verno una rappresentazione più giusta del
passato  del  paese,  nel  2001  Massock  ha
preso l’iniziativa. Armato di un peso da 10
chili, ha colpito il volto della statua di Le-clerc. Pensava che la statua fosse di cemen-to dipinto. Se fosse stato così, il colpo avreb-be causato un danno enorme. Ma visto che
è in bronzo, la statua si è appena scalita.
Solo il naso ha leggermente risentito del
colpo, e oggi appare un po’ malconcio, co-me se fosse ammaccato. Dopo quel gesto
Massock è stato messo in carcere per un
breve periodo. Tuttavia, quando ha scaglia-to di nuovo la sua ira contro la statua, le co-se non sono andate così bene.
Il 29 gennaio del 2006 Massock ha deci-so di adottare strumenti più radicali per
sfregiare il monumento di Leclerc. Sulla
parete in cemento bianco dietro la statua,
con della pittura rosso sangue e a caratteri
cubitali, ha scritto: à démolir: nos martyrs
d’abord (da demolire: prima i nostri marti-ri). Nel suo messaggio concedeva alle auto-rità  municipali  180  giorni  di  tempo  per
completare la demolizione. La frase scelta,
il periodo di tempo accordato e una grande
croce  rossa  dipinta  sullo  sfondo  erano  espliciti riferimenti a una pratica comune
in tutta la città: a Douala ci sono ovunque
ediici e capanne marchiate con una spessa
croce rossa e le parole “à démolir”, seguite
da un numero di giorni e dalla irma delle
autorità municipali. I residenti di questi
ediici e negozi traslocano o decidono di
restare, ma sono sempre a rischio di sfratto.
Tutto questo genera un clima di incertezza,
per cui solo gli abitanti più ricchi della città
possono sperare di sistemarsi in modo per­
manente.
Massock è stato immediatamente arre­
stato e accusato di “sovversione”, un atto
punibile con una condanna al carcere abba­
stanza pesante. La prima udienza del suo
processo era stata issata per il 3 febbraio
2006, poi spostata al 3 marzo, per concede­
re alla difesa il tempo di prepararsi. Nel
frattempo, le autorità francesi si erano oc­
cupate della rimozione delle scritte di Mas­
sock. Il 3 marzo 2006 l’udienza, presieduta
da una sola persona, il giudice Nzali, è stata
grottesca. Massock si è dichiarato colpevo­
le. Ma invece di andare avanti con il proces­
so, il pubblico ministero ha contestato il
fatto che l’accusato fosse “vestito in modo
indecente”. Massock non indossava giacca
e cravatta. Aveva scelto degli abiti associati
alla regione dove è nato: una lunga gonna,
una camicia ricamata e dei sandali. Portava
una barba folta e, intorno al polso, una fa­
scia verde, rossa e gialla, i colori della ban­
diera del Camerun. Nella mano destra te­
neva un bastoncino di legno, da molti inter­
pretato  come  uno  strumento  “magico”.
Momo Jean de Dieu, l’avvocato di Massock,
ha risposto indignato al pubblico ministero:
“Il mio cliente è vestito secondo la tradizio­
ne del suo popolo. Nella misura in cui que­
sto è anche il processo della colonizzazio­
ne, dell’assimilazione e dell’alienazione”,
la scelta di Massock era perfettamente ra­
gionevole.
Per il giudice, il pubblico ministero e
l’avvocato della difesa c’erano questioni di
natura tecnica da afrontare. A chi apparte­
neva la statua? Alla Francia o al Camerun?
Nel primo caso, ha argomentato Momo,
avrebbe dovuto essere presente un’autorità
francese; nel secondo caso, avrebbe dovuto
essere presente un rappresentante del mi­
nistero responsabile dei monumenti nazio­
nali. Per Massock, tuttavia, si trattava di
questioni  marginali.  La  preoccupazione
principale del Combattant era e resta l’ef­
fetto difuso e profondamente distruttivo
dell’alienazione: è qui che vanno cercate le
radici del suo atto di vandalismo.
Massock sa che il suo è stato solo un ge­
sto. Ma voleva che fosse un gesto signiica­
tivo (o, per dirla con le sue parole, “produt­
tivo”). Un omaggio, per così dire, a Frantz
Fanon, che meglio di chiunque altro ha de­
scritto gli efetti dell’alienazione dei popoli
colonizzati. Sulla stessa lunghezza d’onda
– e ricordando, sottolineava Massock, gli
scritti di Cheikh Anta Diop – andava inter­
pretato il suo riiuto di presentarsi in giacca
e cravatta.
Le stesse considerazioni valgono per un
altro atto di riiuto di Massock che ha cau­
sato una certa commozione in tribunale:
durante  il  quarto  giorno  di  processo  ha
spiegato al giudice che non sarebbe rimasto
in piedi per tutta la durata del procedimen­
to, come è richiesto agli accusati. Poi è an­
dato a sedersi nella settima ila, di solito
occupata dagli spettatori. Anche in questo
caso si trattava di un gesto profondamente
simbolico.
Statue come dinosauri
Con le sue azioni, Massock cerca di istruire
le persone. Mezzo secolo dopo l’indipen­
denza del Camerun, vuole dimostrare che
c’è ancora molto da fare per decolonizzare
le menti. La sua è una battaglia necessaria.
In Camerun, nei libri di scuola non si fa
nessun cenno a Leclerc. La partecipazione
dei soldati camerunesi alla lotta per gli in­
teressi e i territori francesi durante le due
guerre  mondiali  è  presentata  come  un
evento di cui andare ieri. Il fatto che agli
studenti venga insegnato poco o niente sul­
la coscrizione forzata compiuta dal gover­
no francese nei confronti dei loro antenati
o sul ruolo giocato in questo contesto da
uomini come Leclerc, ha avuto efetti disa­
strosi. Secondo Massock, poche delle per­
sone che passano oggi per place du Gouver­
nement hanno una vaga idea di cosa rap­
presentino le due statue. Giovani coppie si
fanno fotografare con una delle due statue
sullo  sfondo.  Massock  crede  che
quest’ignoranza non vada presa alla legge­
ra, soprattutto considerando che quei mo­
numenti  sono  stati  voluti  dai  ministri
dell’istruzione.
In ogni caso, l’incapacità di raccontare
la storia delle persone che hanno combat­
tuto per l’indipendenza, secondo Massock
non sorprende più di tanto. Far conoscere
le loro gesta ed erigere monumenti in loro
onore non farebbe altro che sottolineare
una cosa ovvia: quelli che hanno combattu­
to la battaglia in nome della libertà hanno
perso e il loro posto è stato preso da altri che
non possono rivendicare nulla di simile. Un
efetto collaterale di questa situazione, po­
trebbe aggiungere Massock, è che non sono
ricordati nemmeno quelli che si sono bat­
tuti contro il dominio tedesco – che fu rela­
tivamente breve, si è concluso con la prima
guerra mondiale e non ha alcuna rilevanza
per i leader arrivati al potere dopo l’indi­
pendenza. Quindi né a Douala né a Yaoun­
dé ci sono monumenti in onore di Rudolph
Douala Manga Bell o di suo cugino Adolf
Ngosso Din, entrambi uccisi l’8 agosto del
1914 per essersi riiutati di cedere ai nuovi
padroni della città la pianura di Joss, dove
oggi sorge Bonanjo.
“Il Camerun”, scrive lo storico Achille
Mbembe rilettendo sulla natura di monu­
menti come quelli appena descritti, “è un
modello negativo del rapporto tra una co­
munità e i suoi morti, in particolare quelli
che hanno compiuto azioni direttamente
riconducibili  alla  volontà  di  cambiare  il
corso della storia”. Massock sarebbe sicu­
ramente d’accordo. E, probabilmente, con­
corderebbe con la diagnosi di Mbembe su­
gli efetti di questa situazione sulla nazione:
“Un paese che non tiene in nessuna consi­
derazione i suoi morti non può generare
una politica della vita. Non può fare altro
che promuovere una vita mutilata – una vi­
ta che barcolla sull’orlo della morte”.
Forse Massock non sarebbe d’accordo
con un’altra posizione dello storico. Secon­
do Mbembe, si dovrebbe fare a meno della
nozione stessa di monumento: “Propongo
che in ogni paese africano sia efettuato un
attento inventario di tutte le statue e i mo­
numenti coloniali. Dovrebbero essere rac­
colti in un unico parco, che dovrebbe di­
ventare un museo per le generazioni futu­
re. Il parco museo panafricano sarà la tom­
ba simbolica del colonialismo sul nostro
continente. Dopo aver efettuato questa
sepoltura, dovremo promettere di non eri­
gere mai più statue a nessuno. Costruiamo
piuttosto biblioteche, teatri, centri cultura­
li, tutte cose che, da qui in avanti, nutriran­
no la crescita creativa del domani”.
Non so cosa ne pensi Mboua Massock.
Per quanto mi riguarda, non c’è dubbio che
le statue dovrebbero fare la stessa ine dei
dinosauri, in Africa come altrove. u gim

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