sabato 30 novembre 2013

1026 - INCHIESTA - La compassione dei vegetariani Kapil Komireddi, Aeon, Regno Unito. Foto di Juan Manuel Castro Prieto

In Asia il vegetarianismo è una forma di riiuto della violenza che ha radici nella
Cina delle dinastie imperiali e nell’India dei Maurya. Non mangiare carne
è un modo per esercitare con disciplina il proprio potere sugli animali



N
on è passato troppo tem-po  da quando  George
Orwell,  nella Strada  di
Wigan Pier (1937), dei-niva l’essere vegetariani
un insulto alle “persone
per bene” e un’ossessione degli eccentrici
lontani dalla gente comune. Era un sinto-mo, pensava Orwell, di come la causa so-cialista fosse caduta nelle mani di “ogni
bevitore di succhi di frutta, nudista, porta-tore di sandali, maniaco sessuale, quacque-ro, guaritore naturista, paciista e femmini-sta  d’Inghilterra”.  Naturalmente  i  tempi
sono cambiati e anche se non è una posizio-ne maggioritaria, essere vegetariani in oc-cidente non è più una fede di nicchia. Oggi
il massimo che un vegetariano si sente dire
è: “Almeno non sei vegano”.
Le opinioni di Orwell sarebbero sem-brate assurde alla gente comune dell’Asia
del sud, dove centinaia di milioni di perso-ne perfettamente normali erano (e sono)
rigorosamente vegetariane. L’etica vegana
e vegetariana possono ancora apparire ide-alistiche  nelle  culture  occidentali,  ma  in
molte zone dell’Asia sono solo manifesta-zioni recenti di una millenaria aspirazione
degli esseri umani: alleviare le soferenze
degli animali ed esprimere il loro potere
con la moderazione e l’autocontrollo piut-tosto che assecondando le loro debolezze.
Il grande imperatore cinese Wu, della
dinastia Liang meridionale, 1.500 anni fa
espose le sue argomentazioni ilosoiche
sull’immoralità dello sfruttamento degli nimali per assicurare il piacere degli esseri
umani, esortando alla temperanza e alla
clemenza. A sua volta Wu era ispirato da un
imperatore indiano dei Maurya, Ashoka,
che dopo aver devastato la repubblica di
Kalinga, nell’India dell’est, nel 260 aC at-traversò una profonda crisi di coscienza.
Inorridito dall’alto numero di morti provo-cato dal suo esercito e tormentato dal rim-pianto, si convertì al buddismo, abiurò la
violenza, abolì il commercio di schiavi (ma
non la schiavitù) e consacrò il suo regno alla
lotta contro le usanze crudeli. Le leggi di
Ashoka, le prime nel loro genere, estesero
la protezione dello stato agli animali vietan-do gli sport sanguinari e proibendo i sacrii-ci rituali. “Nel mio regno nessuna creatura
vivente deve essere massacrata o oferta in
sacriicio”, dichiarava uno degli editti più
importanti di Ashoka, inciso in una roccia
del Gujarat. E spiegava che, mentre un tem-po “centinaia di migliaia di animali veniva-no uccisi ogni giorno” nelle cucine di Asho-ka, ora si uccidevano solo “due pavoni e un
cervo, e il cervo non sempre”. “E con il tem-po”, prometteva, “neppure queste tre crea-ture saranno uccise”. A diferenza di Asho-ka, l’imperatore Wu non aveva spargimenti
di sangue da espiare: il suo regno (464-549
dC) fu solido e prospero. Piuttosto, Wu fu
ispirato dal buddismo che, nato in India, si
stava rapidamente diffondendo in Cina.
Anche se si avviava a diventare una religio-ne istituzionale, il buddismo, nella sua es-senza, era una spinta radicale verso le rifor-me sociali e il rinnovamento spirituale. Lo   stesso Budda aveva riiutato Dio condan-nando la religione come una forma di sfrut-tamento ed esortando i suoi seguaci a ono-rare  gli  esseri  viventi.  Alcuni  importanti
monaci cinesi cominciarono ad ampliare il
senso di questa esortazione ino a includere
la vita animale. A diferenza del clero indù,
che limitava l’accesso delle persone comuni
ai fondamenti della liturgia, i buddisti dif-fusero le loro idee tra i laici: abbiamo rac-conti affascinanti di semplici cinesi che,
dopo aver ascoltato i sermoni del monaco
Zhiwen, liberavano i loro animali e brucia-vano le reti da pesca.
La cucina reale
Wu convocò conferenze, scrisse saggi, sol-lecitò le critiche di ministri e monaci. Poi,
all’apice del suo potere, abbracciò il buddi-smo, diventando il primo governante del
regno a bandire la carne dalla sua dieta.
Abolì la pena capitale ed esortò i sudditi a
riiutare la carne rinunciando alla caccia,
alla pesca e alla macellazione per adottare
la compassione e la frugalità, non come ne-gazione della supremazia umana, ma come
la sua afermazione più alta. Nella Cina del
sesto secolo, si narra che fu proprio la cuci-na imperiale di Wu a creare il seitan, oggi
conosciuto in occidente come “falsa car-ne”. Nelle cerimonie sacriicali si cominciò
a usare animali inti. Con l’ascesa della di-nastia Sung, quattrocento anni dopo, il sei-tan diventò, secondo H.T. Huang, l’alimen-to preferito dei letterati dell’epoca. Fu per-ino magniicato in versi dal poeta Wang Yen: “Ha il colore del latte fermentato / e il
gusto è migliore del maiale e del pollo”.
 Wu e Ashoka non videro realizzata la
loro ambizione di eliminare la soferenza
degli animali, ma contribuirono a rendere
rispettabile e difusa l’idea del vegetariani-smo, perlomeno in gran parte dell’India.
Nel cinquecento, quando Muhammad Ak-bar, il più potente imperatore dell’India dai
tempi  di  Ashoka,  affermò  malinconica-mente che avrebbe voluto che chi mangiava
carne “avesse soddisfatto la sua fame con il
mio corpo, risparmiando altri esseri viven-ti”, stava dimostrando il suo rispetto per
quell’aspirazione.
In Europa, ovviamente, la situazione era
diversa. Nell’antichità forse i pitagorici ave-vano adottato una dieta priva di carne, ma il
cristianesimo non invitava ad astenersi dal
mangiare animali (tranne che come una
forma di ascesi monastica). Convinti che la
carne fosse essenziale per la salute, gli eu-ropei che viaggiarono in India dal sedicesi-mo secolo in poi erano stupiti di trovare una
civiltà raffinatissima con un’etica di non
violenza nei confronti degli animali. Alcuni
scoprirono,  con  grande  sorpresa,  degli
ospedali che si dedicavano esclusivamente
alla cura degli animali. Ralph Fitch, un mer-cante inglese che viaggiò nel subcontinente
nel  cinquecento,  annotò  che  gli  indiani
“non uccidono niente”. Sentendo i raccont di questi viaggiatori, Voltaire elogiò gli in-diani come “amanti e arbitri di pace” entu-siasmandosi per il trattamento che riserva-vano agli animali e introducendo la cultura
orientale nel dibattito intellettuale dell’epo-ca. Nel suo romanzo epistolare Le lettere di
Amabed, Voltaire si faceva gioco delle in-congruenze della cultura occidentale vista
con gli occhi di un giovane visitatore india-no a corte. “La sala da pranzo era pulita,
grandiosa e ordinata... spirito e allegria ani-mavano gli ospiti”, osserva il visitatore, per
poi scoprire che “nelle cucine scorrevano il
sangue e il grasso. Pelli di quadrupedi, piu-me di volatili e le loro interiora erano am-mucchiati alla rinfusa, opprimendo il cuore  difondendo il contagio”.
Ma non tutti furono colpiti dall’etica ve-getariana. Nel seicento un gesuita tedesco,
lo studioso Athanasius Kircher, lanciò un
attacco contro gli indiani (e contro cinesi e
giapponesi) perché non mangiavano nulla
che provenisse “da un animale vivo”, una
pratica che considerava non cristiana. Attri-buiva questo comportamento “abominevo-le” a un “bramino molto peccaminoso im-bevuto di pitagorismo”, probabilmente lo
stesso Budda.
Ipocrisie
“Il progresso morale dell’umanità”, scrisse
Lev Tolstoj nel 1892, “è sempre lento” e nei
dibattiti sul cibo della nostra epoca l’intol-leranza di Kircher sembra eclissare l’aper-tura mentale di Voltaire. Se le pelli e le inte-riora nella cucina reale descritta da Voltaire
ci disgustano, che dire degli allevamenti
industriali? Io sono sbigottito dalla man-canza di indignazione. Qualche libro o do-cumentario, gli appelli di scrittori come il
sacerdote  anglicano  Andrew  Linzey  e  il
giornalista statunitense Matthew Scully, le
proteste  sporadiche  degli  attivisti:  tutto
svanisce davanti alle cifre colossali spese
per far apparire accettabile il massacro de-gli animali su scala industriale.
Nel 2009 un sondaggio Gallup aferma-va che il 96 per cento degli statunitensi ri-tiene  “che  gli  animali  meritino
almeno  una  qualche  difesa  dal
dolore e dallo sfruttamento”. Ma
è diicile non considerarlo para-dossale, perché lo scarso valore
della vita animale è un fattore es-senziale per il sistema alimentare america-no. Un attaccamento teorico all’idea dei
diritti degli animali non signiica riconosce-re il punto centrale, e cioè che gli animali
hanno il desiderio di vivere e che noi umani,
in quanto esseri superiori, abbiamo le capa-cità per capire e rispettare tale desiderio.
Una cosa è proclamarsi del tutto indife-renti ai diritti degli animali. Una persona di
questo tipo non inge di essere interessata
alla questione. Ho molta meno compren-sione, invece, per quanti cercano di conci-liare i diritti degli animali e il consumo di
carne deinendosi carnivori etici che man-giano solo animali uccisi “con umanità”.
Particolarmente ripugnante è il modo in cui
il consumo di carne viene magniicato da
critici gastronomici e cuochi celebri. Il pro-fessore di studi internazionali B.R. Myers
ha passato in rassegna gli scritti di alcuni
dei più stimati esperti di cucina e ha messo
a nudo la loro quasi totale indiferenza per
la realtà brutale del massacro degli animali.
Nel suo libro di ricordi Blood, bones and but-ter, del 2011, la chef Gabrielle Hamilton ha
scritto: “È un’esperienza importante pene-trare a mani nude nel didietro di un animale
e prelevarne le budella ancora calde”. Il cri-tico gastronomico Jefrey Steingarten ci ha
dato una descrizione vivida e minuziosa dei
venti minuti che quattro uomini hanno im-piegato per uccidere un maiale, mentre lo
chef britannico Fergus Henderson gode nel
mangiarlo tutto intero, nose to tail, dal naso
alla coda. Non è diicile trovare questo ap-proccio quasi lascivo al contatto isico con
la carne fresca e gli organi degli animali: è
onnipresente nei programmi di cucina in tv,
nelle rubriche di ricette dei giornali e nella
pubblicità. Alcuni esperti di cucina sosten-gono addirittura che sarebbe irresponsabile
consentire la scomparsa di alcune varietà di
bestiame, come accadrebbe con una rivolu-zione  vegetariana  delle  nostre
abitudini  alimentari.  Questa  è
crudeltà che si maschera da solle-citudine.  È  un  argomento  che
Matthew Scully ha sentito invo-care spesso quando ha attraver-sato gli Stati Uniti in lungo e in largo per
scrivere il suo libro Dominion. “La cosa peg-giore che puoi fare nel North Carolina”, gli
ha detto un agricoltore quando Scully gli ha
chiesto perché non liberava i suoi maiali, “è
lasciare le bestie al freddo”. A me sembra
che la cosa peggiore che si possa fare ai ma-iali è destinarli al mattatoio e farli crescere
in allevamenti industriali intensivi.
Più di 53 miliardi di animali terrestri sa-ranno macellati quest’anno per soddisfare i
nostri appetiti. Sullo sfondo di questa car-neficina, scagliarsi contro McDonald’s o
mangiare solo la carne di animali “allevati
eticamente” è una concessione puramente
simbolica e formale. I vegani hanno deciso
che l’unica risposta accettabile è rinunciare
a qualunque prodotto di origine animale.
Possiamo ironizzare, ma malgrado l’appa-rente severità della loro ilosoia, sono pro-prio loro a dar voce ai nostri istinti migliori.
La verità è che oggi nessuno ha bisogno di
mangiare la carne, indossare una pelliccia o
usare prodotti di origine animale per so-pravvivere. Trattiamo in questo modo gli
animali perché possiamo permettercelo.
 Nell’estate del 2004 negli Stati Uniti è
stato  celebrato  il  centenario  del  grande
scrittore yiddish Isaac Bashevis Singer. Le
opere di Singer, profondamente radicate
nelle tradizioni chassidiche della Polonia
prebellica, trascendono le loro origini e –
come ha dichiarato l’Accademia svedese
nell’assegnargli il premio Nobel per la lette-ratura nel 1978 – “fanno rivivere la condi-zione umana universale”. Ma, una comme-morazione dopo l’altra, gli statunitensi sono
riusciti ad applaudire Singer continuando a
trascurare la preoccupazione centrale della
sua vita, l’unico argomento che sia mai di-ventato la sua “religione”: il trattamento
che riserviamo agli animali e gli inganni che
lo sostengono. Nessun altro autore o attivi-sta dell’ottocento e del novecento, neppure
Gandhi o Tolstoj, ha mai soferto così pro-fondamente per le condizioni degli animali.
È un tema che pervade tutta l’opera di Sin-ger: quasi tutti i grandi protagonisti dei suoi
libri sono vegetariani o stanno per diventar-lo,  come  Herman  Broder,  superstite
dell’Olocausto e libertino impenitente, nel
romanzo Nemici, una storia d’amore (1966).
Quando gli ofrono un galletto, lui lo riiuta:
“Da qualche tempo pensava di diventare
vegetariano”. Singer richiama sarcastica-mente l’attenzione sui paradossi dei nostri
rituali più privati, in cui la soferenza e la li-berazione dell’uomo sono celebrate consu-mando la carne di animali torturati: “Un
pesce del iume Hudson o di un qualche la-go”, scrive, “aveva pagato con la vita perché
Herman  potesse  ricordare  i  miracoli
dell’esodo dall’Egitto. Un pollo aveva dona-to il collo alla commemorazione del sacrii-cio di Pesach”.
Sensibili alla soferenza
Una sola iniziativa, in Pennsylvania, ha ri-cordato ai partecipanti “la rigorosa dieta
vegetariana di Singer”, ma le motivazioni
ilosoiche della sua scelta non sono state
prese in esame. Poteva anche sembrare una
semplice preferenza alimentare, un capric-cio  personale.  Ma  come  ci  ricorda  Janet
Hadda nella biograia Isaac Bashevis Singer:
a life (1997), “la sua decisione di non man-giare carne era legata alla repulsione per la
crudeltà umana, l’abuso di potere e il di-sprezzo della vita suscitata dalla Shoah”. E
continua: “Negli anni cruciali dell’Olocau-sto,  Bashevis  arrivò  a  credere  che,  man-giando la carne, stava accettando l’uccisio-ne di esseri innocenti”. Lo stesso Singer
spiegò che vedere “quanto è scarsa l’atten zione della gente verso gli animali e con
quanta  facilità accetta  che  l’uomo  possa
farne tutto ciò che vuole” lo rendeva infeli-ce. “Esempliicava”, ai suoi occhi, “le teorie
razziste più estreme, il principio che la ra-gione è del più forte”. Probabilmente è per
questo che nello Scrittore di lettere, un rac-conto breve pubblicato nel 1968, Singer de-scriveva  la  realtà  degli  animali  come
“un’eterna Treblinka”. Per molta gente un
confronto di questo genere è inconcepibile.
All’epoca del centenario, nel 2004, Singer è
stato biasimato da Allan Nadler, direttore
degli studi ebraici alla Drew university, per-ché mangiava focaccine e sognava “putta-ne polacche e diavoli yiddish” mentre gli
altri “combattevano i nazisti insieme ai par-tigiani nelle foreste della Lituania”. Ma Sin-ger, che aveva perso la madre e il fratello
minore nei campi di lavoro sovietici, non
intendeva sminuire l’Olocausto: lo evocava
per sottolineare che gli esseri umani sono
capaci di commettere atrocità spaventose
ai danni di esseri indifesi, senza neppure
scalire la splendida immagine che hanno
di sé.
 Gli straordinari progressi tecnologici
della nostra epoca hanno confermato il do-minio umano sul mondo naturale come non
era mai accaduto inora. Ma Isaac B. Singer
ci ha insegnato che questa, nella migliore
delle ipotesi, è solo una fragile assicurazio-ne contro l’irrazionalità, e il progresso tec-nologico non ci ha mai impedito di precipi-tare bruscamente nel caos e nei massacri.
Gli esseri umani hanno sempre mostrato
un’immensa capacità di distruzione, ma
anche di moderazione e automiglioramen-to. Dovremmo sforzarci di temperare il no-stro dominio con la pietà e la compassione.
Insistere su questi princìpi, come fanno al-cuni di noi, non signiica odiare la gente
comune. Signiica sollecitare un esercizio
più empatico della nostra autorità nella spe-ranza che, diventando sensibile alle sofe-renze degli esseri su cui ha potere di vita e di
morte, l’umanità possa sfuggire alla sua pri-mordiale propensione alla violenza. u gc

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