martedì 8 ottobre 2013

Non è successo niente Heike Buchter, Die Zeit, Germania

A cinque anni dal fallimento
della Lehman Brothers, Wall
street continua ad agire come
se la crisi non ci fosse stata.
E guadagna anche più di prima



i sono diverse foto che ri-cordano Richard Fuld. In
alcune si vedono dei ma-nifestanti che reggono dei
cartelli con scritto “Ver-gogna”. Fuld è comparso
anche in alcune udienze, ma poi nessuno lo
ha più visto. Fuld era l’amministratore dele-gato della Lehman Brothers, la banca d’af-fari fallita il 15 settembre 2008. Quel giorno
i dipendenti dell’istituto uscirono dall’ui-cio stringendo tra le braccia una scatola con
gli efetti personali. E quello era solo l’ini-zio. La stessa sorte è toccata a decine di mi-gliaia di persone. Di colpo, in tutto il mon-do, un istituto di credito dopo l’altro si è
trovato di fronte al rischio d’insolvenza, e i
governi hanno dovuto correre in loro aiuto.
Da allora una strisciante crisi economica e
inanziaria accompagna il dibattito pubbli-co come un rumore di fondo.
Il 15 settembre 2008 è stata una data cri-tica non solo per la Lehman: il fallimento
dell’istituto era il sintomo dei guasti dell’in-tero sistema inanziario. Le banche aveva-no corso rischi che non erano più in grado di
capire né di controllare. Il caso Lehman ha
messo in luce questi guasti, scatenando una
crisi che solo negli Stati Uniti ha bruciato
otto milioni di posti di lavoro, miliardi di
dollari di risparmi e duemila miliardi di en-trate iscali.
I governi e le banche centrali sono anco-ra oggi alle prese con le conseguenze della
crisi. Ma c’è un posto dove sembra che il
crollo della Lehman non ci sia mai stato: le
sale operative e gli uffici delle banche di
Wall street. “Tutte le volte che i manager si
riuniscono ripetono che ora ci sono troppe
regole”, dice il dirigente di una grande ban-ca. Da quando è fallita la Lehman, gli istitu-ti di credito hanno il iato sul collo e devono
rispettare troppi divieti.
Secondo la versione dei fatti più apprez-zata a Wall street, in realtà la crisi non è sta-ta causata dai banchieri, ma dall’ex presi-dente Bill Clinton, che ha costretto gli isti-tuti di credito a erogare prestiti agli statuni-tensi poveri (i cosiddetti mutui subprime)
per permettergli di comprare case troppo
costose per le loro tasche. Non c’è da stupir-si che i debiti non sono stati saldati. “Oggi
quelli che hanno distrutto i tradizionali cri-teri di concessione dei mutui per agevolare
i subprime  danno  la  colpa  della  crisi  alle
banche, all’avidità e alla deregolamentazio-ne”, ha scritto sul Wall Street Journal Phil
Gramm, ex senatore e lobbista bancario. In
questi ambienti non si accenna al fatto che i
banchieri, pur sapendo che era un errore,
hanno concesso prestiti a chi non era in gra-do di rimborsarli. E non si accenna neanche
ai mutui che quegli stessi banchieri, sempre
sapendo che era un errore, hanno riunito in
pacchetti da mettere in vendita sui mercati
inanziari internazionali.
Dopo la crisi quasi tutti i manager licen-ziati hanno trovato un nuovo lavoro. Solo
Richard  Fuld  non  ci  è  riuscito.  Nessuno
vuole  più  collaborare  con  lui.  Ormai  chi
chiede di Fuld dalle parti di Wall street si
trova di fronte a un silenzio imbarazzato.
Una dirigente di banca bene informata so-stiene che Fuld lavora al Chrysler building
“con due soli assistenti”. E cosa fa lì? Nes-suno lo sa. Larry McDonald, l’ex vicepresi-dente della Lehman, annuncia una grande
rimpatriata tra dirigenti. Fuld è invitato?
“Nessuno degli invitati vuole vederlo”, ri-sponde  McDonald.  Perfino  il  guru  delle
pubbliche relazioni George Sard, la persona
a cui l’élite inanziaria si rivolge quando de-ve salvare la propria reputazione, ha scritto
in una breve email: “Da anni non lavoro più
per il signor Fuld”.
Fuld rovina l’illusione che le banche non
siano responsabili della crisi, perché alla
crisi lui ha dato un volto. All’epoca il mana-ger è stato trascinato sotto la luce dei rilet-tori , fuori dall’oscurità delle sale operative,
e per di più ha dimostrato che, nonostante
tutte le dichiarazioni uiciali, in realtà ai
potenti di Wall street non importava niente
del resto del mondo. Fuld ha aperto uno spi-raglio su un mondo per lo più imperscruta

bile: in quei giorni tutti hanno letto che il
manager aveva a disposizione due jet e un
elicottero e che tra il 2000 e il 2007 aveva
guadagnato trecento o forse cinquecento
milioni di dollari. Inoltre, Fuld aveva inte-stato alla moglie una villa da 13,5 milioni per
sottrarre l’immobile alle azioni penali e alle
querele private. Oggi vive alle porte di New
York in una tenuta circondata da mura in
pietra e popolata da caprioli. All’ingresso è
appeso un cartello con la scritta “Vietato
l’accesso!”.
Nella cerchia che ha ideato tutti i pro-dotti inanziari complessi e rischiosi di quei
tempi inora nessuno è stato citato in giudi-zio. “Nessuno è inito in galera e lo stesso
Fuld è ancora un uomo ricco”, commenta
l’avvocato  Jacob  Zamansky,  che  da  anni
rappresenta gli investitori nelle cause con-tro le banche e ha tra i suoi clienti anche
centinaia  di  persone  danneggiate  dalla
Leh man. “I banchieri sono stati aiutati a
spese della collettività e poi sono semplice-mente passati sopra alla crisi”, sostiene Za-mansky. Perino l’amministrazione Obama
ha pensato che afrontarli fosse troppo ri-schioso, che si sarebbe creata ancora più
confusione e sarebbe stata messa a rischio
la ripresa dei mercati inanziari. Anche per
questo motivo, a cinque anni dal crollo della
Lehman, la cultura del passato ha nuova-mente preso il sopravvento a Wall street,
come dimostrano un paio di cifre. Secondo
un recente rapporto, nel 2011 Wall street ha
distribuito sessanta miliardi di dollari in di-videndi: la somma più alta di tutti i tempi. I
manager delle banche hanno approittato
della situazione in modo straordinario: la
società di analisi Snl Financial ha stimato
che l’anno scorso il reddito medio dei ban-chieri è aumentato del 22 per cento. John
Stumpf, il capo della Wells Fargo, ha guada-gnato più di tutti intascando 23 milioni di
dollari. Nel 2007, l’ultimo anno del grande
boom, aveva incassato “solo” dodici milio-ni di dollari. Intanto il suo istituto, il primo
fornitore di mutui ipotecari negli Stati Uni-ti, è stato denunciato per frode nell’eroga-zione di prestiti.
Scorrettezze
Le banche non hanno introdotto veri cam-biamenti neanche nel modo di guadagnare
soldi. Stanno tornando di moda perino i
titoli  complessi  che  hanno  trascinato  la
Leh man nel baratro e sono costati miliardi
di dollari agli investitori. Solo nella prima
metà del 2013 il volume di vendite dei titoli
Abs (asset backed security) ha raggiunto i 424
miliardi di dollari. Di recente sono emerse
diverse scorrettezze. Alcune banche hanno
accumulato metalli come l’alluminio nei
loro depositi, e le autorità ritengono che in
questo modo abbiano inluenzato artiicial-mente i prezzi. La JPMorgan Chase deve
pagare una multa di oltre 410 milioni di dol-lari  per  aver  manipolato  il  mercato
dell’energia elettrica.
L’unico a non poter più partecipare al
gioco è Richard Fuld. Un paio di volte ha
cercato  di  ributtarsi  nella  mischia,  per
esempio alla Legend Securities, una delle
piccole aziende che si trovano in fondo alla
catena  alimentare  degli  squali  di  Wall 
street. Qui si scommette su somme esigue,
ma Fuld non è riuscito a conservare a lungo
neanche quel posto. Nelle banche si sta dif-fondendo un autocompiacimento sconcer-tante. Soccorse dallo stato con molti miliar-di di dollari, ormai hanno saldato il debito.
Kelly King, presidente del consiglio d’am-ministrazione della banca BB&T, dice che
gli aiuti sono stati “un investimento eccel-lente per il contribuente statunitense”. E i
posti di lavoro tagliati? E gli efetti per le im-prese che non operano nel settore bancario?
Dopo la crisi il reddito annuo di King si è
quasi triplicato, raggiungendo i dodici


La lezione
ignorata


L
a Lehman Brothers e il resto
del sistema inanziario non
sono stati abbattuti dai mutui
subprime né dai titoli derivati. Né si
può incolpare solo l’avidità dei ban-chieri. Alla base della crisi, sostiene
l’economista James Kwak in un ar-ticolo scritto per il mensile The At-lantic, c’è “l’idea che la inanza de-regolamentata è sempre buona e
che si possa contare sul fatto che gli
interessi dei banchieri iniscono per
migliorare la vita di tutti”. Questa
ideologia ha guadagnato terreno ne-gli anni novanta, ma è rimasta so-stanzialmente indiscussa ino al
2008. Solo con l’esplosione della cri-si – ma per un breve periodo – è sem-brato che i politici volessero domare
i mercati inanziari. “Ma cinque an-ni dopo”, continua Kwak, “l’ideolo-gia dei mercati deregolamentati è
tornata e, anche se meno indiscussa
di prima, sembra comunque ben ra-dicata nei posti che contano”. Alle
banche non è stato imposto di au-mentare in modo adeguato il loro
capitale per coprirsi da futuri crolli.
“Perché la inanza si comporta co-me se nel 2008 non fosse successo
niente?”, chiede Kwak. “Le idee non
si difondono da sole. Negli anni del
boom sono state spinte dagli inte-ressi politici ed economici. La dere-golamentazione della inanza ha
conquistato consensi a Washington
perché gli interessi delle grandi
aziende dominavano il Partito re-pubblicano, mentre i democratici
non volevano turbare Wall street per
non precludersi ricchi inanziamen-ti. I banchieri e gli immobiliaristi vo-levano vendere case a tutti. I lobbisti
avevano ormai agganci potenti nel
governo. E tutti erano contenti della
crescita”. Nel 2013 è cambiato poco,
conclude Kwak. “Solo la stabilità i-nanziaria non ha una lobby potente
che la difenda”. u


 

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