venerdì 11 ottobre 2013

Nel paese dei dati Mehdi Atmani, Le Temps, Svizzera Foto di Emanuele Cremaschi I danesi hanno un enorme patrimonio di informazioni raccolte dalle amministrazioni pubbliche. E vogliono sfruttarlo per l’innovazione nel campo dei servizi e per creare posti di lavoro

L
e grida che arrivano dal par-co  divertimenti  Tivoli  at-traversano il viale H.C. An-dersen.  Una  frenesia  che
contrasta con la calma del
Danish design center, pro-prio sull’altro lato della strada. Appena var-cata la porta dell’ediicio, progettato dal
celebre architetto Henning Larsen, il visi-tatore è travolto dalle eccellenze del design
locale. Al pianoterra le lampade Louis Poul-sen sono sistemate accanto alle sedie in
plastica di Verner Panton, agli stereo Bang
& Olufsen e ai mattoncini del Lego. “Begli
oggetti del passato. Ma il futuro è alle sue
spalle”, mi fa notare Nille Juul-Sørensen.
Un rapido giro su me stesso e capisco im-mediatamente la battuta dell’architetto e
direttore del centro. Di fronte a noi su un
muro giallo ci sono scritte delle parole chia-ve  a  lettere  nere:  tecnologia,  materiali,
gruppo di cervelli, innovazione, big data.
Sono le parole che devono orientare la dire-zione che prenderà la società danese, spie-ga Juul-Sørensen: “La Danimarca non deve
più essere conosciuta solo per il design dei
suoi mobili, ma deve essere all’avanguar-dia del design informatico”.
Alla ine del 2012 questo architetto in-novatore e idealista ha inaugurato il Data
Viz, una sorta di accademia che riunisce i
migliori hacker, designer, architetti, im-prenditori, graici e informatici danesi. In-sieme raccolgono e analizzano la grande
massa di dati pubblici e privati custoditi
dalle  pubbliche  amministrazioni  e  dalle
imprese del paese. Lo scopo è innovare e
creare nuovi servizi per migliorare la quali-tà della vita dei danesi.
Design e tecnologia
Open data e big data sono due espressioni
molto di moda oggi in Danimarca. La pri-ma deinisce tutti i dati raccolti dalla pub-blica  amministrazione,  come  il  tasso  di
criminalità per quartiere, l’eicienza ener-getica degli ediici o il numero di contri-buenti sotto una determinata soglia di età.
La seconda indica le tracce digitali che ci
lasciamo alle spalle quando facciamo ac-quisti, navighiamo su internet o usiamo il
cellulare:  sono  tutti  dati  accuratamente
memorizzati nei server delle imprese, dei
motori di ricerca e degli operatori di telefo-nia. Gli open data e i big data sono la nuova
miniera  d’oro  della  Danimarca.  Ma  per
sfruttarli appieno bisogna ancora sviluppa-re gli strumenti adatti.
La sida è stata raccolta da Juul-Søren-sen, che ormai passa tutto il suo tempo a
incontrare imprenditori e amministratori
pubblici e a cercare di convincere hacker e
designer del potenziale valore dei dati. Di
recente il comune di Copenaghen lo ha an-che incaricato di sostituire una parte dei
semafori della città. “Un semaforo non de-ve limitarsi a lampeggiare”, spiega Juul-Sørensen. “Deve avere un collegamento
wii e sensori che registrano in tempo reale
il numero di auto e di biciclette che passa-no. In questo modo si possono raccogliere
enormi quantità di dati per gestire la città in
modo più eiciente”.
Un importante passo avanti verso l’in-novazione tecnologica la Danimarca lo ha già fatto dotandosi di una piattaforma na-zionale open data, la Odis, che dal 1 gennaio
2013 mette gratuitamente i dati pubblici a
disposizione di tutti. Quest’importante no-vità è dovuta in gran parte alla determina-zione di Cathrine Lippert, che ci riceve nel
suo uicio nel centro di Copenaghen, al nu-mero 4 di Landgreven, poco distante dal
Danish design center.
Lippert è la igura di spicco della Digita-liseringsstyrelsen, l’agenzia del ministero
delle inanze che si occupa di rendere uti-lizzabili i dati nascosti nei server delle am-ministrazioni. Un’iniziativa unica nel suo
genere perché, mentre negli Stati Uniti, nel
Regno Unito o in Francia si insiste solo sulla
trasparenza,  la  Danimarca  vuole  invece
usare i dati in suo possesso per creare posti
di lavoro. “L’obiettivo è economico, non
abbiamo problemi di trasparenza”, aferma
Cathrine Lippert. “L’economia del paese è
basata soprattutto sulle piccole e medie im-prese,  che  non  sono  ancora  consapevoli
dell’importanza dei dati che raccolgono e
del potenziale offerto dall’open data”. Il
compito dell’Odis è rendere disponibili e
standardizzare i dati pubblici per il settore
privato. “Vogliamo fornire alle imprese le
risorse digitali su cui poter costruire e inno-vare. In futuro questo signiicherà più cre-scita e più occupazione”. In quest’ambito,
la Danimarca si distingue dagli altri paesi
perché ha approvato leggi che favoriscono
l’accesso gratuito e lo scambio dei dati. Per
esempio, ino al 1 gennaio 2013 per avere i
dati del catasto in 3d si dovevano sborsare
centinaia di migliaia di corone. Oggi è tutto
gratuito.
Un altro fattore importante è il volume
dei dati raccolti. Grazie alle dimensioni del
suo settore pubblico, il regno dispone di
una  grande  quantità  di  informazioni  di
buona qualità. A questo si deve aggiungere
la capillare difusione di internet tra i dane-si. “La Danimarca è seduta su un tesoro di
informazioni che bisogna sfruttare in ma-niera intelligente”, spiega Cathrine Lip-pert. Il problema è convincere il primo mi-nistro, la socialdemocratica Helle Thor-ning-Schmidt.
Giovani imprese crescono
Il successo del progetto di Christian Lanng
ha  dell’incredibile.  Nell’aprile  del  2010
questo ex funzionario dell’agenzia del go-verno danese per le telecomunicazioni ha
rivoluzionato il mondo del commercio on-line. Con i suoi amici Mikkel Hippe Brun e
Gert Sylvest ha fondato la startup Trade-shift, una piattaforma online di fatturazio-ne gratuita. Tradeshift è una specie di rete
sociale, commerciale e globale, che per-mette alle imprese di scambiare in modo
sicuro e gratuitamente fatture, ordini, pre-ventivi e pagamenti. A soli dieci mesi dal
suo lancio, Tradeshift già collegava settan-tamila imprese danesi, cioè il 40 per cento
delle piccole e medie imprese di tutto il pa-ese. Lanng ha ricevuto il premio danese per
l’innovazione,  e  per  i  giornali  Wired,
Techcrunch, Wall Street Journal e Financial
Times, la sua Tradeshift è stata “la startup
più innovativa degli ultimi dieci anni”. Og-gi la piattaforma è un gigante presente in
190 paesi e si vanta di avere clienti del cali-bro di Dell, Hilton o Kuehne+Nagel. Una
storia di successo unica, costruita sull’uso
dei dati.
In Danimarca, tuttavia, nel rapporto tra nnovazione e crescita economica c’è un
paradosso: il paese è determinato a rendere
disponibili tutti i dati pubblici e allo stesso
tempo vuole limitare l’accesso ad alcune
informazioni. Per mesi, infatti, il parlamen­
to ha discusso animatamente della revisio­
ne della legge sulla libertà dell’informazio­
ne. Criticata dai parlamentari di destra e
della sinistra radicale, la riforma, approva­
ta a giugno, intende limitare l’accesso pub­
blico ai documenti prodotti dai ministeri.
Anche se può sembrare strano, la riforma
della legge e la questione degli open data
sono considerate dai danesi due temi di­
stinti. Il primo riguarda la trasparenza dei
poteri pubblici, l’altro l’economia.
Il numero magico
In un cafè di Holbersgade, Niels Erik Kaa­
ber Rasmussen sta divorando un club sand­
wich  al  salmone.  A  33  anni,  il  fondatore
della startup Buhl & Rasmussen si batte per
rendere pubblici i dati sull’operato dei poli­
tici. “L’opposizione alla riforma mi ha sor­
preso per la sua violenza”, spiega Rasmus­
sen. “La Danimarca ha una lunga tradizio­
ne di rispetto della trasparenza. La questio­
ne non ha mai suscitato un vero dibattito
pubblico  semplicemente  perché  non  ce
n’era bisogno. La trasparenza era un dato
acquisito. Ma quando si è cercato di cam­
biare le cose, i cittadini hanno protestato”.
Niels Erik Kaaber Rasmussen si occupa
di dati da dieci anni, prima al parlamento
europeo poi, dal 2004, per conto del mini­
stero danese della scienza, della tecnologia
e dell’innovazione, dove lavora allo svilup­
po  di  standard open  source  per  il  settore
pubblico. Con la sua startup si occupa inve­
ce di creare applicazioni sulla base di dati
pubblici e soprattutto privati: proprio quei
big data che tanto preoccupano i governi di
tutto il mondo, perché possono permettere
di ottenere proili accurati di ogni indivi­
duo.  Timori  simili,  però,  non  sembrano
siorare Kaaber Rasmussen. “La nozione di
sfera privata è simbolica”, spiega. “I danesi
hanno iducia nelle loro istituzioni e nei lo­
ro concittadini. Non hanno problemi a for­
nire all’amministrazione i dati personali. È
un fenomeno culturale. Se, per esempio,
prendiamo i dati sulla criminalità a Cope­
naghen, non ci interessa sapere chi è un
criminale e chi non lo è. Ma vogliamo sape­
re dove si trovano i criminali. Negli Stati
Uniti, invece, preferiscono sbattere le foto
dei delinquenti in prima pagina”. Anche
nello  scenario  danese,  apparentemente
idilliaco, esistono però degli eccessi. Dal
1968 i danesi usano un sistema di identii­
cazione personale molto eicace ma poco
sicuro. Al momento della nascita, o all’arri­
vo  nel  paese,  le  autorità  attribuiscono  a
ogni cittadino un numero di identiicazione
personale a dieci cifre chiamato Cpr, simile
al nostro codice iscale. Le prime sei cifre
corrispondono alla data di nascita, le ulti­
me sono generate da un algoritmo. Il Cpr è
nato per permettere il riconoscimento delle
persone e per facilitare il funzionamento
del sistema iscale: grazie alle ultime quat­
tro cifre del numero l’amministrazione può
infatti accedere al fascicolo con tutte le in­
formazioni di ogni cittadino.
Nell’era digitale, però, il Cpr è vittima
della sua stessa eicienza e semplicità. I
danesi lo usano praticamente per qualsiasi
cosa: l’apertura di un conto in banca, l’ac­
cesso alla cartella medica, gli acquisti on­
line. Così il Cpr si è trasformato da stru­
mento per la veriica dell’identità a vero e
proprio documento di riconoscimento e ha
sostituito  di  fatto  la  carta  di  identità.  In
questo modo la Danimarca conserva nei
suoi  server  una  quantità  enorme  di  dati
personali poco protetti. Un rischio per i cit­
tadini, come ha scoperto sulla propria pelle
Mette  Christensen  nel  2009,  quando
all’uscita da un bar nel quartiere di Nørre­
bro le hanno rubato il portafoglio. Mette ha
subito denunciato il furto ma i ladri ormai
avevano  il  suo  Cpr  e  così  per  settimane
hanno usato quel numero per fare acquisti
online. “Era terribile vedere il mio doppio
agire in assoluta libertà”, racconta la ragaz­
za. Dopo una lunga procedura Mette si è i­
nalmente vista attribuire un nuovo numero
e alla ine i ladri sono stati arrestati. Eppure,
nonostante questi furti di identità siano
sempre più numerosi, l’amministrazione
non ha in programma di cambiare sistema:
sarebbe troppo costoso.
Bersagli sbagliati
Nel suo grande open space del quartiere di
Østerbro, Lasse Boisen Andersen si acca­
rezza i bai, apre una lattina di Heineken e
dà una boccata alla sua sigaretta elettroni­
ca. Andersen, che ha 25 anni, è hacker, im­
prenditore ed è tra i fondatori di Creative
destruction, un’organizzazione che studia
l’aspetto innovativo dei dati. Dopo gli studi
di informatica all’università e la Business
school di Copenaghen, Lasse e un amico si
sono messi in testa di dimostrare la vulne­
rabilità del sistema. “Il Cpr è basato su un
algoritmo molto facile da scoprire”, raccon­
ta. “Ci sono voluti due giorni e meno di 150
tentativi per ottenere il codice personale di
qualcuno”. A quel punto i due studenti han­
no contattato i mezzi d’informazione e la
storia ha avuto grande visibilità. Al punto
che Margrethe Vestager, ministro dell’eco­
nomia e dell’interno, ad aprile si è occupata
personalmente del caso, promettendo di
multare le imprese che non garantiranno la
sicurezza dei Cpr sui loro siti internet. “Il
governo ha completamente sbagliato ber­
saglio”, si rammarica Lasse. “Invece di cor­
reggere i problemi di sicurezza, ha deciso di
punire le imprese. La nostra generazione
sta sviluppando strumenti eicacissimi per
risolvere questi problemi di sicurezza. Ep­
pure nessuno ci ascolta”.
Nille Juul­Sørensen è d’accordo. “Per
molto tempo la Danimarca si è illusa di po­
ter avere una ‘sua’ Nokia, ma a una sola
grande impresa preferisco migliaia di gio­
vani startup intelligenti e creative”. E in ef­
fetti il direttore del Danish design center è
impegnato ad aiutare i progetti dei più gio­
vani. Per l’anno scolastico appena comin­
ciato l’accademia Data Viz fornirà agli stu­
denti dei corsi di coding. “Tutti parlano il
linguaggio informatico, ma pochi lo sanno
scrivere e leggere. Per guidare l’innovazio­
ne tecnologica dobbiamo conoscere le vi­
scere dei computer”. Come dice una frase
ormai diventata celebre, if you can’t open it,
you don’t own it!, se non lo sai aprire, non lo
possiedi! u ad

Nessun commento:

Posta un commento