L
e grida che arrivano dal par-co divertimenti Tivoli at-traversano il viale H.C. An-dersen. Una frenesia che
contrasta con la calma del
Danish design center, pro-prio sull’altro lato della strada. Appena var-cata la porta dell’ediicio, progettato dal
celebre architetto Henning Larsen, il visi-tatore è travolto dalle eccellenze del design
locale. Al pianoterra le lampade Louis Poul-sen sono sistemate accanto alle sedie in
plastica di Verner Panton, agli stereo Bang
& Olufsen e ai mattoncini del Lego. “Begli
oggetti del passato. Ma il futuro è alle sue
spalle”, mi fa notare Nille Juul-Sørensen.
Un rapido giro su me stesso e capisco im-mediatamente la battuta dell’architetto e
direttore del centro. Di fronte a noi su un
muro giallo ci sono scritte delle parole chia-ve a lettere nere: tecnologia, materiali,
gruppo di cervelli, innovazione, big data.
Sono le parole che devono orientare la dire-zione che prenderà la società danese, spie-ga Juul-Sørensen: “La Danimarca non deve
più essere conosciuta solo per il design dei
suoi mobili, ma deve essere all’avanguar-dia del design informatico”.
Alla ine del 2012 questo architetto in-novatore e idealista ha inaugurato il Data
Viz, una sorta di accademia che riunisce i
migliori hacker, designer, architetti, im-prenditori, graici e informatici danesi. In-sieme raccolgono e analizzano la grande
massa di dati pubblici e privati custoditi
dalle pubbliche amministrazioni e dalle
imprese del paese. Lo scopo è innovare e
creare nuovi servizi per migliorare la quali-tà della vita dei danesi.
Design e tecnologia
Open data e big data sono due espressioni
molto di moda oggi in Danimarca. La pri-ma deinisce tutti i dati raccolti dalla pub-blica amministrazione, come il tasso di
criminalità per quartiere, l’eicienza ener-getica degli ediici o il numero di contri-buenti sotto una determinata soglia di età.
La seconda indica le tracce digitali che ci
lasciamo alle spalle quando facciamo ac-quisti, navighiamo su internet o usiamo il
cellulare: sono tutti dati accuratamente
memorizzati nei server delle imprese, dei
motori di ricerca e degli operatori di telefo-nia. Gli open data e i big data sono la nuova
miniera d’oro della Danimarca. Ma per
sfruttarli appieno bisogna ancora sviluppa-re gli strumenti adatti.
La sida è stata raccolta da Juul-Søren-sen, che ormai passa tutto il suo tempo a
incontrare imprenditori e amministratori
pubblici e a cercare di convincere hacker e
designer del potenziale valore dei dati. Di
recente il comune di Copenaghen lo ha an-che incaricato di sostituire una parte dei
semafori della città. “Un semaforo non de-ve limitarsi a lampeggiare”, spiega Juul-Sørensen. “Deve avere un collegamento
wii e sensori che registrano in tempo reale
il numero di auto e di biciclette che passa-no. In questo modo si possono raccogliere
enormi quantità di dati per gestire la città in
modo più eiciente”.
Un importante passo avanti verso l’in-novazione tecnologica la Danimarca lo ha già fatto dotandosi di una piattaforma na-zionale open data, la Odis, che dal 1 gennaio
2013 mette gratuitamente i dati pubblici a
disposizione di tutti. Quest’importante no-vità è dovuta in gran parte alla determina-zione di Cathrine Lippert, che ci riceve nel
suo uicio nel centro di Copenaghen, al nu-mero 4 di Landgreven, poco distante dal
Danish design center.
Lippert è la igura di spicco della Digita-liseringsstyrelsen, l’agenzia del ministero
delle inanze che si occupa di rendere uti-lizzabili i dati nascosti nei server delle am-ministrazioni. Un’iniziativa unica nel suo
genere perché, mentre negli Stati Uniti, nel
Regno Unito o in Francia si insiste solo sulla
trasparenza, la Danimarca vuole invece
usare i dati in suo possesso per creare posti
di lavoro. “L’obiettivo è economico, non
abbiamo problemi di trasparenza”, aferma
Cathrine Lippert. “L’economia del paese è
basata soprattutto sulle piccole e medie im-prese, che non sono ancora consapevoli
dell’importanza dei dati che raccolgono e
del potenziale offerto dall’open data”. Il
compito dell’Odis è rendere disponibili e
standardizzare i dati pubblici per il settore
privato. “Vogliamo fornire alle imprese le
risorse digitali su cui poter costruire e inno-vare. In futuro questo signiicherà più cre-scita e più occupazione”. In quest’ambito,
la Danimarca si distingue dagli altri paesi
perché ha approvato leggi che favoriscono
l’accesso gratuito e lo scambio dei dati. Per
esempio, ino al 1 gennaio 2013 per avere i
dati del catasto in 3d si dovevano sborsare
centinaia di migliaia di corone. Oggi è tutto
gratuito.
Un altro fattore importante è il volume
dei dati raccolti. Grazie alle dimensioni del
suo settore pubblico, il regno dispone di
una grande quantità di informazioni di
buona qualità. A questo si deve aggiungere
la capillare difusione di internet tra i dane-si. “La Danimarca è seduta su un tesoro di
informazioni che bisogna sfruttare in ma-niera intelligente”, spiega Cathrine Lip-pert. Il problema è convincere il primo mi-nistro, la socialdemocratica Helle Thor-ning-Schmidt.
Giovani imprese crescono
Il successo del progetto di Christian Lanng
ha dell’incredibile. Nell’aprile del 2010
questo ex funzionario dell’agenzia del go-verno danese per le telecomunicazioni ha
rivoluzionato il mondo del commercio on-line. Con i suoi amici Mikkel Hippe Brun e
Gert Sylvest ha fondato la startup Trade-shift, una piattaforma online di fatturazio-ne gratuita. Tradeshift è una specie di rete
sociale, commerciale e globale, che per-mette alle imprese di scambiare in modo
sicuro e gratuitamente fatture, ordini, pre-ventivi e pagamenti. A soli dieci mesi dal
suo lancio, Tradeshift già collegava settan-tamila imprese danesi, cioè il 40 per cento
delle piccole e medie imprese di tutto il pa-ese. Lanng ha ricevuto il premio danese per
l’innovazione, e per i giornali Wired,
Techcrunch, Wall Street Journal e Financial
Times, la sua Tradeshift è stata “la startup
più innovativa degli ultimi dieci anni”. Og-gi la piattaforma è un gigante presente in
190 paesi e si vanta di avere clienti del cali-bro di Dell, Hilton o Kuehne+Nagel. Una
storia di successo unica, costruita sull’uso
dei dati.
In Danimarca, tuttavia, nel rapporto tra nnovazione e crescita economica c’è un
paradosso: il paese è determinato a rendere
disponibili tutti i dati pubblici e allo stesso
tempo vuole limitare l’accesso ad alcune
informazioni. Per mesi, infatti, il parlamen
to ha discusso animatamente della revisio
ne della legge sulla libertà dell’informazio
ne. Criticata dai parlamentari di destra e
della sinistra radicale, la riforma, approva
ta a giugno, intende limitare l’accesso pub
blico ai documenti prodotti dai ministeri.
Anche se può sembrare strano, la riforma
della legge e la questione degli open data
sono considerate dai danesi due temi di
stinti. Il primo riguarda la trasparenza dei
poteri pubblici, l’altro l’economia.
Il numero magico
In un cafè di Holbersgade, Niels Erik Kaa
ber Rasmussen sta divorando un club sand
wich al salmone. A 33 anni, il fondatore
della startup Buhl & Rasmussen si batte per
rendere pubblici i dati sull’operato dei poli
tici. “L’opposizione alla riforma mi ha sor
preso per la sua violenza”, spiega Rasmus
sen. “La Danimarca ha una lunga tradizio
ne di rispetto della trasparenza. La questio
ne non ha mai suscitato un vero dibattito
pubblico semplicemente perché non ce
n’era bisogno. La trasparenza era un dato
acquisito. Ma quando si è cercato di cam
biare le cose, i cittadini hanno protestato”.
Niels Erik Kaaber Rasmussen si occupa
di dati da dieci anni, prima al parlamento
europeo poi, dal 2004, per conto del mini
stero danese della scienza, della tecnologia
e dell’innovazione, dove lavora allo svilup
po di standard open source per il settore
pubblico. Con la sua startup si occupa inve
ce di creare applicazioni sulla base di dati
pubblici e soprattutto privati: proprio quei
big data che tanto preoccupano i governi di
tutto il mondo, perché possono permettere
di ottenere proili accurati di ogni indivi
duo. Timori simili, però, non sembrano
siorare Kaaber Rasmussen. “La nozione di
sfera privata è simbolica”, spiega. “I danesi
hanno iducia nelle loro istituzioni e nei lo
ro concittadini. Non hanno problemi a for
nire all’amministrazione i dati personali. È
un fenomeno culturale. Se, per esempio,
prendiamo i dati sulla criminalità a Cope
naghen, non ci interessa sapere chi è un
criminale e chi non lo è. Ma vogliamo sape
re dove si trovano i criminali. Negli Stati
Uniti, invece, preferiscono sbattere le foto
dei delinquenti in prima pagina”. Anche
nello scenario danese, apparentemente
idilliaco, esistono però degli eccessi. Dal
1968 i danesi usano un sistema di identii
cazione personale molto eicace ma poco
sicuro. Al momento della nascita, o all’arri
vo nel paese, le autorità attribuiscono a
ogni cittadino un numero di identiicazione
personale a dieci cifre chiamato Cpr, simile
al nostro codice iscale. Le prime sei cifre
corrispondono alla data di nascita, le ulti
me sono generate da un algoritmo. Il Cpr è
nato per permettere il riconoscimento delle
persone e per facilitare il funzionamento
del sistema iscale: grazie alle ultime quat
tro cifre del numero l’amministrazione può
infatti accedere al fascicolo con tutte le in
formazioni di ogni cittadino.
Nell’era digitale, però, il Cpr è vittima
della sua stessa eicienza e semplicità. I
danesi lo usano praticamente per qualsiasi
cosa: l’apertura di un conto in banca, l’ac
cesso alla cartella medica, gli acquisti on
line. Così il Cpr si è trasformato da stru
mento per la veriica dell’identità a vero e
proprio documento di riconoscimento e ha
sostituito di fatto la carta di identità. In
questo modo la Danimarca conserva nei
suoi server una quantità enorme di dati
personali poco protetti. Un rischio per i cit
tadini, come ha scoperto sulla propria pelle
Mette Christensen nel 2009, quando
all’uscita da un bar nel quartiere di Nørre
bro le hanno rubato il portafoglio. Mette ha
subito denunciato il furto ma i ladri ormai
avevano il suo Cpr e così per settimane
hanno usato quel numero per fare acquisti
online. “Era terribile vedere il mio doppio
agire in assoluta libertà”, racconta la ragaz
za. Dopo una lunga procedura Mette si è i
nalmente vista attribuire un nuovo numero
e alla ine i ladri sono stati arrestati. Eppure,
nonostante questi furti di identità siano
sempre più numerosi, l’amministrazione
non ha in programma di cambiare sistema:
sarebbe troppo costoso.
Bersagli sbagliati
Nel suo grande open space del quartiere di
Østerbro, Lasse Boisen Andersen si acca
rezza i bai, apre una lattina di Heineken e
dà una boccata alla sua sigaretta elettroni
ca. Andersen, che ha 25 anni, è hacker, im
prenditore ed è tra i fondatori di Creative
destruction, un’organizzazione che studia
l’aspetto innovativo dei dati. Dopo gli studi
di informatica all’università e la Business
school di Copenaghen, Lasse e un amico si
sono messi in testa di dimostrare la vulne
rabilità del sistema. “Il Cpr è basato su un
algoritmo molto facile da scoprire”, raccon
ta. “Ci sono voluti due giorni e meno di 150
tentativi per ottenere il codice personale di
qualcuno”. A quel punto i due studenti han
no contattato i mezzi d’informazione e la
storia ha avuto grande visibilità. Al punto
che Margrethe Vestager, ministro dell’eco
nomia e dell’interno, ad aprile si è occupata
personalmente del caso, promettendo di
multare le imprese che non garantiranno la
sicurezza dei Cpr sui loro siti internet. “Il
governo ha completamente sbagliato ber
saglio”, si rammarica Lasse. “Invece di cor
reggere i problemi di sicurezza, ha deciso di
punire le imprese. La nostra generazione
sta sviluppando strumenti eicacissimi per
risolvere questi problemi di sicurezza. Ep
pure nessuno ci ascolta”.
Nille JuulSørensen è d’accordo. “Per
molto tempo la Danimarca si è illusa di po
ter avere una ‘sua’ Nokia, ma a una sola
grande impresa preferisco migliaia di gio
vani startup intelligenti e creative”. E in ef
fetti il direttore del Danish design center è
impegnato ad aiutare i progetti dei più gio
vani. Per l’anno scolastico appena comin
ciato l’accademia Data Viz fornirà agli stu
denti dei corsi di coding. “Tutti parlano il
linguaggio informatico, ma pochi lo sanno
scrivere e leggere. Per guidare l’innovazio
ne tecnologica dobbiamo conoscere le vi
scere dei computer”. Come dice una frase
ormai diventata celebre, if you can’t open it,
you don’t own it!, se non lo sai aprire, non lo
possiedi! u ad
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