A Zaatari, in Giordania, vivono centoventimila
siriani scappati dalla guerra. Il campo è stato
costruito solo un anno fa, ma è già diventato il
secondo più grande del mondo
S
ono le prime ore di un mattino
d’estate e viaggiamo in auto
nel deserto giordano, su una
strada deserta che porta al
conine con la Siria. Un cane
scheletrico si trascina sul ci-glio della strada. Un vecchio che vende me-loni e cafè, seduto su una cassetta di legno,
lo guarda. Ci sono più di trenta gradi e c’è
polvere dappertutto. Dopo pochi chilometri
appaiono i primi cartelli che segnalano i
varchi per la Siria. Di notte nei villaggi di
questa zona si sentono le esplosioni dell’ar-tiglieria siriana. Ogni tanto qualche colpo
cade anche in Giordania. Vicino alla strada
c’è un piccolo accampamento di beduini.
S’intravede una tenda su cui è stampata la
sigla dell’Alto commissariato delle Nazioni
Unite per i rifugiati (Acnur). Una tenda co-me questa, che costa circa cinquecento dol-lari, è venduta sul mercato nero a cento
dollari.
Arriviamo a Zaatari, un villaggio a dieci
chilometri dalla città di Mafraq. Fino a un
anno fa qui intorno non c’era molto: alcune
modeste moschee di mattoni, qualche
scuola, una base dell’aviazione giordana. A
Zaatari, mi spiega un operatore umanitario,
c’erano solo “sabbia, serpenti e scorpioni”.
Le rivolte in Siria, cominciate a Daraa, una
città a quaranta chilometri di distanza, han-no cambiato tutto. Il lusso di profughi dalla
Siria ha raggiunto un livello tale che la po-polazione di Mafraq è raddoppiata. La Gior-dania, che ha sei milioni di abitanti, molti
dei quali scappati dall’Iraq e dalla Palestina,
non era in grado di accogliere un numero
illimitato di persone. È stato necessario al-lestire un campo. Nell’estate del 2012 l’Alto
commissariato dell’Onu per i rifugiati, le
autorità giordane e varie organizzazioni
umanitarie internazionali hanno costruito
il campo profughi di Zaatari in due settima-ne. Una delle prime cose che hanno dovuto
fare è stato spargere la ghiaia per evitare le
tempeste di sabbia in estate e i iumi di fan-go causati dalle piogge invernali. Ma non ha
funzionato. Le tempeste di sabbia ci sono
state. E anche il fango. Serpenti e scorpioni
sono sempre lì.
La nostra auto si ferma all’ingresso del
campo. C’è un trambusto di soldati e poli-ziotti giordani, clacson che suonano, moto
scoppiettanti, bambini che spingono car-riole e vendono sigarette o verdura, e bam-bini ancora più piccoli alla ricerca di qualco-sa da fare. Di guardia all’ingresso c’è un
veicolo corazzato. Un soldato bussa al no-stro inestrino. Si sporge a controllare i do-cumenti e, dopo una lunga occhiata sospet-tosa, ci fa segno di passare.
Nel luglio del 2012 il campo di Zaatari
ospitava centinaia di siriani. Alla fine di
agosto del 2012 erano quindicimila. Oggi
sono centoventimila, concentrati sul lato
ovest del campo, un viale costeggiato da
botteghe fatiscenti, ambulatori improvvi-sati e scuole. Gli odori sono quelli di una
città: fogna, sudore, fumo di sigarette, ac-qua di colonia, carne che arrostisce sugli
spiedi. Siriani e cooperanti hanno sopran-nominato questo viale “gli Champs-Élysées”.
Dall’inizio delle rivolte il bilancio delle
vittime in Siria è di più di centomila morti.
A Zaatari la privazione è assoluta. Qui tutti
hanno perso il proprio paese, la casa, l’equi-librio. Alla maggior parte dei profughi, la
Nella città de
David Remnick, The New Yorker, Stati Uniti
Foto di Lynsey Addario
A Zaatari, in Giordania, vivono centoventimila
siriani scappati dalla guerra. Il campo è stato
costruito solo un anno fa, ma è già diventato il
secondo più grande del mondo
guerra ha portato via un familiare o un ami-co. Quello che resta è una specie di orgoglio
ostentato, una necessaria esibizione di for-za di volontà. “Questo posto è un cimitero
di cammelli”, mi dice Ahmed Bakar, che ha
circa trent’anni. “Qui non rie scono a vivere
nemmeno i cammelli. I siriani sì”.
In ogni tenda o roulotte si raccontano
storie di orrori vissuti in prima persona. Nel
distretto 8, lungo il conine est del campo,
vado a trovare Fatima, una contadina che
avrà tra i cinquanta e i sessant’anni. Preferi-sce che io non scriva il suo vero nome né
quello del suo villaggio. Se lo faccio, mi di-ce, non appena tornerà a casa l’esercito si-riano andrà a cercarla per ucciderla, insie-me a tutti quelli che lei conosce. Si solleva
l’hijab quel tanto che basta per mostrarmi i
capelli grigi. Mi dice che sarebbe terribile
“tradire” una donna della sua età: “Allora,
prometti?”.
Ci sediamo sul pavimento bollente del
suo caravan. Mi presenta le sue iglie. Iman,
dodici anni, le siede accanto. Ha perso buo-
na parte della gamba destra. La sorella
maggiore, Inas, venticinque anni, ha la
gamba sinistra ingessata ino al ginocchio.
L’hanno appena operata perché aveva ferite
da proiettile.
Durante il primo anno di guerra la fami-glia di Fatima ha continuato a fare la solita
vita. Lei, suo marito e i igli avevano una ca-setta in un villaggio e si occupavano dei loro
ulivi. Avevano cibo, elettricità, acqua cor-rente. Sono riusciti anche ad andare in pel-legrinaggio alla Mecca. “Facevamo una
bella vita”, racconta Fatima. I rapporti della
sua famiglia con la politica di Damasco e il
resto del mondo corrispondevano esatta-mente a ciò che ci si aspettava da loro: ave-vano giurato fedeltà ad Hafez al Assad, co-me gli era stato insegnato dalla tv e a scuola,
e dopo la morte dell’anziano presidente nel
2000, avevano riposto grandi speranze in
suo iglio Bashar. Quando nel 2006 Hezbol-lah ha attaccato Israele, la famiglia ha se-guito le indicazioni della tv siriana, schie-randosi con Hezbollah. Non avevano “nes-tro”. La donna ha cominciato a vagare per i
campi inché non ha trovato suo marito.
“Dove sono i bambini?”, le ha chiesto.
“Sono morti”, ha risposto Fatima.
La durezza inespressiva con cui Fatima
riporta queste parole dà l’impressione che
con quella notizia lo volesse punire, e che
ora, ricordandole, stia punendo se stessa. Il
marito di Fatima e una terza iglia vivono
ancora in Siria. Lui bada ai campi e alle pe-core. Fatima ha portato le figlie ferite in
Giordania per farle curare. Come gran par-te degli altri profughi, si è fatta aiutare dai
ribelli per superare il conine. Le bambine
sono state curate all’ospedale del campo,
che è gestito da marocchini e italiani. Fati-ma parla con suo marito tutti i giorni. Lui le
racconta che i bombardamenti sono diven-tati più intensi e la guerra più disperata. Ma
lei ha ancora intenzione di tornare: “Vivere
in una tenda in Siria è meglio che in una vil-la in Giordania”.
Nelle mani dei soldati
Una mattina trascorro un paio d’ore in un
avamposto militare gestito dal generale
Mohammed al Habashneh. Lungo il coni-ne le forze armate giordane, assistite
dall’occidente, hanno predisposto una rete
di telecamere con un raggio d’azione di cin-quanta chilometri per sorvegliare i movi-menti dei rifugiati. In un’accogliente caset-ta guardiamo una serie di schermi: piccoli
gruppi di siriani – soprattutto donne e bam-bini – avanzano in fretta verso la recinzione
sul conine. Ogni tanto l’esercito di Dama-sco spara e i soldati giordani guardano i si-riani morire. Possono intervenire solo dopo
che i profughi hanno attraversato il conine.
Chi ce la fa è accolto con un controllo
d’identità, succo di frutta, pane, coperte e
una visita medica. È un’esperienza scon-certante. “Quando vedono le divise, alcuni
si spaventano”, spiega il generale. “Il loro
esercito li sta uccidendo. Il nostro gli ofre
medicine, acqua e cibo”.
Spesso i siriani che arrivano portano no-tizie della guerra. Uno di loro racconta di un
gruppo di persone provenienti da Homs e
dirette in Giordania che si erano fermate
per la notte in una scuola abbandonata. Con
i cellulari avevano telefonato ai familiari in
Siria e in Giordania. Ma, attraverso le tele-fonate, l’esercito siriano è riuscito a indivi-duarli e ha bombardato la scuola.
Nel corso della sua storia la Siria ha ac-colto molti profughi: circassi, armeni, pale-stinesi, iracheni, somali. Ora sono i siriani a
essere costretti all’esilio. Da quando è co-minciata la guerra, più di quattro milioni di
persone hanno dovuto abbandonare le loro na parte della gamba destra. La sorella
maggiore, Inas, venticinque anni, ha la
gamba sinistra ingessata ino al ginocchio.
L’hanno appena operata perché aveva ferite
da proiettile.
Durante il primo anno di guerra la fami-glia di Fatima ha continuato a fare la solita
vita. Lei, suo marito e i igli avevano una ca-setta in un villaggio e si occupavano dei loro
ulivi. Avevano cibo, elettricità, acqua cor-rente. Sono riusciti anche ad andare in pel-legrinaggio alla Mecca. “Facevamo una
bella vita”, racconta Fatima. I rapporti della
sua famiglia con la politica di Damasco e il
resto del mondo corrispondevano esatta-mente a ciò che ci si aspettava da loro: ave-vano giurato fedeltà ad Hafez al Assad, co-me gli era stato insegnato dalla tv e a scuola,
e dopo la morte dell’anziano presidente nel
2000, avevano riposto grandi speranze in
suo iglio Bashar. Quando nel 2006 Hezbol-lah ha attaccato Israele, la famiglia ha se-guito le indicazioni della tv siriana, schie-randosi con Hezbollah. Non avevano “nes un motivo”, racconta Fatima, per pensare
che un giorno l’esercito avrebbe bombarda-to il loro villaggio o che Hezbollah, combat-tendo a ianco del regime, avrebbe attraver-sato il conine con il Libano, mettendo a
repentaglio le loro vite.
Nel maggio del 2013 sui loro campi e sul-le case del villaggio hanno cominciato a
piovere colpi di artiglieria. “Mio marito è
venuto a chiamarmi, dicendo di andare a
prendere i igli maschi e scappare”, raccon-ta Fatima. “Facevano la terza media e la
quarta elementare. Sono partiti di corsa, io
ho preso le loro scarpe e mi sono messa a
correre con loro. Mentre correvo, ho sentito
arrivare da dietro un razzo, che mi è passato
ischiando sopra la testa. Poi il razzo è atter-rato e mi è esploso davanti”.
Il razzo ha colpito i bambini e un vicino
di casa. Alzandosi, Fatima ha visto i corpi
ammassati. “Il nostro vicino era steso su
uno dei miei igli. Ho spostato il corpo e ho
visto delle schegge che spuntavano dalla
schiena di mio iglio. Poi ho visto anche l’al tro”. La donna ha cominciato a vagare per i
campi inché non ha trovato suo marito.
“Dove sono i bambini?”, le ha chiesto.
“Sono morti”, ha risposto Fatima.
La durezza inespressiva con cui Fatima
riporta queste parole dà l’impressione che
con quella notizia lo volesse punire, e che
ora, ricordandole, stia punendo se stessa. Il
marito di Fatima e una terza iglia vivono
ancora in Siria. Lui bada ai campi e alle pe-core. Fatima ha portato le figlie ferite in
Giordania per farle curare. Come gran par-te degli altri profughi, si è fatta aiutare dai
ribelli per superare il conine. Le bambine
sono state curate all’ospedale del campo,
che è gestito da marocchini e italiani. Fati-ma parla con suo marito tutti i giorni. Lui le
racconta che i bombardamenti sono diven-tati più intensi e la guerra più disperata. Ma
lei ha ancora intenzione di tornare: “Vivere
in una tenda in Siria è meglio che in una vil-la in Giordania”.
Nelle mani dei soldati
Una mattina trascorro un paio d’ore in un
avamposto militare gestito dal generale
Mohammed al Habashneh. Lungo il coni-ne le forze armate giordane, assistite
dall’occidente, hanno predisposto una rete
di telecamere con un raggio d’azione di cin-quanta chilometri per sorvegliare i movi-menti dei rifugiati. In un’accogliente caset-ta guardiamo una serie di schermi: piccoli
gruppi di siriani – soprattutto donne e bam-bini – avanzano in fretta verso la recinzione
sul conine. Ogni tanto l’esercito di Dama-sco spara e i soldati giordani guardano i si-riani morire. Possono intervenire solo dopo
che i profughi hanno attraversato il conine.
Chi ce la fa è accolto con un controllo
d’identità, succo di frutta, pane, coperte e
una visita medica. È un’esperienza scon-certante. “Quando vedono le divise, alcuni
si spaventano”, spiega il generale. “Il loro
esercito li sta uccidendo. Il nostro gli ofre
medicine, acqua e cibo”.
Spesso i siriani che arrivano portano no-tizie della guerra. Uno di loro racconta di un
gruppo di persone provenienti da Homs e
dirette in Giordania che si erano fermate
per la notte in una scuola abbandonata. Con
i cellulari avevano telefonato ai familiari in
Siria e in Giordania. Ma, attraverso le tele-fonate, l’esercito siriano è riuscito a indivi-duarli e ha bombardato la scuola.
Nel corso della sua storia la Siria ha ac-colto molti profughi: circassi, armeni, pale-stinesi, iracheni, somali. Ora sono i siriani a
essere costretti all’esilio. Da quando è co-minciata la guerra, più di quattro milioni di
persone hanno dovuto abbandonare le loro case e più di un milione e mezzo è fuggito
all’estero, soprattutto in Giordania, Libano,
Turchia e Iraq. Alcuni sono andati in Egitto
via mare. Qualcuno è riuscito a raggiungere
il golfo Persico, altri si sono spinti ino a Cu-ba e in Brasile. La Giordania ha ricevuto
gran parte di questi profughi. E molti fun-zionari giordani sono convinti che entro la
ine dell’anno il numero di siriani da acco-gliere raddoppierà. Si sta costruendo un
nuovo campo, Azraq, a est della città indu-striale di Zarqa, che dovrebbe poter ospita-re ino a centotrentamila persone.
Rami d’ulivo
Più del novanta per cento dei siriani di Zaa-tari è originario della città di Daraa, che ha
ottantamila abitanti, e della sua provincia,
che ne conta poco meno di un milione. Si
tratta di solito di gente di campagna, meno
istruita e più povera di chi vive nelle città
settentrionali, come Aleppo, e che tende a
scappare in Libano e in Turchia.
Un pomeriggio vado a visitare un campo
di transito sul conine siriano. Ci sono delle
roulotte, un piccolo posto di comando e al-cuni soldati giordani. L’uiciale di coman-do mi accompagna a fare un giro. Lancio un
sasso nella provincia di Daraa. I soldati por-tano i nuovi arrivati al campo di transito e li
lasciano riposare prima di trasferirli a Zaa-tari.
Salgo sulla roulotte dove dormono gli
uomini e i bambini. Dentro non ci sono mo-bili, solo un pavimento di linoleum su cui
siedono circa trenta persone. Hanno l’aria
frastornata, accaldata, eppure molti sem-brano aver indosso tutti gli abiti che possie-dono: camicie, maglioni, giacche. Il più
anziano si chiama Ahmed al Atma. È robu-sto, con la pelle cotta dal sole. Dice di avere
quarantott’anni. Abitava ad Al Sanamayn, a
nord di Daraa, sulla strada per Damasco.
“Facevo il tassista ma l’esercito ha bombar-dato la mia auto”, racconta. “Non mi resta-va che scappare”.
L’esercito siriano è entrato ad Al Sana-mayn più di due anni fa, con quindici carri
armati e centinaia di soldati. Il fratello mag-giore di Ahmed è morto nei combattimenti.
“Anch’io, come tutti gli altri, sono andato
alle manifestazioni agitando rami d’ulivo”,
dice. “Le prime cinque volte ci hanno per-messo di manifestare per la libertà. Nessu-no pronunciava il nome di Bashar al Assad.
Chiedevamo riforme e libertà”. Oggi non
c’è più nessuno, né da una parte né dall’al-tra, che brandisca ramoscelli di ulivo.
Un uomo più giovane, Misleh Awad, lo
interrompe. Lavorava al mercato di Daraa e
anche lui ha partecipato alle manifestazio-ni. Le forze dell’ordine, racconta, “mi han-no trascinato via dalla strada dicendo: ‘Vo-gliamo solo parlarti cinque minuti’”. Misleh
dice di essere stato chiuso in prigione: “Mi
hanno picchiato tutto il tempo. Mi hanno
appeso per i piedi e battuto con un manga-nello. Sono stato liberato un mese dopo l’ul-tima volta che ero stato torturato, in modo
che non si vedessero i segni”. Misleh si sol-leva le maniche e mi mostra le spalle e il
petto. Sembra che abbia delle cicatrici di
varicella. “Mi hanno versato addosso di tut-to”, racconta. “Non so perché mi abbiano
liberato. Secondo me si erano stancati di
picchiarmi”.
Per raggiungere a piedi il confine, da
Daraa ci vogliono un paio di giorni. A volte i
profughi arrivano con una sedia sulle spalle
su cui trasportano un’altra persona, un an-ziano o un disabile. Le sedie a rotelle non
scorrono facilmente sulla sabbia o nei disli-velli. Misleh abitava vicino al conine ed era
solo. Gli sono bastate quattro ore di cammi-no. La moglie e la iglia erano già fuggite
mentre lui si trovava in prigione, e lo aspet-tavano a Zaatari.
“Sua maestà è in viaggio”, dice un ad-detto stampa della corte hashemita di re
Abdullah II ibn al Hussein, il quarto della sua dinastia. Il sovrano è negli Stati Uniti,
come capita spesso, per incontrare il presi-dente Barack Obama, diplomatici, deputati
e senatori, spie e uomini d’afari, o anche
solo per una vacanza in motocicletta. Ab-dullah ama gli Stati Uniti, che in un certo
senso sono i suoi benefattori e allo stesso
tempo la sua seconda casa. Tra i servizi che
ha reso a Washington ci sono il tacito soste-gno alla seconda guerra del Golfo e gli in-terrogatori clandestini dei sospetti terroristi
catturati dalle forze armate statunitensi.
Poco prima che arrivassi in Giordania, il re
aveva ospitato la Eager lion, un’esercitazio-ne militare congiunta giordano-statuniten-se, che aveva lo scopo di inviare a Siria e
Iran un messaggio di forza e solidarietà tra
Washington e Amman. Alla ine dei dodici
giorni di esercitazione, gli Stati Uniti hanno
lasciato sul posto dei caccia F-16, batterie di
missili Patriot e centinaia di soldati.
Anche se re Abdullah fosse stato presen-te, la corte non sarebbe stata particolar-mente ansiosa di fargli incontrare la stampa
straniera. In un’intervista disastrosa con
Jefrey Goldberg dell’Atlantic, il re ha usato
toni sprezzanti per parlare dei Fratelli mu-sulmani (una “setta massonica”), dei lea der
tribali del paese (“vecchi dinosauri”), di
fratelli e cugini vari, e perino del suo servi-zio di sicurezza. L’unico leader della regio-ne che è sfuggito al suo disprezzo è stato
Benjamin Netanyahu.
Qualsiasi analisi lucida porterebbe alla
conclusione che Abdullah – re hashemita in
un paese in larga parte palestinese, sovrano
debole in un periodo di grandi rivolte popo-lari – è in una posizione precaria. In Giorda-nia il costo della vita e il tasso di disoccupa-zione sono alti, la corruzione difusa. Il pae-se afronta problemi di conine non solo con
la Siria, ma anche con la provincia di Anbar,
sul confine iracheno, per non parlare
dell’ostilità dell’Iran e di Al Qaeda, che ha
sempre considerato Abdullah un nemico.
Le monarchie del Golfo sono riuscite a
placare le rivolte distribuendo denaro tra i
loro sudditi. Ma Abdullah non ha soldi. In
Giordania non c’è petrolio e il gas è scarso.
In tutto il mondo, solo altri tre paesi hanno
meno acqua. L’alusso di siriani ha aggra-vato le tensioni economiche e politiche. I
nuovi arrivati, disposti a lavorare per poco o
nulla, si stanno accaparrando i mestieri più
umili. Un anno fa la maggioranza dei gior-dani era favorevole ad accoglierli. Ora non
lo è più.
Molti temono inoltre che la guerra in Si-ria abbia aperto un nuovo terreno d’azione
per i jihadisti radicali. Alcuni tra i principali
consiglieri del sovrano mi hanno conidato
di temere che nel paese esistano “cellule
dormienti” e che i terroristi possano pene-trare in Giordania attraverso i suoi conini
porosi e i campi come quello di Zaatari. I
ministri del re sono preoccupati dei possibi-li esiti della guerra in Siria. In uno degli sce-nari, Assad rimane al potere, raforzando il
suo inanziatore, l’Iran, e il suo cliente, Hez-bollah. In un altro, la Siria inisce per frantu-marsi in un caos di violenze settarie che
potrebbero difondersi oltre conine. Come
l’amministrazione statunitense, anche la
leadership giordana si aggrappa all’esile
speranza di una soluzione diplomatica.
Quando sono scoppiate le manifestazio-ni contro la monarchia nelle città di Am-man, Irbid, Salt e Maan, Abdullah ha lan-ciato una serie di iniziative per venire in-contro alle richieste della popolazione. Ha
ordinato l’arresto di Omar Maani, ex sinda-co di Amman accusato di corruzione. Ha
fatto imprigionare l’ex direttore dei servizi
segreti, Mohammad Dahabi, che è stato
condannato in seguito per riciclaggio di de-naro. Ha sciolto il parlamento e indetto
nuove elezioni. Il re l’ha deinita la sua “ri-voluzione bianca”: una transizione gradua-le e a guida tecnocratica verso un parlamen-to più forte e una monarchia costituzionale,
con minori poteri per il sovrano.
“Abbiamo superato la primavera araba
quasi senza spargimenti di sangue”, osser-va un alto funzionario giordano, aggiun-gendo che “non si può ignorare il cambia-mento di paradigma nella regione. Non è
più possibile governare dall’alto verso il
basso. Bisogna creare consenso”.
Non tutti i siriani provenienti da Daraa
sono profughi. Ad Amman incontro Na-begh Srour, un giovane scaltro e intelligente
che per un po’ ha studiato letteratura ingle-se all’università di Damasco. Oggi trasporta
rifornimenti oltre il confine per conto
dell’Esercito siriano libero.
Srour è stato arrestato nel 2006. “Ho
mandato un sms a un amico, che però l’ha
inoltrato a un’altra persona, e questa perso-na mi ha denunciato. Il messaggio diceva
‘Bashar, iglio di puttana! Vafanculo a te e
al tuo paese’”. I suoi torturatori continuava-no a ripetergli: “Bashar è il tuo Dio”. È stato
rilasciato dopo quattro mesi.
Fino a due anni fa lavorava come tradut-tore a Dubai, ma ha deciso di tornare in Si-ria per unirsi alla resistenza. Ai ribelli pro-cura medicine provenienti dall’Arabia Sau-dita, telefoni satellitari, walkie-talkie e cibo.
A giugno, racconta, ha passato due settima-ne nella zona di Daraa, mentre la città era
bombardata. C’erano cecchini dappertutto.
“La paura della morte non la senti nemme-no più”, dice. “Diventa normale”.
L’odio di Srour per Assad è pari solo alla
sua sensazione che il mondo intero stia in-giustamente ignorando i ribelli. “I paesi
occidentali ci stanno tradendo”, dice. “Se
volessero abbattere il regime, gli bastereb-bero dieci giorni. Noi non abbiamo niente.
Ci fanno promesse, ma sono promesse vuo-te. Vogliono che lo scontro continui e la Siria
vada in rovina”.
Dico a Srour che l’occidente, e in parti-colare gli Stati Uniti, diicilmente invade-ranno la Siria, che l’amministrazione Oba-ma considera l’opposizione troppo fram-mentata e troppo dipendente da gruppi co-me il Fronte al nusra, ailiato ad Al Qaeda.
Srour, come tanti altri, non è d’accordo. È
vero, osserva, l’opposizione è divisa ma solo
perché non ha ricevuto sostegno dall’este-ro. Srour è disposto ad ammettere, però,
che i resoconti e i video dei massacri com-messi dall’opposizione “non hanno aiuta-to”.
Stiamo cenando nella veranda di un al-bergo del centro di Amman. Seduto di ian-co a me c’è un giovane e silenzioso collega
di Srour, che mi guarda sospettoso. Quando
il discorso si sposta sulle caratteristiche
dell’opposizione e sul Fronte al nusra, scrol-la le spalle e mi passa il suo iPhone. Sul di-splay si vede la foto di un bambino che avrà
due o tre anni al massimo, gravemente feri-to, probabilmente morto. Lui, sulla Siria,
non ha bisogno di sapere altro. A quel punto
Srour, il contrabbandiere, il traduttore, lo
studente di letteratura inglese, si alza e di-ce: “Chiediamo alla comunità internazio-nale di invadere la Siria. Parlo a nome del
milione di abitanti della provincia di Da-raa”.
Città della dipendenza
I campi profughi nascono nell’emergenza e
diventano città segnate dalla dipendenza,
dalla burocrazia e da una soferenza immu-tabile. Servono a mettere in salvo esseri
umani e poi li immagazzinano. Sollevano il
paese ospitante dagli oneri economici e li
distribuiscono tra gli stati che fanno parte
delle Nazioni Unite. Dadaab, in Kenya, è il
campo profughi più grande del mondo,
l’unico più esteso di Zaatari. È stato costru-ito per circa novantamila persone, e ora ne ospita quasi mezzo milione. Dadaab esiste
da così tanto tempo che i “nipoti di Dada-ab” – i igli dei bambini nati nel campo – so-no già diecimila.
Ovviamente i “nipoti di Zaatari” ancora
non esistono ma nel campo sono nati due-mila bambini, e ogni settimana ne arrivano
almeno altri settanta. Zaatari è oggi il quar-to centro più popoloso della Giordania. La
sua espansione e riorganizzazione sembra-no non avere mai ine. Dopo una prima fase
di costruzione, sono arrivati gli ospedali e i
centri di distribuzione alimentare, le fogna-ture, i serbatoi per l’acqua, l’elettricità, le
scuole, i prefabbricati delle cucine comuni,
i bagni e le docce, i trasporti pubblici, i posti
di polizia e di vigilanza. Nella parte occi-dentale del campo, lungo gli Champs-Élysées, sono spuntati dei chioschi che ven-dono shawarma, pollo e pizza. Bar e sale da
tè, negozi di elettrodomestici dove si può
comprare un ventilatore, un televisore a
schermo piatto, un condizionatore. Un sa-lone di bellezza dove ci si può far sfoltire le
sopracciglia o tagliare e tingere i capelli. Il
negozio di articoli da sposa di Abu Moham-mad, dove si può aittare un abito nuziale e
una “limousine” per il ricevimento. A volte
i guadagni restano nelle tasche dei rifugiati.
In altri casi sono usati per inanziare i ribelli.
L’impegno sanitario che grava sul campo è
incalcolabile: amputazioni, tubercolosi,
febbre tifoidea, epatite, malnutrizione e
diarrea. Spesso i rifugiati necessitano di cu-re mediche serie. “Di solito non mi faccio
soprafare dalle emozioni”, spiega Domi-nique Hyde, che lavora a Zaa tari per l’Uni-cef. L’anno scorso, però, ha conosciuto una
coppia con tre igli. Erano di Homs e la loro
casa era stata bombardata. “La madre ave-va appena partorito e due dei igli erano si-gurati, così come le braccia del padre, che
aveva cercato di salvarli dal fuoco. Le vite di
quei bambini sono segnate per sempre. La
madre non vuole che si avvicinino agli spec-chi ”.
L’Unicef e altre organizzazioni umani-tarie hanno allestito delle scuole, ma solo
un sesto delle decine di migliaia di bambini
del campo le frequenta. A volte i genitori
vogliono che i igli vadano a lavorare. Altri
credono che il certiicato scolastico rilascia-to nel campo non abbia valore una volta che
saranno tornati in Siria. “A un bambino di
otto anni ho chiesto come mai aveva smes-so di andare a scuola”, racconta Hyde. “Mi
ha risposto che l’ultima cosa che ricordava
della scuola era il momento in cui un grup-po di uomini armati era entrato in aula e
aveva sparato agli insegnanti”.
A preoccupare Hyde e altri operatori
umani sono le giovani donne del campo
profughi: molte sono vedove o sono separa-te dai mariti rimasti in Siria per combattere.
Si sentono vulnerabili e spesso vivono na-scoste. Incontro una vedova diciannovenne
di nome Heba Faouri. Ha una iglia di cin-que anni. “Vivo a Zaatari perché ho bisogno
di sentirmi al sicuro”, dice Faouri. “Nessu-no s’interessa a una persona come me. Vivo
in una tenda e mia iglia non ha nemmeno
dei vestiti da mettersi”. Nel calore spietato
del deserto, Faouri indossa il velo e un so-prabito nero che le arriva alle caviglie. Si
sente parlare di molestie, stupri e prostitu-zione. Alcuni genitori delle bambine che
vivono a Zaatari, ansiosi di mandar via le
figlie dal campo, vendono ragazzine di
quattordici o quindici anni a uomini in cer-ca di moglie. Poco importa che questo tipo
di matrimoni sia illegale in Giordania. Ci
sono uomini giordani e del golfo Persico
che si presentano al campo profughi con
migliaia di dollari per trovare una moglie
giovane. “Spesso c’è una grossa diferenza
d’età”, spiega Hyde. “In Siria può capitare
che una sedicenne sposi un diciottenne, ma
qui vedi uomini di 69 anni che sposano ra-gazzine di sedici”.
Nei primi mesi di guerra i siriani aveva- no grandi speranze. I ribelli dell’Esercito
siriano libero sembravano in vantaggio. Nel
mondo c’erano leader che deinivano inevi
tabile la caduta di Assad. Dopodiché i rifu
giati sarebbero potuti tornare a casa. Ma
nella primavera del 2013, anche se le forze
estremiste islamiche come il Fronte al nu
sra, che stanno prendendo il sopravvento
sui ribelli laici, erano armate e inanziate
dal Qatar e dall’Arabia Saudita, Assad è riu
scito a ottenere un maggiore impegno mili
tare da parte di Iran, Hezbollah e Russia. I
servizi segreti e i Guardiani della rivoluzio
ne iraniani hanno aiutato Damasco a guida
re la controinsurrezione. Hezbollah ha otte
nuto una vittoria importante contro i ribelli
nella cittadina di Al Qusayr. La Russia e la
Cina hanno ostacolato ogni iniziativa diplo
matica occidentale contro la Siria. E Assad
si è risollevato.
Protesta per le roulotte
Le notizie che arrivano dalla Siria e la logo
rante vita nel campo alimentano un senso
di frustrazione e di disperazione che si tra
duce a volte in una reazione di rabbia contro
gli amministratori di Zaatari. Quando in
primavera quattro fratellini sono morti in
un incendio – causato da una candela che si
era rovesciata – duecento siriani hanno ma
nifestato contro l’amministrazione del
campo. A volte si ha l’impressione che a
frapporsi tra l’ordine e il caos ci sia solo un
robusto tedesco di 51 anni, Kilian Tobias
Kleinschmidt, che ha rinunciato a una vita
da manovale girovago per andare a lavorare
nei campi profughi.
Quando lo incontro, Kleinschmidt sta
uscendo dalla sua roulotte e sorride. “Sia
mo letteralmente nella merda”, mi dice
tendendomi la mano. È l’emergenza del
giorno: a causa di una disputa tra appaltato
ri, solo il 10 per cento degli scarichi fognari
viene portato fuori dal campo. I segni dello
straripamento sono dappertutto. “È un mo
mento critico”, prosegue Kleinschmidt. Ma
alle crisi lui è abituato.
Qualche giorno prima del mio arrivo un
centinaio di persone ha bloccato il cancello
che porta ai suoi uici e ci si è accampato
davanti: “Vogliamo le roulotte!”. Una ri
chiesta comprensibile: le roulotte sono più
sicure e comode delle tende, specialmente
in inverno, quando di notte le temperature
possono scendere in quasi allo zero. Uno
dei manifestanti gli ha portato un omaggio
– un bicchiere pieno di scorpioni – per fargli
vedere a cosa erano esposti i loro igli.
La maggior parte dei campi profughi na
sce da un enorme alusso di persone che si
veriica tutto in una volta. Costruendo un
campo, si crea una parvenza di stabilità. A
Zaatari l’alusso e il delusso di persone av
vengono in modo tumultuoso, imprevedi
bile. “Ecco perché è tutto così complicato”,
spiega Kleinschmidt. “Un sacco di gente
esce e un sacco di gente entra, creando
un’atmosfera estremamente tesa, che si nu
tre in continuazione di nuovi racconti di
torture e stupri, di villaggi distrutti. Questo
lo mantiene vivo, fresco. Ogni giorno suc
cede qualcosa. Ci sono ino a diecimila per
sone che tornano in Siria ogni mese. Spesso
sono persone legate all’Esercito siriano li
bero, famiglie che tornano a prendere i gio
vani che hanno lasciato laggiù”.
Gli abitanti del campo sono costante
mente in contatto con chi è rimasto in Siria.
Di sera salgono sul tetto delle roulotte e
mandano messaggi via Skype. Ma a creare
tensione nel campo non è solo la presenza
vivida della tragedia, delle notizie e dei di
scorsi dei militari. La gente sospetta che a
Zaatari ci siano spie inviate dagli uomini di
Assad.
Kleinschmidt, come tanti altri uomini e
donne che lavorano nel suo settore, si trova
sempre di fronte a morte e soferenze. Pri
ma andava da uno psicologo militare, ma di
solito cerca di tenere a bada le emozioni oc
cupando la mente con cose nuove da fare,
nuovi problemi da risolvere. “Se mi fermo a
pensare ai traumi, ai racconti, comincio a
piangere e non lavoro più”, dice. “Invece
lascio fuori tutto quanto, mi costruisco in
torno una gabbia. Solo che ogni tanto ho
bisogno di ricordare a me stesso perché lo
sto facendo. Altrimenti si inisce per tratta
re le persone come merci in un magazzi
no”.
Kleinschmidt è un tecnico dell’espro
priazione, non uno psicologo. Costruisce e
amministra città per la gente perduta. Mi
porta vicino a un tavolo su cui è stesa una
mappa del campo. Accanto alla mappa c’è
una scatola da scarpe piena di giocattoli:
camioncini, case, ambulanze, auto della
polizia, tende, un distributore di benzina,
un commissariato di polizia. I giocattoli gli
servono per visualizzare le risorse di cui di
spone e quelle che sta cercando di ottenere
a mano a mano che il campo si espande.
Kleinschmidt comincia analizzando le
condizioni dei siriani, il loro particolare sta
to d’animo, fatto di ansia e ingratitudine
collettiva. “Hai a che fare con centoventi
cinquemila persone con ferite ancora fre
sche. Ferite isiche e mentali. Sono arrab
biate con la comunità internazionale perché
non dà risposte né sul piano militare né su
quello politico. Sostengono che gli è dovu
to. Secondo loro gli operatori umanitari so
no troppo poco rispetto a quello che spette
rebbe loro di diritto. Sanno che i missili
cruise o l’imposizione di una no-ly zone co
sterebbero molto più di un campo profughi,
e si sentono profondamente frustrati”.
Pur con tutta la sua empatia, Klein
schmidt ha un atteggiamento molto pratico
nei confronti dei ribelli di Daraa. “Sono sta
ti loro a scagliare la prima pietra. Ma le fa
miglie dei rivoluzionari spesso sono legate
anche agli afari, in una sorta di legame per
verso tra ribelli e banditi... L’Esercito siria
no libero ha legami con maiosi e traicanti.
È lì che le cose si complicano. Perché usano
la frustrazione delle persone per alimentare
i disordini”.
I siriani di Zaatari sono “gente di coni
ne”, afferma Kleinschmidt. Molti sono
commercianti, contrabbandieri, abituati a
fare avanti e indietro tra Giordania, Siria,
Turchia e Libano. In poco tempo si è reso
conto che i contrabbandieri, una volta arri
vati al campo, non smettono afatto di lavo
rare. “Alcune strutture di Daraa, come per
esempio i bordelli, si sono semplicemente
spostate qui”, dice. “Dentro al campo pro
fughi esiste un mercato nero per ogni cosa.
Gabinetti, cibo, dispositivi elettronici, dro
ga, abiti nuziali”. E naturalmente esistono
dei boss, che da ogni attività ricavano una
percentuale.
“Ci sono energie negative e atti di van
dalismo diretti contro le strutture comuni,
come docce e cucine”, spiega Kleinsch
midt. “Alla gente le cose in comune non
piacciono. Il bagno non lo vogliono dividere
con gli altri. Allora rubano tutto. Sono
scomparsi interi ediici: la cucina 77 è stata
costruita dai tedeschi con dei blocchi di ce
mento. L’idea era che i profughi potessero
andare lì a cucinare e poi portare i pasti a
casa. Ma è stata rubata ed è rimasto solo il
pavimento. La cucina era stata pagata
dall’Acnur e abbiamo dovuto ricorrere alle
immagini satellitari per dimostrare che era
esistita. C’è gente che ha trasformato le cu
cine in abitazioni private. Quattordici pre
fabbricati sono stati spogliati ino alle fon
damenta”.
Esiste anche una maia dell’elettricità,
che paga settanta dollari a una persona per
ché salga su una scala e si attacchi alla rete che alimenta l’illuminazione stradale del
campo, per poi rivendere l’elettricità ai ne-gozianti. Il problema è che così facendo i
trasformatori si sovraccaricano e salta l’in-tera rete. Un’altra maia vende le postazioni
migliori sugli Champs-Élysées ai futuri ne-gozianti per cifre che arrivano ino a duemi-la dollari. Nel campo vivono sessantacin-quemila minorenni, la maggior parte dei
quali non va a scuola e rappresenta un enor-me bacino di manodopera per i vari racket.
Destinati a restare
Kleinschmidt si è impegnato a fare la cono-scenza con tutti i boss del campo. Non per
punirli, ma per collaborare con loro, trovare
un compromesso. Di recente si è messo in
contatto con Mohammed al Hariri, un ex
comandante dell’Esercito siriano libero.
Stando a un reportage dello Spiegel, Hariri
è specializzato in mine e sostiene di aver
ucciso più di settanta uomini in battaglia.
Stanco di combattere, è venuto a vivere a
Zaatari dove è diventato una specie di boss,
e gestisce traici illegali, estorce favori e li
restituisce. Sostiene di controllare venti
strade nel campo e ama farsi chiamare
Aqid, “colonnello”. È riuscito, non si sa co-me, a ottenere tre roulotte per sé e attinge
alla fornitura elettrica dell’ospedale italia-no vicina alla sua piazzola.
L’incontro tra Hariri e Kleinschmidt si è
aperto con una tirata di mezz’ora sulle con-dizioni di vita nel campo. Kleinschmidt ha
ascoltato, ma senza mostrarsi debole. “In
questa parte del mondo devi essere un vero
macho”, spiega. “In Asia è meglio mostrarsi
umili. In Somalia prima si urla e poi ci si ab-braccia. Qui devi dimostrare di essere un
uomo vero, che sa lottare e non se la fa ad-dosso. Mi ha fatto tutto il suo discorso e ha
concluso dicendo: ‘Tu sei un brav’uomo!
Perché soltanto uno che non ha paura gire-rebbe di notte nel campo, come fai tu’.
Qualcun altro ha detto: ‘Quando ti abbiamo
visto, ci siamo chiesti se dovevamo rapirti.
E abbiamo deciso di no’”. Aiutato da un uf-iciale della polizia giordana responsabile
della sicurezza del campo, Kleinschmidt
sta cercando di convincere uomini come
Hariri a collaborare. In un campo enorme,
con tanta soferenza e risentimento, mal-contento e angoscia, nessuno vuole altri
guai.
Le organizzazioni umanitarie presenti a
Zaatari hanno fatto un buon lavoro per for-nire riparo, cibo e acqua (trentaquattro litri
al giorno a persona). Eppure i siriani sono
scoraggiati. “Le persone cominciano a con-siderare questo posto come casa. È un cam-biamento enorme”, spiega Kleinschmidt.
“Sono meno arroganti. Prima pensavano:
‘Tra poco Assad non ci sarà più. Cosa ci par-lo a fare, con te, che sei solo uno con la rou-lotte con l’aria condizionata e fa un sacco di
soldi? Noi torneremo a casa’. Ma tutto que-sto è cambiato con l’entrata in scena di Hez-bollah. Si rendono conto che Assad non se
ne andrà e accettano quello che prima riiu-tavano. Accettano me. Accettano la realtà,
cioè che dovranno rimanere qui per un
p o’”.
Un pomeriggio, mentre cammino sugli
Champs-Élysées, un bambino di otto anni
mi segue. Si chiama Ahmed Bashir, è origi-nario di un villaggio nella provincia di Da-raa e si vanta di come un giorno “spaccherà
la testa” ad Assad. Fa lo sbrufone, canta, è
un fascio di nervi. A un certo punto si fer-ma, comincia a tirarmi per un polso e con
tono tranquillo mi dice: “Sai, mia madre è
morta. Le hanno sparato in testa”. Vorreb-be tornare, ma casa sua sembra molto lon-tana. u mc
L’AUTORE
David Remnick è il direttore del New
Yorker dal 1998. Il suo ultimo libro uscito in
Italia è We are alive. Ritratto di Bruce
Springsteen (Feltrinelli 2013)
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