venerdì 11 ottobre 2013

Piangere, rilettere e agire - Michel Agier, Le Monde, Francia - Superata l’emozione, bisogna pensare a come si può garantire a tutti il diritto a muoversi liberamente

icuramente c’è da commuoversi.
Per i 302 morti e per le decine di
dispersi, bilancio parziale del nau-fragio  nel  mar  Mediterraneo  di
un’imbarcazione su cui centinaia di mi-granti  provenienti  dall’Africa  orientale,
soprattutto  somali  ed  eritrei,  hanno  ri-schiato la vita pagando un prezzo altissimo
a uno scaista. Il papa s’indigna, la sindaca
di Lampedusa in lacrime dice che questa
tragedia deve tradursi in immagini ain-ché possa esistere, il governo italiano pro-clama una giornata di lutto nazionale.
Il tempo dell’emozione se lo meritano
tutti quelli che sono morti nel Mediterra-neo negli ultimi anni, spesso senza sepol-tura né funerali, quasi ventimila persone
negli ultimi vent’anni. E se lo meritano an-che i sopravvissuti, che hanno afrontato
non solo l’orrore della traversata, ma an-che le terribili condizioni di clandestinità
alle quali i governi europei hanno deciso di
condannarli.
È infatti lo stato che “crea” i clandestini
(uno stato che può decidere, in un altro
contesto, di “regolarizzarli”). C’è da chie-dersi  quanta  emozione  sarà  necessaria
perché si smetta di commuoversi e si co-minci a rilettere sui sistemi repressivi che
dalla ine degli anni novanta l’Europa ha
adottato contro i migranti per selezionarli
– escludendo gli indesiderabili (provenien-ti soprattutto dai paesi “del sud”) – per re-spingerli con violenza o per mantenerli in
uno stato di irregolarità che favorisce lo
sfruttamento del loro lavoro.
Bisogna riconoscere che spesso la con-sapevolezza dell’ampiezza dei danni uma-ni di questa “guerra” del nuovo secolo arri-va in ritardo. Questa guerra passa per la
costruzione di muri che chiudono territori
e passa per il controllo dei lussi migratori.
Perciò dovremmo includere nell’emozio ne per il dramma del 3 ottobre 2013 tutti
quelli che sono morti a ridosso del “muro”
Mediterraneo tra il febbraio e il giugno del
2011,  nei  primi  mesi  delle  rivolte  arabe
(1.500 morti secondo l’Alto commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati).
Etichette sbagliate
La caccia allo straniero è terribile. Quei
corpi senza nome sul fondo del mare devo-no essere ritrovati, riportati a galla “per ri-mandarli alle loro famiglie”, come chiedo-no i soccorritori, perché loro, i più vicini
alla materialità di quei corpi, sanno che
ognuno è unico, uomo o donna, giovane o
bambino, e che nessuno è riducibile all’eti-chetta che gli è stata aibbiata. Né “immi-grati” (perché non sono mai arrivati) né
“rifugiati” (non hanno avuto la possibilità
di fare richiesta di asilo) né “clandestini”
(la  legge  non  ha  deliberato  circa  la  loro
condizione), sono morti nella migrazione, durante lo spostamento. È dunque proprio
questa mobilità, tanto cara e valorizzata
come  segno  di  un  mondo  cosmopolita,
moderno e luido quando si tratta delle vite
degli occidentali, il vero bersaglio delle po-lizie e dei governi. E la mobilità è ancora la
questione  centrale,  associata  a  quella
dell’uguaglianza, quando ci interroghiamo
sulla formazione e la condivisione di un
“mondo comune” su scala mondiale.
Comprendere, dunque, concedendosi
del tempo. Le politiche pubbliche che ser-vono a scoraggiare le migrazioni sono state
coordinate  a  livello  europeo  a  partire
dall’inizio degli anni duemila. La Francia,
il Regno Unito, la Germania e l’Italia, con
la  collaborazione  fino  a  quel  momento
dell’Acnur, hanno cominciato a elaborare
leggi  che  limitano  l’esercizio  del  diritto
d’asilo – ino quasi ad annullarlo in alcuni
paesi – e che raforzano il controllo delle
migrazioni e delle frontiere (con la creazio-ne dell’agenzia di polizia europea Frontex
nel 2005).
Oltre alle misure amministrative e alla
costruzione di muri e barriere che impedi-scono il passaggio, i governi europei hanno
sviluppato una propaganda contro gli stra-nieri. La Francia non fa eccezione e l’in-venzione permanente di uno “straniero”
astratto, fantomatico e respingente – chia-mato, a seconda dei casi, africano, afgano
o rom – ha contribuito a difondere dall’alto
verso il basso la xenofobia come ideologi di stato, “governativamente corretta”. Le
élite politiche hanno una responsabilità
importante quando indicano lo straniero
come il colpevole della crisi economica o
come una minaccia per la nazione.
I morti di Lampedusa potevano essere
evitati. Sono infatti il risultato della propa-ganda dei governi europei contro lo stra-niero. Che ha come efetto, da un lato, la
criminalizzazione della migrazione e dei
migranti e, dall’altro, quello di incentivare
un’economia della clandestinità, che spin-ge  tra  le  braccia  dei  trafficanti  di  esseri
umani quelle persone per cui spostarsi è
ancora una necessità vitale.
L’ostilità dei governi europei è solo una
parte dell’esperienza della mobilità inter-nazionale di questi ultimi mesi. Le poche
decine di siriani che chiedono di essere ac-colti in Francia ricevendo in risposta solo
la repressione della polizia e che manife-stano per chiedere di essere mandati nel
Regno  Unito,  non  sono  esattamente  un
esempio di “invasione” di migranti. Invece
i paesi coninanti con la Siria hanno dato
prova  di  una  solidarietà  senza  paragoni
verso i profughi siriani: il Libano ne acco-glie quasi un milione (e il Libano ha quattro
milioni di abitanti) e la Giordania ne acco-glie mezzo milione. Una solidarietà dimo-strata anche dalla Tunisia, nel 2011, quan-do ha accolto i migranti provenienti dalla
Libia, tra cui molti provenienti dall’Africa
subsahariana. Ancora oggi i somali si diri-gono soprattutto nei paesi limitroi, come
il Kenya. Sono 450mila i somali che vivono
nel campo profughi di Dadaab, nel nordest
keniano.
Un problema di polizia
Ora  bisogna  agire  rapidamente.  Quello
che succede nel sud del Mediterraneo, in
Libia, in Medio Oriente, in Egitto, potreb-be ofrire l’occasione per manifestare soli-darietà internazionale. È possibile compie-re rapidamente dei gesti che non rimette-rebbero in discussione gli equilibri demo-graici ed economici e ofrirebbero all’Eu-ropa un posto importante nella grande re-gione che la lega storicamente al Mediter-raneo, al Medio Oriente e all’Africa.
In Francia, per esempio, la questione
degli stranieri, dei rifugiati e dei migranti è
trattata come un problema di polizia, e a
confermarlo c’è la creazione, il 2 ottobre, di
una direzione generale degli stranieri nel
ministero dell’interno guidato da Manuel
Valls. Trasferire questa direzione al mini-stero degli esteri segnerebbe un maggiore
impegno a favore di un cambiamento di
sguardo, a favore di una prospettiva politi-ca orientata al riconoscimento e alla soli-darietà. Mettere in funzione rapidamente
delle vie legali per l’immigrazione consen-tirebbe di ridurre il peso della clandestinità
e i rischi correlati.
Si potrebbe partecipare attivamente al
programma  dell’Alto  commissariato
dell’Onu per i rifugiati che ha come obiet-tivo il reinsediamento dei rifugiati siriani
in Medio Oriente, e di quelli provenienti
dall’Africa subsahariana in Libia o nel Ma-ghreb. O, per esempio, si potrebbero met-tere in atto disposizioni di legge già esi-stenti a livello europeo, come lo statuto di
“protezione temporanea” (direttiva euro-pea del 2001) o di “protezione sussidiaria”
(direttiva europea del 2004).
Pur senza risolvere la questione centra-le del diritto all’uguaglianza nella mobilità,
queste misure sarebbero un segnale di ci-viltà. Un segnale del fatto che non è indi-spensabile rischiare la vita per sperare di
salvarsi. Segnerebbero l’inizio di un’altra
politica delle migrazioni. u gim
Michel Agier è un antropologo francese
che ha studiato le migrazioni e i nuovi
insediamenti urbani. Insegna all’École des
hautes études en sciences sociales di Parigi.

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