venerdì 11 ottobre 2013

Accordo a porte chiuse con gli assassini Un giornalista di El Faro racconta come ha scoperto che il governo salvadoregno di Mauricio Funes trattava con le gang. Il presidente ha smentito e ora la tregua rischia di saltare Óscar Martínez, The New York Times, Stati Uniti

egli ultimi due anni il presiden-te di El Salvador, Mauricio Fu-nes,  ha  contribuito  a  salvare
più di duemila vite umane. Ma
non si decide ad ammetterlo. Il 2011 è stato
uno degli anni più sanguinosi nella storia
del paese dalla ine della guerra civile nel
1992. Ci sono stati 4.371 omicidi, pari a un-dici vittime al giorno. Il paese centroame-ricano, con settanta omicidi ogni centomi-la abitanti, è uno dei più violenti del mon-do. Applicando lo stesso tasso di omicidi
alla città di New York si avrebbero seimila
morti all’anno.
La causa dello spargimento di sangue
non è un segreto: la guerra tra le gang rivali
Barrio 18 e Mara Salvatrucha. Le due ban-de sono responsabili anche di un numero
imprecisato di omicidi in Guatemala e in
Honduras. Tutte e due, però, vengono dal-la California meridionale. Barrio 18 è nata
negli anni cinquanta da una costola della
gang chicana chiamata Clanton 14, mentre
la Mara Salvatrucha è stata formata alla i-ne degli anni settanta da salvadoregni e
honduregni. Nessuno sa bene a cosa sia
dovuto l’odio tra le due bande, sfociato alla
ine degli anni ottanta in una sanguinosa
guerra sulle strade della California meri-dionale.
Pochi in America Centrale erano al cor-rente dell’esistenza di questa faida ino agli
anni ottanta e novanta, quando il governo
degli Stati Uniti ha cominciato a rimpatria-re gli ailiati delle gang. Alcuni stavano
scontando la pena in carcere e hanno ac-cettato in modo volontario il trasferimento
in cambio di uno sconto di pena. Altri era-no giovani schedati dalla polizia. Non c’è
stato nessun piano di emergenza: i membri
delle gang sono stati rimpatriati nei loro
paesi martoriati dalle guerre civili e si sono
rimessi in afari, sfruttando la povertà e le
avversità tipiche di quei luoghi. Oggi, se-condo il presidente Mauricio Funes, in El
Salvador ci sono circa sessantamila mare-ros su poco più di sei milioni di abitanti.
Nel corso degli anni le gang sono diven-tate più soisticate. L’immobilismo del go-verno ha permesso agli ailiati di prendere
il controllo delle carceri e di trasformarle
in sedi operative dalle quali ordinano omi-cidi ed estorsioni. Da un po’ di tempo han-no ricominciato ad avere delle cellule an-che negli Stati Uniti. Quello che Washing-ton ha sputato in aria gli è ricaduto in te-sta.
Buchi
L’apice della violenza nel Salvador è stato
raggiunto a febbraio del 2012, quando la
media degli omicidi è diventata di tredici
vittime al giorno. Sembrava che non ci fos-sero più speranze di fermare la violenza. Il
governo ha insistito per la linea dura e la
tolleranza  zero,  affidandosi  alle  forze
dell’ordine e aggravando la situazione. I
cittadini si erano ormai abituati a vivere
secondo il codice dell’omertà.
Accordo a porte chiuse
con gli assassini
Un giornalista di El Faro
racconta come ha scoperto che il
governo salvadoregno di
Mauricio Funes trattava con le
gang. Il presidente ha smentito e
ora la tregua rischia di saltare
Óscar Martínez, The New York Times, Stati Uniti
Poi è successo qualcosa di misterioso.
All’inizio del marzo 2012 gli omicidi hanno
cominciato a diminuire, attestandosi a cin-que vittime al giorno. Il tasso di omicidi in
El Salvador (circa quaranta ogni centomila
abitanti) non era più quello di un paese in
guerra, ma quello di un qualsiasi paese vio-lento dell’America Latina.
El Faro, il mio giornale, ha cercato di
scoprire come mai gli omicidi fossero di-minuiti così all’improvviso. Abbiamo ap-preso che le autorità avevano trasferito i
principali leader delle due gang dal carcere
di massima sicurezza di  Zacatecoluca a
una serie di prigioni minori dov’era con-suetudine che i detenuti, tra le altre cose,
avessero il telefono cellulare. Parlando con
i leader a piede libero abbiamo avuto la
conferma che dal carcere i superiori aveva-no dato l’ordine di evitare spargimenti di
sangue perché stavano trattando con il go-verno. A quel punto abbiamo pubblicato la
notizia che il governo aveva stretto un ac-cordo con le gang per mettere un freno agli
omicidi.
All’inizio il governo non ha detto nulla,
poi ha negato. Pochi giorni dopo il ministro
della sicurezza e della giustizia allora in ca-rica, il generale in pensione David Munguía Payés, ha convocato una conferenza
stampa e ha smentito l’esistenza di qual-siasi trattativa, spiegando che il calo della
criminalità dipendeva dall’ottimo lavoro
della polizia. Ancora più strana è stata la
giustiicazione del trasferimento dei lea-der delle gang dal carcere di massima sicu-rezza alle prigioni minori: il ministro ha
detto che il governo aveva avuto sentore di
un piano di evasione basato su un attacco
missilistico (ovviamente non esiste nessu-na prova dell’esistenza di questo piano).
Anche  il  presidente  Mauricio  Funes  ha
contestato le nostre conclusioni. La tregua,
ha dichiarato, non era stata ottenuta con
l’intermediazione  del  governo.  Chiara-mente il presidente mentiva.
A volte, però, il tempo agisce con i buro-crati come l’oceano con le rocce: li erode,
facendo emergere dei buchi.
Sei mesi dopo la smentita, a settembre
del 2012, il generale Munguía Payés ha am-messo davanti ai giornalisti di El Faro che
la tregua tra le due gang rivali era stata de-cisa nel suo uicio, e che il presidente Fu-nes ne era a conoscenza. L’ex ministro ha
spiegato  che  sarebbe  stato  impossibile
sconiggere le bande con la repressione,
ma tenere sotto controllo la guerra tra le
gang signiicava tenere sotto controllo il 75
per cento degli omicidi in El Salvador.
Munguía Payés ha spiegato che a mar-zo, quando si è difusa la notizia del trasfe-rimento dei detenuti, non si era potuto as-sumere pubblicamente la responsabilità
della tregua perché l’opinione pubblica lo
avrebbe fatto a pezzi. L’odio verso le gang
era viscerale: i cittadini sarebbero inorridi-ti all’idea di una trattativa con il governo. A
settembre, invece, i tempi erano più matu-ri: erano stati risparmiati più di mille salva-doregni che, con il vecchio tasso di omicidi,
sarebbero initi nei cimiteri sovrafollati
del  paese.  Nonostante  l’ammissione  di
Munguía  Payés,  il  presidente  Funes  ha
continuato a negare di essere a conoscenza
della tregua, ribadendo di non aver mai
condotto trattative, almeno in prima per-sona.
Nel frattempo le gang avevano messo
un freno agli omicidi. La guerra non era i-nita, ma ciascuna delle due parti si astene-va dall’invadere il territorio dell’altra per
tutta la durata della trattativa con il gover-no, dietro la promessa di un miglioramento
delle condizioni carcerarie. Il tema delle
carceri  è  di  enorme  importanza  per  le
gang: prima o poi tutti gli ailiati vengono
arrestati e le attività vengono gestite dai
leader all’interno delle prigioni, dove le
condizioni sono obiettivamente disumane.
Il presidente Funes ha ribadito che il go-verno non ha mai partecipato a nessuna
trattativa, anche quando un politico di pri-mo piano come l’ex viceministro della pub-blica sicurezza Douglas Moreno ha raccon-tato di essersi seduto al tavolo con alcuni
rappresentanti delle gang per discuterne.
Funes ha declinato ogni responsabilità an-che dopo che il direttore della polizia civile
nazionale ha ammesso in un’intervista che
“il calo degli omicidi dipende quasi al 100
per cento dal patto tra le gang”.
Imparare la lezione
Le cose sarebbero potute andare avanti co-sì se il governo non avesse commesso un
errore. A maggio del 2013 la corte suprema
di giustizia di El Salvador ha rimosso il ge-nerale Munguía Payés dall’incarico di mi-nistro, spiegando che il posto spettava a un
civile. Poco dopo il numero degli omicidi
ha ricominciato ad aumentare. Le gang,
vedendo che il garante istituzionale del lo-ro accordo era stato destituito, hanno volu-to dare una dimostrazione di forza e hanno
risposto  con  la  violenza.  A  luglio,  in  un
giorno solo, sono state uccise 27 persone in
diverse parti del paese.
Questo è il rischio quando si fa inta che
il  governo  non  abbia  un  accordo  con  le
gang. In quella giornata di luglio le gang
hanno dimostrato di aver imparato la lezio-ne, il governo no. L’esecutivo guidato da
Funes ha messo sul tavolo il miglioramen-to delle condizioni carcerarie; le gang han-no messo sul tavolo i cadaveri. Quando il
governo non ha mantenuto la parola, loro
hanno ricominciato a uccidere. All’interno
della trattativa le gang hanno capito che la
loro principale risorsa, il loro capitale più
prezioso, è la morte. Ed è una lezione che
non dimenticheranno tanto facilmente.
Da quel momento l’accordo ha fatto ac-qua da tutte le parti. Ora il tasso medio di
omicidi si aggira intorno agli otto cadaveri
– massacrati, pestati, impiccati – al giorno.
I salvadoregni si sono ormai assuefatti
agli omicidi, agli stupri, alle estorsioni e
alle umiliazioni da parte delle gang. E non
hanno più iducia nella capacità del gover-no di rispondere con la forza. La tregua,
almeno, aveva il vantaggio di portare qual-cosa di nuovo. Era un tentativo di afronta-re la situazione in modo diverso, di entrare
nel territorio delle gang senza ricorrere alle
armi e di provare a cambiare la situazione
dall’interno. Rappresentava l’opportunità
d’introdurre misure pubbliche (come gli
aiuti nei quartieri sensibili e i programmi
per convincere i bambini e gli adolescenti
a valutare altre possibilità prima di entrare
in una gang) per cercare di limitare con il
tempo il potere delle bande. Il problema è
che serve tempo e pace, e quindi una tre-gua è indispensabile.
Il presidente Funes, il cui mandato sca-de tra meno di un anno, è determinato ad
arrivare alla ine della sua presidenza sen-za lasciarsi scappare la minima ammissio-ne sul ruolo del suo governo nell’orchestra-re la tregua, che ha già risparmiato più di
duemila vite. D’altronde è diicile ammet-tere di aver ordinato di trattare con assassi-ni, ricattatori e stupratori con tatuati sul
viso i numeri e le lettere delle rispettive
gang. Basta leggere i commenti dei lettori
a qualsiasi articolo che parli delle gang – tra
un “bruciateli” e un “ammazzateli tutti” –
per capire il motivo.
Tuttavia, senza un presidente in grado
di esercitare una vera leadership in un mo-mento così delicato, senza un capo di stato
disposto a combattere per convincere le
gang a fermare lo spargimento di sangue
per un tempo suiciente a mettere in atto
dei piani di prevenzione, la tregua proba-bilmente salterà e il tasso di omicidi rico-mincerà a crescere.
Tutto lascia pensare che il presidente
Funes inirà il mandato senza ammettere
di aver salvato un numero incredibile di
vite umane. Ma forse i numeri che gli inte-ressano davvero sono altri: quelli dei son-daggi sulla sua popolarità. u fas
L’AUTORE
Óscar Martínez è un giornalista
salvadoregno che scrive per il giornale
online El Faro. È autore del libro Los
migrantes que no importan (Icaria 2010

Nessun commento:

Posta un commento