martedì 27 maggio 2014

Dove pesca la Cina Jordan Pouille, XXI, Francia Inquinamento e pesca selvaggia hanno svuotato i fondali cinesi. Così Pechino manda i pescherecci in giro per il mondo. In Marocco, per esempio, dove però gli equipaggi non riescono ad ambientarsi. Il reportage di XXI

S
eduto al volante della sua Buick, Pan accende l’autoradio
con il suo cd preferito e su un
allegro motivetto raisi lancia
a tutta velocità sul raccordo
sopraelevato del porto commerciale di Qingdao. Sei corsie di asfalto
che sorvolano una itta schiera di case per
atterrare davanti alle navi ormeggiate alla
banchina di Heze road. Lao Pan lavora qui,
come capitano di navi mercantili. Fino a sei
anni fa era un pescatore e lavorava nell’oceano Atlantico per conto dell’azienda ittica
di Qingdao, un’impresa statale gestita dal
comune della città. Capitano di lungo corso, Lao Pan ha lavorato per otto anni al largo
del Marocco, a dodicimila chilometri dalla
sua città natale. Con la marea prendeva il
largo e portava il suo grande peschereccio
lontano, verso sud, ino al largo delle coste
rocciose e desertiche del Sahara occidentale, vicino alla frontiera con la Mauritania. A
bordo, guidava una ventina di giovani marinai: igli di contadini arrivati dalle province cinesi del Sichuan o dello Henan, e catapultati nelle acque dell’Atlantico. Con le
reti ancora umide e le stive piene di anguille, polpi e calamari, il capitano tornava nel
porto di Agadir, ai piedi dell’ex casba decorata con la scritta: “Dio, la patria, il re”.
La pesca era miracolosa: “Prendevamo
tantissimi polpi, era incredibile. Li vendevamo a diecimila dollari alla tonnellata ai
giapponesi, che ne sono ghiotti, e spedivamo le anguille in Cina”. In quegli anni, tra la
metà degli anni novanta e la metà degli anni 2000, il Marocco – così come la Mauritania, il Ghana e la Guinea equatoriale – era
un vero e proprio Eldorado. “Le peschiere
di Agadir avevano noleggiato una sessantina di pescherecci sui quali lavoravano circa
mille marinai cinesi. Come i sudcoreani, i
nostri concorrenti”. Tra una battuta di pesca d’altura e l’altra, Lao Pan aveva tre giorni di riposo. Così, con i suoi abiti migliori,
andava al porto per mescolarsi ai turisti seduti sulle terrazze dei ristoranti. Il pomeriggio si chiudeva in un internet café per parlare attraverso una webcam con sua moglie
Mei e la loro iglia Lin, che oggi ha 19 anni.
La sera, mentre i suoi marinai si giocavano
lo stipendio a poker, il capitano russava sul
divano di cuoio della segreteria della sua
peschiera, un piccolo uicio a Charaf, una
cittadina a pochi minuti a piedi dal centro
della città. “Ogni tanto con un altro capitano di Qingdao e con gli uiciali di macchina
prendevamo l’auto del padrone e andavamo ino a Marrakech, a tre ore di macchina
da Agadir. Attraversavamo l’Atlante a tutto
gas, il panorama era magniico”.
Dal suo esilio africano, Lao Pan ha portato vari gioielli d’argento e due braccialetti
d’avorio per sua moglie, che li tiene in bella
vista su un mobile in salotto. Ha conservato
anche un album di foto e lo sfoglia con aria
nostalgica, come davanti a dei ricordi d’infanzia: “Qui sono io di fronte al Nilo blu, il
mio ristorante preferito. Qui sono davanti a
un albergo di lusso pieno di francesi e là davanti a un muro. Lì i muri sono bianchi, non
come in Cina, dove tutto è grigio”. Nel suo
ultimo anno in Marocco il capitano Pan
guadagnava  600  dollari  al  mese,  senza
contare i premi, cioè uno stipendio da due a
quattro volte più alto di quello di un capitano cinese che lavora in acque nazionali. “Ci
sono andato per questo. Oggi un capitano
guadagna il doppio, senza contare i premi”.
Ma alla ine Pan ha preferito tornare in Cina. Stanco di non poter vedere crescere la
sua unica iglia, alle prese con una madre
un po’ troppo apprensiva, Lao Pan ha preferito non rinnovare il suo contratto. “Mia iglia Lin ha 19 anni. Non ha mai avuto un
ragazzo e ha paura del mondo. Con i suoi
ottimi voti avrebbe potuto studiare a Pechino, ma è troppo legata alla famiglia”. Il fratello di Pan, che lavora in Giappone da sei
anni come operaio specializzato in una fabbrica di auto, ha gli stessi problemi: “Si svena per permettere al iglio di diventare tiratore scelto nella polizia. Sono sei anni che
non si vedono e credo che non tornerà molto presto” Rientrato a Qingdao nel 2006, il capitano ha rinunciato alla pesca. A dire il vero
non ha avuto molta scelta. A due anni dalle
Olimpiadi di Pechino del 2008, la grande
baia di nove milioni di abitanti si preparava
ad accogliere le gare nautiche. La città doveva  diventare  una  vetrina  mondiale  e
l’obiettivo principale era la crescita. I piccoli  porti  lungo  la  costa  di  Qingdao  sono
scomparsi uno dopo l’altro, così come le case sul mare, davanti alle quali le donne rammendavano le reti da pesca. Sulla costa
spianata dalle ruspe, sono stati costruiti
grattacieli residenziali con pannelli solari
sui tetti e condizionatori sui balconi. Qui il
sindaco ha sistemato le famiglie dei pescatori, che in cambio hanno dovuto sborsare
le indennità ricevute per le demolizioni delle loro case. Nella fretta della preparazione
delle Olimpiadi, l’isola del Grano, un isolotto nella baia ricoperto di acacie, era stata
promessa a un emiro di Dubai che voleva
farci costruire un albergo di lusso con suite
reali sottomarine. Ma l’imprenditore ha rinunciato. Così sull’isola sono state ammucchiate le migliaia di vecchi pescherecci di
legno di Qingdao. E nella fretta, l’isola si è
trasformata nel cimitero di un tempo ormai
scomparso.
I pescatori non si sono lamentati di questa modernizzazione travolgente. L’indennità di centomila yuan (12mila euro), che si
aggiunge a una pensione mensile di duemila yuan (250 euro), gli permette di vivere
modestamente negli spaziosi appartamenti di cemento. Nemmeno Lao Pan ha rimpianti. Anche senza le Olimpiadi, dice l’ex
pescatore, il cambiamento era inevitabile:
“Quando sono tornato in Cina, nel 2006, il
pesce era quasi completamente scomparso.
E oggi in mare non c’è più nulla. Anche la
moratoria di quattro mesi sulla costa non
viene rispettata”. Della sua esperienza passata ricorda i marocchini che “ributtavano
in acqua i pesci più piccoli. Noi invece tenia mo tutto. Così adesso mangiamo pesce di
allevamento nutrito con farina animale”.
La Buick di Pan è parcheggiata sulla
banchina. Il porto mercantile di Qingdao è
il quarto più importante della Cina. Con un
thermos pieno di tè, Lao Pan indossa la sua
tuta bianca con le strisce fosforescenti cuci­
te sulle spalle e sugli avambracci. Fino alle
17 è al timone di una pilotina, e aianca nel­
le manovre i bastimenti e le navi che arriva­
no da tutto il mondo. Un “Welcome” dipin­
to su tre silos di grano accoglie le navi all’en­
trata  dell’immenso  molo.  Un  traghetto
bianco e arancione in partenza per il Giap­
pone imbarca gli ultimi passeggeri. “Guido
all’entrata e all’uscita del porto navi che mi­
surano ino a 360 metri e che possono pesa­
re ino a 220mila tonnellate”, spiega Lao
Pan. Un affare redditizio per il porto di
Qingdao, che fattura mezzo yuan alla ton­
nellata, cioè ino a tredicimila euro per ac­
compagnare le navi più grosse. Ma gli ordini
e le commesse di prodotti made in China
cominciano a diminuire, e i grandi porta­
container sono sempre meno. Questa mat­
tina, per esempio, Lao Pan è impegnato in
una lunga partita di mah-jongcon i suoi col­
leghi. Dall’oblò della timoneria climatizza­
ta si sente lo sciabordio delle onde, i rumori
delle vecchie bagnarole che galleggiano, il
frastuono dei martelli pneumatici. Un ma­
rinaio a torso nudo cerca di far ripartire il
suo motore a martellate. Altri strappano le
alghe verdi che in estate si attaccano alle
reti e invadono le spiagge. Zhu, 53 anni e 35
di pesca locale alle spalle, abita in fondo alla
baia. Secco come una canna di bambù, pan­
cia e braccia coperte di cicatrici, dice di non
amare più la vita da marinaio: “Vorrei che il
mio quartiere fosse dichiarato ‘zona di svi­
luppo turistico’. Così potrei buttare via le
mie reti come gli altri”. A Qingdao, città
portuale di quasi dieci milioni di abitanti,
rimangono solo settemila pescatori.
Altri tempi
Agadir. In agosto la temperatura siora i 47
gradi e gli abitanti, già debilitati dal digiuno
del ramadan, evitano il sole. Anche i caccia­
tori di turisti preferiscono risparmiare le
energie. Chiusa nelle case o all’ombra delle
palme, la città è addormentata, tranne al
porto, dove c’è una grande attività. Tra
qualche ora rientreranno i grandi pesche­
recci cinesi, sotto la pioggia di guano dei
gabbiani eccitati dalle stive piene. Domani
comincia la “pausa biologica”, un divieto di
pesca di altura di almeno tre mesi decisa dal
re. Le risorse si stanno esaurendo. Il polpo,
“l’oro bianco” del mare marocchino, ri­
schiava di scomparire, e una drastica mora­
toria di otto mesi, imposta nel 2003, ha li­
mitato i danni. Ma le grandi battute di pesca
raccontate da Lao Pan appartengono al pas­
sato. Le navi della peschiera di Qingdao,
inviate a 12mila chilometri dal loro porto,
sono  scomparse.  Ormeggiate  da  mesi
all’estremità in cemento della banchina
principale, due barche hanno la carena ar­
rugginita e piena di buchi.
“Non escono da un bel po’”, osserva uno
scaricatore marocchino.
“Perché?”.
“Gli afari, gli afari!”.
Le barche rimangono a galla per mira­
colo. Mano a mano sono fatte a pezzi, can­
nibalizzate, usate per riparare le navi della
lotta cinese ancora in attività. All’improv­
viso le banchine si animano. Appena le bar­
che attraccano, gli uomini cominciano ad
agitarsi tra le grida dei gabbiani. Le casse di
preziosi polpi, già congelate e imballate, so­
no issate dalle stive per essere subito spedi­
te al migliore oferente in Europa o in Giap­
pone. Avvolti in tute multistrato per afron­
tare il freddo dei depositi, i magazzinieri
con passo nervoso e spedito entrano nel
ventre delle navi per togliere dall’oscurità
migliaia di casse da sistemare e ordinare in
tutta fretta. Sulla passerella i capitani cinesi
osservano in silenzio e con attenzione. Alla
ine delle operazioni gli uomini vengono
tutti perquisiti. Una volta sistemato il carico
a terra, la lotta si raccoglie in fondo al por­
to. Sono una sessantina di barche intorno ai
40 metri, ormeggiate una accanto all’altra
su quattro ile. Di fronte, un’armata vario­
pinta di piccoli gozzi marocchini.
Ad Agadir ci sono sei aziende ittiche ci­
nesi. La più importante, quella statale, pos­
siede 25 imbarcazioni riconoscibili dal colo­
re  azzurro  dello  scafo.  Il  comune  di
Shanghai dispone della seconda lotta in
ordine di importanza: undici barche opera­
tive e sei vecchie bagnarole. “Arriveranno
tre nuove barche a ine anno”, promettono
a ogni ispezione i responsabili di Shanghai.
Due pescherecci sono ormeggiati accanto
alle vecchie imbarcazioni di Qingdao. Ap­
pena uscite dai cantieri navali, nel 1991,
queste due barche dalla chiglia di legno e
lamiera si chiamavano Cna 2711 e Cna 2712.
Una famiglia marocchina importante nel
settore immobiliare e in società con i cinesi
– la sua licenza di pesca in cambio della me­
tà degli incassi – le ha ribattezzate Rahma I
e Rahma II.
Jin Zi You, 24 anni, arrivata ad Agadir
nove mesi fa, gestisce le due imbarcazioni
che suo zio, un ricco imprenditore, ha com­
prato dalle autorità del comune di Nantong
per un pezzo di pane e ha aidato a lei. Fi­
glia di un commissario di polizia che “ha
smesso di correre dietro i delinquenti dopo
una brutta caduta” e di una madre impiega­
ta all’uicio delle imposte, Jin Zi You stava
inendo un anno di stage presso un fabbri­
cante cinese di mazze da golf, quando suo
zio le ha proposto l’avventura africana. La
ragazza ha accettato “per lo stipendio, per
l’esperienza e per il curriculum”. Sul posto
Jin ha a disposizione una vecchia Bmw e tre
volte alla settimana una donna delle pulizie
marocchina che le prepara i suoi piatti pre­
feriti.
Una volta arrivata in Marocco, Jin si è
trovata un po’ spaesata. A eccezione del ca­
pitano e dell’uiciale di macchina, entram­
bi cinesi, l’equipaggio dei due pescherecci è
locale. Per far fronte alla disoccupazione, le
autorità del regno hanno imposto questa
misura sconosciuta ai tempi di Lao Pan. Ma
la ragazza ha imparato il suo nuovo mestie­
re sulle rive dell’Atlantico. La sua attività
quotidiana? Gestire uomini dal carattere
forte e riempire le varie pratiche burocrati­
che per ottenere le sovvenzioni dello stato
cinese, come l’importante contributo an­
nuale per il gasolio di 300mila yuan (37mila
euro). Gli afari, dice la ragazza, non vanno
più molto bene, ma il governo di Pechino
vuole che si rimanga sul posto, che si occupi
il terreno.
Jin non ha grande esperienza di pesca, e
ancora meno di politica. Nella sua città na­
tale, Qidong, a 70 chilometri da Nantong, ci
sono regolarmente delle manifestazioni.
Alla ine dell’estate diecimila abitanti ar­
rabbiati hanno occupato il comune per pro­
testare contro un progetto che voleva river­
sare 160mila tonnellate di acque nere nella
baia della città. Ma la ragazza dice di non
essere al corrente di quello che succede in
patria. Quando la giovane “padrona” arriva
sulle banchine del porto di Agadir con il suo
foulard di seta giallo, il suo berretto da base­
ball con la scritta New York City e i suoi oc­
chiali da sole tempestati di Swarowski, Jin

attira gli sguardi di tutti. Coperti di gasolio
e di resti di pesce fresco, i pescatori marocchini guardano con occhi increduli le Adidas rosa luorescenti, la borsa e la giacca di
jeans attillata che le protegge la pelle bianca
dai raggi del sole. Sotto una falsa aria altezzosa, l’orecchio incollato al cellulare, Jin ripete sempre le stesse frasi senza verbo, ma
insistendo su ogni sillaba: “Questo, non
d’accordo! Questo, troppo caro!”. Gli uomini, irritati, le rispondono in spagnolo, poi in
arabo quando cominciano ad arrabbiarsi.
La nipote dell’imprenditore non sopporta che una cassa di polpi sfugga alla sua
contabilità. La sua calcolatrice vocale dai
grossi tasti verdi non mente mai. In caso di
errore l’aiuta il suo ragazzo, che le fa da interprete. L’aspetto da primo della classe di
Shen Yu Wei non fa paura a nessuno. Lui è
cortese, paziente e sa essere diplomatico.
“Qui funziona così, tutti vogliono la loro
cassa e non vale la pena arrabbiarsi”. All’entrata del porto di Agadir i guardiani hanno
imparato a salutare Shen Yu Wei con il suo
nome  occidentale,  Christophe,  per  poi
chiedergli la mancia. Jin non va mai fuori
città: anche quando le sue barche sono fuori per una battuta di pesca, preferisce rimanere a casa, dove non fa niente. “Non mi
sento sicura. Al suk mi guardano tutti come
se fossi un animale allo zoo, ed è vero che
non somiglio ai soliti turisti francesi o russi”. Così preferisce evadere, malinconica,
sul touch screen del suo smartphone e su
RenRen, la versione cinese di Facebook,
conta i giorni del suo purgatorio marocchino. Se avrà buoni risultati, tra sei mesi potrebbe tornare a casa. A volte per rendere
più piacevole un pomeriggio e per combattere un po’ la nostalgia di casa, Jin propone
ai suoi due capitani e agli uiciali di macchina un corso di cucina sul ponte del Rahma II. Così mettono un telo di plastica sul
tavolo di ferro e preparano diversi chili di
ravioli con la carne di maiale e il sedano, da
cuocere per tre minuti nell’acqua bollente.
Ma oggi Qiu, l’uiciale di macchina di
46 anni, non ha voglia di giocare al cuoco.
Esce dalla sala macchine dove combatte da
ore con la stiva refrigerata per mantenerla
alla giusta temperatura ed è arrabbiato:
“Siamo in pieno ramadan ed è impossibile
avere dei meccanici! E quegli scansafatiche
di agenti portuali non vogliono anticipare lo
scarico della merce! Sono sicuro che dovrò
fare tutto da solo con quattro pezzi di corda
del cazzo!”. Ma il nervosismo scorbutico di
Qiu lascia Jin del tutto indiferente. Il marinaio insiste: “Bisogna essere malati per lavorare in questa nave di merda. È tutto talmente marcio, ci sono così tanti problemi che anch’io ho paura”. I suoi brontolii sono
coperti  dalla  grossa  risata  del  capitano
Miao. “Se continua così, iniamo come la
lotta di Qingdao che ha fatto le valigie in
primavera”. Le voci che circolano nel porto
dicono che il comune di Qingdao ha abban­
donato il paese lasciando dietro di sé, oltre
alle vecchie barche, un debito di un milione
di dollari: stipendi non pagati, benzina, spe­
se varie. Pare che l’equipaggio marocchino
rimasto a terra sia molto arrabbiato.
L’uiciale di macchina del Rahma II è
molto preoccupato, agita le braccia e batte
il pugno sul tavolo: “Se vuoi dei pezzi di ri­
cambio per la stiva frigorifera faresti meglio
a rivendere la tua Bmw. E con il resto mi ri­
servi un biglietto di sola andata per la Cina,
sono tre anni che mi rompo le scatole qui!”.
Le nuvole di farina sollevate a ogni pugno
sbattuto sul tavolo non sembrano disturba­
re Jin. Sbadigliando in modo ostentato, la
ragazza se ne va con il suo piatto di ravioli in
cucina, dove il capitano ha fatto bollire una
pentola d’acqua su un vecchio fornello a
gas. Entrambi sanno bene che tre chili di
profumati ravioli accompagnati da gambe­
ri lambé al whisky basteranno a calmare
Qiu. Almeno ino a domani.
L’uiciale di macchina ha un brutto ri­
cordo di una battuta di pesca recente. Con
un cavo arrugginito abbandonato a prua si è
tagliato la mano e ha dovuto amputarsi un
dito. Appena parla di Agadir, questa città
agli antipodi del suo mondo, comincia a
grattarsi nervosamente il collo con il suo
indice più corto. Non se ne rende conto, è
più forte di lui. A tavola è critico: “Qualcuno
potrebbe almeno riconoscere che i maroc­
chini non sono molto furbi. Se si esclude
l’aprire una cella frigorifera, mi chiedo che
cosa sappiano fare questi marinai”. Spesso
si annoia: “Qui non c’è niente da fare. Nes­
sun centro commerciale, nessun giardino
all’ombra dove sedersi. Solo una spiaggia,
dei bar e dei ristoranti per turisti. Ah sì, ci
sono anche due supermercati dove la birra
e il whisky sono più cari che in Cina. Biso­
gna essere pazzi per rimanere!”. Qiu si è
appena servito il quinto whisky.
In Cina Qiu ha un appartamento di 160
metri quadrati al piano terra di un ediicio
degli anni novanta in stile sovietico. Gli pia­
cerebbe poterlo rivendere per comprare a
sua moglie un appartamento moderno di
quattro stanze: “È molto attenta alle nuove
tendenze, passa le sue giornata nelle bouti­
que alla moda”. Per ora risparmia per gli
studi  della  sua  unica  figlia,  ammessa
all’università di Nanchino: “Ogni sei mesi
verso il mio denaro su un conto in Cina.
Questo mi permette di non spendere trop­
po qui”. Sul ponte del peschereccio illumi­
nato dalla luna piena, Qiu si accende un’ul­
tima sigaretta, e senza dire una parola torna
con passo titubante nella sua cabina. Il gior­
no dopo il capitano Miao, 52 anni, è immer­
so nella lettura delle sue email. Nella sua
cabina non ci sono bottiglie di whisky ma
un cesto di frutta, un binocolo, due compu­
ter portatili, un calendario illustrato di pae­
saggi idilliaci dello Yunnan e tre poster di
bellezze asiatiche più o meno succinte. Il
capitano vive qui tutto l’anno, e quando
esce chiude la porta con il lucchetto: “Mi
hanno già rubato un computer, e a Qiu han­
no preso il cellulare mentre era andato a
pisciare”.
I due pescherecci Rahma sono stati con­
cepiti per periodi di pesca d’altura e non per
abitarci. Gli spazi sono ristretti, il comfort
molto ridotto. La promiscuità quotidiana
aumenta le tensioni. Per evitare i problemi,
i marinai marocchini e gli ufficiali cinesi
fanno attenzione a non incrociarsi nei cor­
ridoi. Il giovane equipaggio del pescherec­
cio è andato a festeggiare il ramadan in fa­
miglia. Le piccole cabine collettive sono
coperte da almeno una decina di mani di
vernice. Ci sono foto di rapper americani
insieme a scritte a pennarello, “fuck the
world” o “motherfucker”. Ma c’è anche un
passaggio della sura Al Alaq del Corano, do­
ve si legge: “Hai visto colui che impedisce al
servo di eseguire l’orazione? (…) Non sa che,
invero, Allah vede? Stia in guardia: se non
smette, noi lo aferreremo per il ciufo. Il
ciufo mendace e peccaminoso!”. Miao si
arrabbia spesso con i suoi uomini perché
pregano cinque volte al giorno, prendono la
bussola per localizzare la Mecca e usano
l’acqua dolce per le abluzioni.
Sono passati sei anni dalla partenza di
Lao Pan, l’ex pescatore tornato nelle sue
terre, ma per i cinesi che l’hanno sostituito
la dolce vita marocchina è diventata una
sorta di miraggio. A volte Miao è demoraliz­
zato, come questa sera dopo una riunione
decisamente animata: “I marinai minac­
ciano di scioperare e di non occuparsi più
delle nostre barche, vogliono un capitano
locale.  E  i  nostri  soci  marocchini  fanno
pressione per non aumentare gli stipendi”,
spiega il capitano parlando con Jin, che do­
vrà decidere cosa fare.
Miao fugge dalle chiacchiere e gli piace
andare a mangiare in un vecchio ristorante
spagnolo. Il problema è che non può soddi­
sfare i piaceri della carne. Alcune donne li­
tuane ofrono i loro favori in tristi discote­
che sul mare, ma i tempi sono cambiati. La
clientela cinese non può più entrare. “I sud­
coreani bevevano come spugne e amavano
le risse. Adesso sono andati via tutti, ma i
buttafuori ci confondono ancora con loro”.
Qiu scoppia a ridere: “Comunque ci si di­
verte più ad Agadir che in Mauritania!”. Il
suo scalo preferito rimangono le Canarie:
“A Las Palmas ci sono spiagge dove sono
tutti nudi, è incredibile!”.
Jin e il suo ragazzo, Shen, vanno all’aero­
porto per accogliere un professore universi­
tario “molto rispettato in Cina”. Specialista
di risorse marine, lo scienziato conduce
delle ricerche che riguardano il futuro della
pesca cinese in Marocco. Il professore deve
determinare se la pesca della sardina, anco­
ra abbondante in queste acque, possa sosti­
tuire quella del polpo. “A quanto pare le
autorità marocchine ci chiedono di investi­
re e di spendere molto denaro, ma ingono
di ignorare che noi qui abbiamo già le no­
stre navi”. Se i marocchini accettassero di
condividere questa nuova ricchezza, allora
le aziende ittiche cinesi potrebbero manda­
re altre navi.
Le nuove leve
Qingdao. Al liceo professionale marittimo
della città ci si prepara all’invio di nuove
lotte in giro per il mondo. “Gli studenti bra­
vi sono indirizzati alla marina mercantile,
ma per i meno bravi la pesca d’altura rima­
ne la soluzione migliore”, spiega Mu Feng,
il segretario del partito del liceo, orgoglioso
di presentare il suo prestigioso istituto. Nel­
le aule, gli adolescenti in tuta da lavoro, da­
vanti a marinai diventati insegnanti, ma­
neggiano degli strumenti prima di riprodur­
li disegnandoli sotto tutte le prospettive. Al
quinto piano di un dormitorio lì accanto,
altri si riposano e sognano. Figlio di conta­
dini del Sichuan, Chang Zheng sogna, steso
sul suo letto, di vedere il mondo. Vuole di­
ventare pescatore e gli piacerebbe molto
vedere “l’Olanda e i suoi mulini”. A 19 anni
segue un corso gratuito di quattro anni. Un
giorno sostituirà Lao, Qiu e Miao. u  a

Nessun commento:

Posta un commento