mercoledì 7 maggio 2014

988 - La torre di Caracas Jon Lee Anderson, The New Yorker, Stati Uniti

È un grattacielo costruito negli anni novanta e
mai completato. Oggi ci vivono, in condizioni
precarie, migliaia di persone senza casa.
Un simbolo del Venezuela di Hugo Chávez



L’
11 dicembre 2012 Hugo
Chávez Frías, il presidente del Venezuela, si
è sottoposto all’Avana
alla quarta operazione
per curare un tumore. È
signiicativo che Chávez abbia scelto Cuba, da tempo la sua seconda casa. Nel novembre del 1999 Fidel Castro lo invitò a
parlare all’università dell’Avana. Chávez,
ex paracadutista, era presidente del Venezuela da nove mesi, ma trovò ad accoglierlo  un  pubblico  entusiasta.  Prodigo  di
espressioni di buona volontà nei confronti
di Cuba, Chávez lodò Castro e lo chiamò
“fratello”.
Era impossibile non cogliere le implicazioni della sua visita. Dalla ine dei sussidi
sovietici, otto anni prima, Cuba era in gravi
diicoltà e il Venezuela era ricco di petrolio. Chávez era accompagnato da una delegazione della compagnia petrolifera nazionale. Parlò per novanta minuti e Castro
sorrise tutto il tempo. Un uomo accanto a
me bisbigliò che non aveva mai visto Fidel
mostrare tanto rispetto per un altro leader.
Quella sera una folla riempì lo stadio
dell’Avana per assistere a una partita amichevole  di  baseball  tra  i  veterani  delle
squadre dei due paesi. Chávez lanciava e
batteva per il Venezuela, e giocò tutti e nove gli inning. Castro era l’allenatore di Cuba e dette ai suoi ospiti una lezione di tattica: durante la partita fece entrare in campo
di soppiatto dei giovani professionisti camufati con barbe inte, che a un certo punto furono tolte provocando grida e risate
tra la folla. Alla ine della partita Cuba era
in testa, ma Chávez dichiarò: “Hanno vinto sia Cuba sia il Venezuela. La nostra amicizia si è raforzata”.
Presto Cuba cominciò a ricevere petrolio venezuelano a basso costo in cambio
dei servizi d’insegnanti, medici e allenatori cubani che partecipavano a un programma di riduzione della povertà lanciato da
Chávez.
Dal 2001 decine di migliaia di medici
cubani garantiscono cure ai poveri del Venezuela e le persone con problemi oftalmici sono assistite a Cuba nell’ambito del
programma Misión milagro.
Irriconoscibile
Chávez aveva trovato anche un’ideologia.
Era un discepolo di Simón Bolívar, liberatore del Venezuela ed eroe nazionale, e
poco dopo aver assunto l’incarico ribattezzò il paese Repubblica bolivariana del Venezuela. Bolívar era un carismatico combattente per la libertà che, con le sue sanguinose campagne, liberò gran parte del
Sudamerica dalla Spagna coloniale, ma
nonostante la sua ammirazione per la rivoluzione americana era più autoritario che
democratico. Per Chávez, Castro era il Bolívar dei tempi moderni, il custode della
lotta antimperialista. Nel 2005 Chávez annunciò che il socialismo era il sistema migliore per il futuro della regione. In pochi
anni, grazie ai miliardi del petrolio e alla
guida di Castro, Chávez resuscitò il linguaggio e lo spirito della rivoluzione di sinistra in America Latina. Promise di trasformare il Venezuela in quello che, nel
suo discorso all’università dell’Avana, aveva deinito “un mare di felicità e di autentica pace e giustizia sociale”. Il suo obiettivo era ridurre la povertà. A Caracas i risultati della sua politica sono davanti agli occhi di tutti  I coloni spagnoli che fondarono Caracas nel cinquecento scelsero con cura la
sua posizione: meglio le montagne della
costa caraibica, dove la città sarebbe stata
esposta ai pirati britannici e ai predoni indiani. Oggi la costa è accessibile grazie a
una ripida autostrada scavata attraverso le
montagne dal dittatore Marcos Pérez Jiménez, che dominò il paese negli anni cinquanta del novecento. Pérez Jiménez fu
rovesciato dopo sei anni di governo, ma
lasciò dietro di sé un’impressionante eredità di opere pubbliche: ediici amministrativi, progetti di alloggi popolari, gallerie, ponti, parchi e autostrade. Nei decenni
successivi, mentre gran parte dell’America
Latina arrancava sotto le dittature, il Venezuela è stato una democrazia dinamica e
per lo più stabile. Era uno dei paesi più ricchi di petrolio al mondo, aveva una borghesia in crescita con un tenore di vita alto
ed era alleato degli Stati Uniti. La speranza
di una vita ricca attirò dal resto dell’America Latina e dall’Europa centinaia di migliaia d’immigrati, che contribuirono a costruire la fama di Caracas come una delle città
più belle e moderne della regione.
Quella città oggi è quasi irriconoscibile.
Dopo decenni di abbandono, povertà, corruzione e rivolte sociali, Caracas è degradata al di là di ogni limite. Ha uno dei tassi
di omicidio più alti del mondo: nel 2011, in
una città di tre milioni di abitanti, sono state uccise 3.600 persone. Una ogni due ore.
Il tasso di omicidi in Venezuela si è triplicato da quando Chávez è stato eletto. La violenza è forse la caratteristica principale di
Caracas, inevitabile come il tempo, che di
solito è magniico, e il traico, che è spaventoso. Gli ambulanti si fanno largo negli
ingorghi vendendo giocattoli, insetticidi e
dvd pirata. I quartieri più ricchi sono enclave fortiicate con mura protette da ili elettrici. Dietro ai vetri oscurati, guardie armate sorvegliano i cancelli.
Caracas è una città fallita, e la torre di
David è il simbolo di questo fallimento. La
torre si innalza per 45 piani sopra la città  Insieme a un’altra torre di diciotto piani e a
un parcheggio sopraelevato, è l’elemento
principale del complesso Coninanzas, ed
è visibile da ogni angolo della città. È circondata da un quartiere come tanti altri:
un reticolo di casette basse disposte sul
ianco di una collina che si esauriscono dopo qualche isolato alle pendici dell’Ávila,
una montagna coperta dalla giungla che
crea un impressionante muro verde tra Caracas e il mar dei Caraibi.
La torre prende il nome da David Brillembourg, un banchiere che aveva fatto
fortuna  negli  anni  settanta,  durante  il
boom petrolifero del Venezuela. Nel 1990
Brillembourg avviò la costruzione del complesso, che doveva essere la risposta venezuelana a Wall street. Morì nel 1993, quando la torre era ancora in costruzione. Poco
dopo, una crisi bancaria spazzò via un terzo delle istituzioni inanziarie del paese. La
torre non è mai stata terminata.
Da lontano non si ha la sensazione che
nel grattacielo ci sia qualcosa di strano, ma
avvicinandosi le irregolarità della facciata
appaiono evidenti. In diversi punti mancano i pannelli di vetro e i buchi sono stati
tappati inchiodando delle assi. Sui lati i
pannelli non ci sono proprio. Il complesso
è un ammasso di cemento incompiuto, ma
dentro c’è gente che ci vive. Rozze case di
mattoni hanno riempito gli spazi vuoti tra i
vari livelli. Solo gli ultimi piani sono aperti,
all’aria, come piattaforme di una grandiosa torta nuziale.
Guillermo Barrios, professore di architettura alla Universidad central, mi ha detto: “Ogni regime ha la sua icona architettonica e senza dubbio quella del chavismo è
la torre di David. Incarna perfettamente la
sua politica urbana, che si può riassumere
in conisca, esproprio, incapacità amministrativa e uso della violenza”. La torre è
diventata loslumpiù alto del mondo.
Capitalismo selvaggio
Quando Chávez andò al potere, nel 1999,
il centro della città era fatiscente, e la torre
era nelle mani di una compagnia di assicurazione. Nel 2001 il governo cercò di venderla a un’asta pubblica, ma non ci furono
oferte. Il progetto di trasformare l’ediicio
nella sede dell’amministrazione comunale
fu accantonato. Poi, una notte di ottobre
del 2007, centinaia di uomini, donne e
bambini guidati da un gruppo di ex detenuti hanno invaso la torre e ci si sono accampati. I leader dell’invasione hanno cominciato a vendere il diritto di entrata ai
nuovi arrivati, povera gente delle baraccopoli che voleva lasciare il fango delle colline per la città. Oggi la torre è il simbolo di
una tendenza dell’era Chávez: l’occupazione degli edifici disabitati da parte di
gruppi organizzati, ribattezzati invasores.
Dal 2003 sono stati occupati centinaia di
palazzi: appartamenti, uici, magazzini e
centri commerciali. Oggi nella torre di David vivono tremila persone.
Il boss dell’ediicio è un ex criminale
diventato pastore evangelico, Alexander
Daza, detto El Niño. Sostenitore di Chávez,
Daza accetta d’incontrarmi solo quando
un intermediario gli garantisce che sono
politicamente  a  posto.  Quando  arrivo
all’ingresso principale della torre, con tanto di cancello e controllo elettronico, alcune donne mi chiedono di mostrare un documento e irmare un registro, e mi fanno
passare perché sono ospite di Daza. Lui mi
aspetta nell’atrio. Un paio di altoparlanti
piazzati davanti alla “chiesa” di Daza – una
stanza al piano terra dove predica tutte le
domeniche – trasmettono una musica assordante.
El Niño è basso, ha 38 anni ma sembra
più giovane, e si dice che in prigione sia rinato a nuova vita. Ci sediamo su un muretto, ma con la musica a tutto volume è impossibile sentire cosa dice. Daza non parla
della torre né del ruolo autorevole che gli
viene riconosciuto. Scimmiottando il linguaggio del governo, accusa i “mezzi d’informazione privati” di distorcere la verità,
di  attaccare  “la  causa  del  popolo”  e  di
“danneggiare  Chávez”.  Dopo  un  po’  si
scioglie e m’indica la moglie, Gina, che ci
passa accanto con un bimbo di un anno.
Non riusciamo a vedere granché della
vita comunitaria della torre, che si svolge
molto più in alto, ma alcuni appartamenti
ai primi piani si afacciano sull’atrio. Ci sono panni stesi sui balconi e alcune antenne
satellitari. Si può anche cogliere qualche
segnale dell’orientamento politico dominante. Daza ha cercato di trasformare la
torre in una roccaforte di Chávez e sopra le
nostre teste è appesa una grande bandiera
rossa in suo onore.
Secondo Daza, la torre non è un covo di
criminali: lui e la sua gente “l’hanno salvata con l’idea di viverci in armonia”. Barrios
non è d’accordo: “La torre di David non è
un bell’esempio di autodeterminazione
popolare, ma un’invasione violenta”. Secondo Barrios, Daza è un malandro– un
malvivente – mascherato da pastore. “È il
leader degli invasoresma vende l’accesso
all’ediicio, e questa è la forma più selvaggia di capitalismo”, sostiene.
Il 7 ottobre 2012 Chávez è stato rieletto
presidente e a Caracas, nelle settimane
successive alla sua vittoria, si respirava
un’atmosfera d’incertezza. Il presidente,
che ha 58 anni, è in cura per un tumore dal
giugno del 2011, ma in campagna elettorale aveva assicurato di stare abbastanza bene e di poter guidare il paese per altri sei
anni. Dopo il discorso della vittoria, però,
non è più apparso in pubblico. A novembre
uno dei funzionari di Chávez mi ha spiegato che il presidente si stava “riprendendo
dalle fatiche della campagna elettorale”.
Un paio di settimane dopo Chávez è andato a Cuba per un controllo medico e, di ritorno a Caracas, ha annunciato che i medici avevano trovato nuove cellule tumorali.
Seduto accanto al vicepresidente Nicolás
Maduro, Chávez ha detto: “Se dovesse
succedermi qualcosa, scegliete Maduro”.
Una volta Chávez mi ha raccontato che
Castro lo aveva sollecitato a potenziare la
sua scorta: “Senza quest’uomo, la rivoluzione inirebbe subito”. La rivoluzione di
Chávez è stata sempre trainata dalla sua
personalità. L’ex militare ha raforzato la
sua preparazione ideologica in prigione.
Fu arrestato nel 1992 per aver guidato un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. E in p  gione chiese a Jorge Giordani, professore
marxista di economia e pianiicazione sociale  all’Universidad  central,  di  dargli
qualche lezione. “Chávez doveva scrivere
una tesi su come trasformare il suo movimento bolivariano in un governo”, mi raccontò Giordani nel 2001, quand’era ministro della pianiicazione. Poi si mise a ridere: “Non abbiamo mai inito la tesi. Ogni
volta  che  gli  chiedo  notizie,  mi  spiega:
‘Stiamo mettendo in pratica la teoria’”.
Nella vita pubblica, in Venezuela si litiga per quasi tutto. Questo vale anche per la
torre di David: le opinioni sul grattacielo
sono tutte diverse. Un amico giornalista,
Boris Muñoz, sostiene che l’ediicio è gestito da “lumpen andati al potere”, i quali
controllano i residenti con la stessa violenza che regola la vita nelle prigioni del paese. Barrios dà la colpa delle occupazioni al
disinteresse del governo per la città e a
Chávez. Nel 2011 il presidente ha invitato i
senzatetto di Caracas a occupare i depositi
abbandonati, chiamati galpones. “Cercatevi un  galpón  e ditemi dov’è. Ci sono migliaia di galponesabbandonati a Caracas. Cerchiamoli! Chávez li esproprierà e li metterà
al servizio del popolo”.
Le occupazioni degli ediici sono aumentate. Nel dicembre del 2010, quando
un’inondazione ha lasciato senza casa centinaia di migliaia di persone, costrette nella maggior parte dei casi ad abbandonare i
quartieri poveri sulle colline, Chávez ha
requisito gli alberghi, un circolo ricreativo
e un centro commerciale per ospitarli. Per
mesi migliaia di damniicadoshanno vissuto nei parchi della città e in una tendopoli
allestita davanti al palazzo presidenziale di
Miralores. Alcuni sono stati ospitati all’interno  del  palazzo.  Era  una  situazione
d’emergenza e, restando fedele al suo stile
quasi militare, Chávez ha annunciato una
nuova “missione”: la Gran misión vivienda, la grande missione degli alloggi.
Il capo
A Caracas gran parte della responsabilità
della Misión vivienda ricade su Jorge Rodríguez. Ex vicepresidente di Chávez, dal
2008 Rodríguez è il sindaco del municipio
Libertador, il centro della città. Vado a trovarlo nel suo uicio. Rodríguez mi dice di
non essersi reso conto della situazione di
Caracas ino a quando è diventato sindaco.
Mi racconta che, subito dopo la sua elezione, ha incontrato Chávez per discutere con
lui della situazione: “Abbiamo deciso che
avremmo sistemato la città, a partire dal
centro. Dovevamo cominciare da qual parte”. Secondo Rodríguez, i problemi della capitale dipendono soprattutto dai leader del passato. Da quando gli spagnoli
hanno costruito Caracas, la sua crescita
non è mai stata pianiicata, a parte la parentesi durante la dittatura di Jiménez. Il
sindaco descrive il progressivo degrado
che ha portato all’emergenza attuale come
“un lento terremoto”. Un tempo i poveri
vivevano nelle gole o sui ianchi della montagna e poi sono stati costretti a trasferirsi
in città. Il ricco settore privato ha smesso
d’investire nella capitale e l’inondazione
del 2010 ha portato la situazione al punto
di crisi. Nel paese mancavano tre milioni
di alloggi e l’obiettivo quell’anno era costruire 270mila nuove unità abitative. Secondo Barrios, dal 1999 il governo in media ha costruito 25mila case all’anno, e in
percentuale ha fatto meno di qualunque
altra  amministrazione  per  affrontare  il
problema della casa dal 1959 a oggi. Ma
Rodríguez mi assicura che l’obiettivo è vicino: “Stiamo costruendo ovunque è possibile”.
In giro per la città si vedono alcuni segnali positivi, a dimostrazione che il governo sta afrontando il problema dell’insuicienza di alloggi popolari e di trasporti
pubblici. Rodríguez mi ha portato in un p sto, sull’avenida Libertador, dove stanno
costruendo vari palazzi, tra cui alcuni ediici di cinque piani in mattoni e acciaio su
palaitte. Ai lati dell’avenida, i bulldozer
stanno abbattendo le baraccopoli e i loro
abitanti vengono trasferiti nei nuovi alloggi. In alcune zone ci sono i piloni di una
nuova sopraelevata per i pendolari appaltata alla Cina, che rientra in un piano ambizioso per ridurre il traico e alleggerire la
pressione  sulla  metropolitana.  È  stata
inaugurata una costosa funivia per trasportare i passeggeri a san Augustín, una delle
baraccopoli più vecchie della capitale, sulle colline. Le cabine partono da una stazione scintillante e si muovono in silenzio,
spinte da enormi cavi fabbricati in Austria.
Ogni cabina è dipinta di rosso – il colore
della rivoluzione bolivariana – e ha un nome diverso: Soberanía, Sacriicio, Moral
socialista. In basso, i pendii della collina
sono una discarica a cielo aperto attraversata da dedali di baracche e stradine di terra battuta.
Una mattina incontro Daza in un terreno coperto di erbacce dietro alla torre più
bassa. Sta sorvegliando un gruppo di quattro ragazzi e un uomo più anziano che mescolano del cemento in una carriola e poi lo
distribuiscono su una distesa di fango, erba e detriti. Daza mi spiega che vuole costruire un piccolo parco, in modo che le
famiglie con bambini possano avere un posto sicuro dove giocare e organizzare feste
di compleanno.
Daza ha piani ambiziosi per la torre. Mi
mostra il garage al piano terra – uno spazio
immenso e completamente vuoto a parte
alcuni autobus rotti – e spiega che è una
fonte di reddito importante: il garage è afittato agli autisti di autobus e si riempie
durante la giornata. Accanto all’ingresso
Daza ha in mente d’installare una porta di
sicurezza e di far costruire un gabbiotto per
la  sorveglianza.  A  un  lato  dell’edificio,
all’ombra di una ila di manghi, mi indica
uno spazio inutilizzato dove vuole costruire un centro diurno per i igli delle madri
lavoratrici. Accanto al cancello principale
spera di aprire un bar “per vendere cibo
bolivariano a prezzi socialisti”.
Mentre camminiamo, mi spiega come
funziona l’ediicio. Parla con tono ritmico
ed enfatico, come un predicatore. “Non c’è
un regime carcerario”, dichiara. “C’è ordine. E non ci sono celle, ma case. Nessuno è
costretto a collaborare. Non ci sono inquilini, ma abitanti”. Ogni abitante deve pagare una retta mensile di 150 bolívar (circa
17 euro) per contribuire ai costi della manutenzione di base, come i salari della brigata di pulizia e del gruppo di lavoro. Le
persone che non possono permettersi di
costruire la loro abitazione ricevono un
aiuto economico. I residenti sono tutti registrati e ogni piano ha un rappresentante
che si occupa delle varie questioni. Se i problemi non si possono risolvere al livello del
piano vengono sottoposti al consiglio della
torre, presieduto da Daza, che si riunisce
due volte alla settimana.
Una storia di redenzione
La versione di Daza sul sistema di regole in
vigore nel grattacielo contrasta con alcune
storie che ho sentito, in cui si parla di esecuzioni in stile carcerario, e di persone mutilate e poi gettate a pezzi dagli ultimi piani.
Questa è la punizione riservata ai ladri e ai
delatori nelle prigioni del Venezuela, e la
consuetudine si è difusa anche nei quartieri controllati dalla criminalità. Quando
chiedo a Daza cosa pensa di queste storie,
lui storce le labbra con un atteggiamento
sprezzante. “Vogliamo che ci lascino vivere qui”, risponde. “Viviamo bene. Non ci
sono sparatorie né malviventi con la pistola in mano. C’è lavoro e c’è brava gente,
gente che lavora”. Poi gli chiedo come ha
fatto a diventare il jefe, il capo della torre.
Lui storce di nuovo le labbra e risponde:
“All’inizio tutti volevano prendere il comando. Ma Dio si è liberato di chi voleva
liberarsi e ha lasciato chi voleva lasciare”.
Molti abitanti della torre hanno avuto
una vita complicata dall’intreccio di miseria e criminalità tipico del paese. In un magazzino riadattato accanto alla chiesa di
Daza vive Gregorio Laya, compagno di prigione del Niño. Oggi Laya lavora come
cuoco nella cucina del presidente a palazzo
Miralores, ma un tempo faceva parte di
una banda di roleros, ladri specializzati in
orologi costosi. Un giorno derubò il proprietario di un centro estetico “a qualche
isolato da qui”, mi spiega indicando oltre la
torre. Prese l’orologio, ma prima che riuscisse a scappare l’uomo tirò fuori una pistola e cominciò a sparare. Lui “non aveva
altra scelta” che rispondere al fuoco: sparò
più volte al proprietario del centro estetico,
uccidendolo. Anche Laya era ferito e la polizia lo arrestò quasi subito. Fu condannato
a undici anni di carcere. È fortunato ad
avere un lavoro ed è grato a Daza per avergli trovato un posto nella torre. Ogni giorno, andando al lavoro, passa davanti al
centro estetico e pensa a com’è cambiata la
sua vita.
Anche Daza racconta la sua vita come
una storia di redenzione. Un giorno mi fa
vedere la sua chiesa, un grande magazzino
ridipinto di verde, con sedie di plastica impilate e un pulpito da predicatore. Alle pareti ci sono ritagli di carta da lettera dorata
con le scritte Casa de diose Puerta del cielo.
Daza prende due sedie e mi fa accomodare. Viene da Catia, mi racconta, una delle
peggiori baraccopoli di Caracas. La sua famiglia era molto povera. Era il più piccolo
di vari igli maschi. È rimasto fuori dai guai
ino all’età di otto anni, quando alcuni ragazzi più grandi gli rubarono la bicicletta e
lo umiliarono picchiandolo. Lui li deinisce
malandrosche terrorizzavano il quartiere.
“Ricordo di averli visti minacciare i miei
fratelli maggiori”, racconta. “Avevano la
pistola, e quando i miei fratelli scappavano
loro li inseguivano sparando. Non m’importava che uccidessero i miei fratelli, però
non sopportavo come si comportavano
con mia madre. La maltrattavano, fumavano e dicevano oscenità davanti a lei. Io gli
dicevo che erano dei vigliacchi perché attiravano i loro nemici nel quartiere e poi,
quando arrivavano, scappavano”. Daza
mise su una banda di ragazzini. “Ci procurammo delle armi e poi, quando avevo
quindici anni, aspettammo il capo di quei
malandros. Quando si presentò l’occasione”, fa il gesto di sparare, “lo eliminammo”.
Dopo quell’omicidio diventò il boss del
quartiere.
Daza è stato in prigione due volte, la
prima per cinque anni e la seconda per due.
Mentre scontava la seconda condanna per
possesso illegale di armi da fuoco, un poliziotto predicatore andò a trovarlo e lo con-  vertì. Uscì dal carcere “con el Evangelio” e
da allora cerca di condurre una vita migliore.
Per Daza, come per molti altri abitanti
di Caracas, la prospettiva di una vita migliore non è solo spirituale ma anche materiale. L’amministrazione di Hugo Chávez
ha avuto efetti contraddittori sull’economia del paese. La sua retorica anticapitalista ha spinto alcune aziende a espatriare,
mentre altre sono riuscite a lavorare con il
governo e hanno fatto fortuna. C’è un numero incredibile di norme da rispettare –
solo per pagare una cena in un ristorante
bisogna esibire un documento d’identità –
ma paradossalmente questo ha incoraggiato l’economia sommersa. Molti medici
e ingegneri hanno abbandonato il paese,
mentre altri professionisti continuano a
lavorare bene. L’unica costante è il lusso
di denaro proveniente dal petrolio, che assicura ad alcuni enormi ricchezze e sostiene un settore pubblico in espansione. Da
quando c’è stata la rivoluzione i venezuelani più poveri se la cavano un po’ meglio.
Eppure, nonostante gli appelli di Chávez
alla solidarietà socialista, il suo popolo
vuole sicurezza e cose belle almeno quanto
vuole una società più giusta.
A Caracas ci sono migliaia di sequestri
ogni anno. Nel novembre del 2011 alcuni
uomini hanno catturato il console cileno,
lo hanno picchiato e gli hanno sparato.
Quello stesso mese il catcherdei Washington Nationals, Wilson Ramos, è stato rapito dalla casa dei genitori in Venezuela ed è
stato tenuto in ostaggio due giorni prima di
essere liberato. Ad aprile è stato sequestrato un diplomatico della Costa Rica. Il giorno dopo la polizia ha fatto irruzione nella
torre di David per cercarlo, ma ha trovato
solo alcune armi.
Ho l’impressione che Daza non voglia
mai lasciare il piano terra della torre e che
non voglia farlo lasciare neanche a me.
Ogni volta che gli propongo di andare di
sopra diventa evasivo e, quando gli chiedo
di partecipare a una riunione con i rappresentanti dei vari piani, accampa delle scuse. Si racconta che chieda una tassa d’ingresso a ogni nuovo residente, ma lui nega.
Sembra probabile, però, che si guadagni da
vivere sfruttando l’ediicio, probabilmente
il garage degli autobus. E può permettersi
qualche lusso: vive sopra la chiesa, ma ha
anche un appartamento in un altro luogo
della città. Ha avuto dei igli da relazioni
precedenti e li può incontrare senza correre rischi.
In un paio di occasioni riesco a salire ai
piani  superiori  del  grattacielo  per  dare
un’occhiata. Al decimo piano le persone
della squadra di sicurezza pretendono che
mi presenti e dica dove sto andando. Quando faccio un cenno a Daza le guardie mi
lasciano passare, ma dopo qualche minuto
riappaiono per tenermi d’occhio. Gli abitanti della torre sono cauti e parlano poco
con gli stranieri. Sulle scale molti hanno
dei carichi da trasportare e si muovono come montanari, con l’espressione tesa delle
persone che stanno facendo una prova di
resistenza.
I corridoi sono orientati in modo da far
entrare la luce dalle grandi vetrate a ciascuna estremità dell’ediicio. Nei piani non
ultimati, i residenti hanno costruito delle
casette con blocchi di calcestruzzo intonacati. Molti hanno la porta aperta, non solo
per  socializzare  ma  per  lasciar  passare
l’aria, e li vedo impegnati nelle faccende
quotidiane: cucinare, pulire, portare secchi d’acqua, fare la doccia. Qui e là si sente
la musica. Daza ha improvvisato una pompa per l’acqua alimentata da un generatore
e in ogni piano c’è un serbatoio, ma la fornitura d’acqua è imprevedibile.
Nella torre ci sono vari negozietti di generi alimentari, un parrucchiere e un paio
di asili. Al nono piano visito il neg   Zaida Gómez, una donna sui sessant’anni
con i capelli bianchi, vive insieme alla madre ultranovantenne. Gómez mi mostra la
piccola stanza accanto al negozio dove ha
sistemato la madre. Il ventilatore è sempre
acceso perché il caldo è forte.
Zaida Gómez ha paura che la costringano a lasciare la torre. “Quest’edificio è
troppo costoso per gente come noi”, mi dice. “Un giorno le autorità vorranno riprenderselo”. La donna spera che il governo,
impegnato a costruire alloggi nella vicina
avenida Libertador, arrivi ino alla torre e
dia una casa a tutti. “Voglio solo una casetta e un pezzetto di terra da coltivare, qualcosa che sia tutto mio”.
Albinson Linares, un giornalista venezuelano che si è occupato della torre, ha
deinito i suoi abitanti “rifugiati di uno stato sottosviluppato che vivono in una struttura del primo mondo”. È uno spaccato
degli abitanti di Caracas: infermieri, uomini della sicurezza, autisti di autobus, commercianti e studenti. Ci sono anche disoccupati e la cerchia di ex carcerati evangelici
di Daza. Ogni piano ha la sua sociologia. I
piani più bassi sono in gran parte riservati
agli anziani, che non possono arrampicarsi
per le scale. Alcuni piani sono dominati
dalla vita familiare, altri sono occupati da
ragazzi dall’aria pericolosa. Un giorno un
fotografo  che  mi  accompagnava  viene
spinto dentro un appartamento da un paio
di uomini che vogliono interrogarlo. Quando il fotografo fa il nome di Daza lo lasciano andare, ma con un po’ di riluttanza.
Scendendo le scale vediamo una scritta
che dice “El Niño sapo”, El Niño è un delatore. Sembra che Daza abbia dei nemici
anche nella torre.
Colpa delle prigioni
A mezz’ora di macchina dal grattacielo c’è
un’altrainvasión: El Milagro. È stato fondato parecchi anni fa da José Argenis, un ex
detenuto diventato pastore che si è unito
ad altri ex carcerati e alle loro famiglie per
occupare un pezzo di terra accanto al iume fuori Caracas. Era un terreno coperto
di arbusti e disseminato di spazzatura, ma
si trovava in una buona posizione: non lontano dalla strada principale, vicino a una
stazione di autobus e a un piccolo pont   che consentiva ai residenti di attraversare
il iume a piedi o in motorino. Oggi El Milagro è una comunità di diecimila persone, e
continua a espandersi.
Argenis, un nero carismatico dalla voce
tonante, dirige un centro di recupero nel
Milagro per ex detenuti che gli hanno chiesto aiuto. Le prigioni del Venezuela sono le
peggiori dell’America Latina. Le trenta
strutture del paese sono state progettate
per accogliere quindicimila detenuti, ma
ne ospitano tre volte di più. La droga si
compra e si vende apertamente, e i detenuti riescono a procurarsi armi automatiche e
granate. In molti istituti le guardie penitenziarie hanno ceduto il controllo a bande
armate agli ordini di criminali incalliti ribattezzati pranes.
I  pranesguidano la comunità criminale,
dentro e fuori dal carcere: con una polizia e
una magistratura corrotte e inefficienti,
forniscono un punto di riferimento dove
non ne esistono altri. Sono diventati abbastanza potenti da trattare direttamente con
il governo. Argenis lavora come consigliere
di Iris Varela, ministra per il servizio penitenziario, e l’aiuta a negoziare con i capi
della criminalità. “Per il momento è un lavoro non retribuito”, mi ha spiegato Argenis. Ma è contento di lavorare con la ministra: spera di ricevere inanziamenti dal
governo per il suo centro di recupero e di
poterne costruire altri in tutto il paese.
Argenis ha scontato una condanna di
nove anni per omicidio e in prigione ha conosciuto Daza. Dopo il carcere sono rimasti in contatto. “Quando hanno occupato la
torre, El Niño era ancora coinvolto nel
mondo della malavita”, mi ha raccontato.
“Qualcuno voleva il disordine. Ma lui ha
imposto l’ordine, alla vecchia maniera”. Mi
ha lanciato uno sguardo d’intesa.
Un giorno Daza è andato da lui per chiedergli aiuto. “È venuto qui per sei mesi.
Uicialmente era il capo della torre, ma
alloggiava qui”. Secondo Argenis, “quando
è uscito di prigione, Daza aveva dei problemi. C’era della gente che voleva ucciderlo,
e noi lo abbiamo protetto”. Argenis non
esclude che Daza possa tornare alla vita
criminale. “Credo che abbia appeso i guantoni”, mi ha detto sorridendo. “Ma potrebbe cadere di nuovo in tentazione, perché
dobbiamo guardarci alle spalle, capisci?”.
Quando gli chiedo come mai la cultura
dei malandrossi è difusa così tanto, mi risponde che la colpa è delle prigioni. Gli
uomini in carcere non cercano neanche di
scappare, perché “hanno tutto quello che
gli serve e vivono perino meglio di quando
stavano sulla strada”. L’economia carceraria è in pieno boom, con miliardi di bolívar
generati dal controllo del traico di stupefacenti. “Le prigioni sono davvero forti e
negli ultimi sette e otto anni lo sono diventate ancora di più”.
La prima cosa che si nota arrivando
all’aeroporto internazionale di Caracas è
una baraccopoli, forse la più famosa della
città: il 23 de enero. “El 23”, come lo chiamano tutti, è un quartiere costruito negli
anni cinquanta da uno dei più grandi architetti del Venezuela, Carlos Raúl Villanueva. È un complesso di ottanta ediici che
occupa un immenso terreno nella parte
settentrionale della città. È stato concepito
come un grande sobborgo, con palazzi di
quattro piani e grattacieli di quindici, intervallati da giardini e vialetti.
Oggi gli spazi verdi sono completamente occupati dagli  invasores. El 23 è a tutti gli
efetti una baraccopoli di centomila persone, punteggiata dai palazzi residenziali di
Villanueva. La zona è un instabile mosaico
di gruppi autonomi, alcuni con pretese rivoluzionarie e altri dichiaratamente criminali. Molti gruppi sono armati.
Una igura emblematica del 23 è stata
Lina Ron, una militante con i capelli ossigenati e un carattere esuberante. Prima di
morire per un ictus l’anno scorso, Lina Ron
ha guidato le proteste antimperialiste, che
ogni  tanto  sfociavano  nella  violenza.
Chávez ha sempre tollerato Ron e i suoi aggressivi seguaci, perché lei difendeva la
sua politica e spesso appariva al suo ianco
nelle manifestazioni. Nel 2001 Chávez mi
fece capire che aveva abbracciato l’estrema sinistra per evitare un colpo di stato
come quello che lui aveva guidato nel 1992:
“La verità è che abbiamo bisogno di una
rivoluzione. Se non riusciamo a farla ora,
arriverà più tardi con un altro volto”, mi
disse il presidente in quell’occasione. “Forse nello stesso modo in cui siamo arrivati
noi, una notte, con le armi in pugno”.
Difesa personale
Oggi non c’è un chavista più dichiaratamente radicale di Juan Barreto, un professore dell’Universidad central. Barreto, che
ha 50 anni, è un marxista loquace e brillante che dal 2004 al 2008 – il periodo delle
occupazioni, compresa quella della tor di David – è stato alcalde mayordi Caracas,
cioè il sindaco che supervisiona tutti i distretti della città. All’inizio del 2008 ho
passato un po’ di tempo con lui e ho capito
che alcuni invasoreslo consideravano il loro protettore. Barreto ha sempre detto di
non sostenere le invasioni, ma di approvare l’esproprio di proprietà inutilizzate per
superare la crisi degli alloggi. Durante il
suo mandato di sindaco, ha fatto arrabbiare i ricchi della città minacciando di coniscare in nome del popolo il Caracas Country club, dove ville e giardini lussuosi circondano un campo da golf di diciotto buche. Alla ine il piano è stato abbandonato,
sembra per ordine di Chávez.
Quando era sindaco, gli piaceva essere
l’enfant terribledella rivoluzione di Chávez.
Ha organizzato una scorta di guardie del
corpo in motocicletta che viaggiavano insieme a lui. Nella squadra c’era anche un
ex killer a contratto, un ragazzo che si chiama Cristian, che lui voleva rieducare. Me
lo ha presentato e gli ha chiesto: “Cristian,
quante persone hai ammazzato?”. Il ragazzo ha risposto tra i denti: “Una sessantina,
credo”, e Barreto ha riso divertito.
Dopo aver lasciato l’incarico nel 2008,
Barreto si è allontanato dalla vita politica,
ma l’anno scorso è tornato a impegnar  per la campagna elettorale di Chávez. Alla
testa di un gruppo informale di collettivi
radicali che hanno sede nelle varie baraccopoli, ha fondato Redes, una nuova organizzazione con cui ha partecipato alla campagna elettorale. Caracas era tappezzata di
manifesti di Redes che mostravano il leader della rivoluzione abbracciato al corpulento Barreto.
Incontro Barreto nella sua casa nella
zona del Cementerio. Barreto mi spiega
che lui e i suoi compagni stanno lavorando
per trasformare Redes in un partito politico. Negli ultimi tempi Chávez ha ideato un
piano per “il socialismo del ventunesimo
secolo”, in base al quale la società venezuelana dev’essere ristrutturata in comunas.  Nessuno,  a  parte  forse  lo  stesso
Chávez, ha capito bene cosa signiichi questo termine o come dev’essere applicato il
piano. Barreto e i suoi compagni temono
che, senza la pressione di gruppi come Redes, il piano sia usato per ingabbiare le vere
forze rivoluzionarie.
Per contribuire a creare un’autentica
comune, Barreto collabora con Alexis Vive, uno dei collettivi armati più organizzati
di El 23. Mi propone di andare a vederli.
Quando saliamo nel suo suv – glielo ha prestato Chávez – una guardia del corpo tira
fuori una mitraglietta Belgian P90. “Bella,
vero?”, chiede Barreto sorridendo. “Spara
57 pallottole”. Poi aggiunge che armi come
questa servono alla difesa personale. “Non
siamo contro il governo. Ma non riesco a
trovare il modo di sostenerlo ino in fondo”. Scoppia a ridere. “È come quando hai
una bella donna ma non sei più innamorato di lei. È diicile, la vuoi ancora ma non la
vuoi più, mi capisci?”.
Nel quartier generale del collettivo Alexis Vive ci sono murales di Karl Marx, Mao
Zedong , Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara, ma a parte qualche uomo armato che
indugia intorno ad alcuni ediici lì vicino,
la fanteria si tiene a distanza. Uno dei leader del gruppo, Salvador, un giovane studente di sociologia, mi spiega che il collettivo controlla una ventina di ettari dove
vivono diecimila persone, con cui stanno
cercando di formare un collettivo marxista
autosuiciente. Il gruppo è armato solo per
motivi di autodifesa, spiega Salvador. A El
23, poliziotti corrotti e membri della guardia nazionale venezuelana lavorano insieme ai gruppi di malandros, alcuni nell’area
che conina con il loro territorio. Barreto
sostiene che il contingente armato protegge la sua gente dai funzionari canaglia.
“Non riescono a venire qui dal 2008”, dic  ridendo. “Abbiamo avuto degli scontri a
fuoco con loro”.
La corruzione nelle forze dell’ordine è
un problema radicato nel paese e, secondo
Barreto, è la vera fonte della cultura criminale del Venezuela. Lui l’ha combattuta
quando ha amministrato la capitale sostituendo gran parte della polizia con i Tupamaros, un gruppo armato di El 23. La situazione, aggiunge Salvador, dipende anche
dall’incapacità di Chávez di afrontare i
veri criminali: “Il presidente non si è messo contro i malandros perché pensa che loro possano mettersi contro di lui”.
Una certezza
È domenica. Nella chiesa di Daza sono state preparate cinquanta sedie di plastica per
i fedeli, ma si presenta solo una decina di
persone, soprattutto donne e bambini. El
Niño non sembra sorpreso. La sua compagna, Gina, arriva con i igli e una Bibbia
dalla copertina rosa. Mentre i musicisti
suonano, Daza canta a un lato del palcoscenico – è stonato ma non si vergogna – e
suona il bongo. Alla ine prende il microfono e comincia a gridare ritmicamente con
voce roca, parlando del bene e del male.
Qualche giorno dopo Daza mi porta nel
vicino stato di Miranda per mostrarmi la
baraccopoli dove viveva con l’ex moglie e
dove lei abita ancora. Lungo la strada mi
racconta come Dio l’ha salvato. Aveva lasciato la scuola a tredici anni e un anno
dopo faceva già parte di una banda. In prigione, la seconda volta che è stato arrestato, ha imparato a leggere, e la Bibbia è stata
il suo primo libro. “Non ho studiato come
all’università, ma mi sono preparato molto
su Dio. Una volta mi rivolgevo alla gente in
modo ofensivo, usando parole oscene. Ma
ho letto da qualche parte nella Bibbia – non
ricordo dove – che un cattivo linguaggio
corrompe i buoni costumi. E quando l’ho
letto ho pensato: ‘Dio mi sta parlando’”.
Raggiungiamo una casetta di blocchi di
calcestruzzo in cima a una collina scoscesa, afacciata su altre colline coperte di boschi e sfregiate dalle nuove invasioni. Qui
abita la iglia dell’ex moglie di Daza, una
ragazza sui vent’anni. Sembra felice di vederlo. Ci sediamo in una piccola sala da
pranzo e Daza comincia a ricordare la s  vita con la madre della ragazza. Anche se
all’epoca era un malvivente, il loro rapporto è stato formativo. Lei era più grande, e
secondo Daza l’ha aiutato a farlo diventare
un uomo. Lo ha anche viziato, dice ridendo, cucinando, pulendo e stirandogli i vestiti.
In macchina gli chiedo se rimpiange
qualcosa. “No”, risponde. “E che mi dici
degli uomini che hai ucciso?”. “Per esempio chi?”. “Per esempio quel malandro che
hai ucciso quando avevi quindici anni”.
Daza non risponde. Dopo un minuto
comincia a parlare: “Ero ignorante, oggi
sono cambiato. Mi sento un uomo nuovo,
una persona nuova. Quelle cose capitano
nella vita e, insomma, Dio le permetteva,
ma ora credo di essere diverso”. Daza s’interrompe qualche secondo e poi riprende:
“Quando diventi un leader, la tua vita è a
rischio perché ti fai dei nemici. A volte la
gente pensa che sei complice della maia o
altre cose strane, per via del tuo passato. I
nemici cercano di screditarti e il diavolo
farà in modo che tu rimanga un miserabile,
per usarti come vuole”.
Non è facile capire se El Niño Daza è un
malvivente, un vero avvocato dei poveri o
tutte e due le cose. Ma mi sembra chiaro
che ha saputo adattarsi alla vita nel Venezuela di Hugo Chávez procurandosi dei
vantaggi in ogni modo: lavorando negli
spazi lasciati vuoti dal governo, mettendo
in piedi un’impresa capitalistica e, quand’è
necessario, anche negoziando con la criminalità.
Daza sta considerando l’ipotesi di entrare in politica. Come capo della torre ha
conosciuto alcune autorità cittadine, comprese persone vicine a Chávez, che gli hanno chiesto di candidarsi come assessore
comunale. Con i cambiamenti proposti dal
governo e la creazione delle comunas, Daza spera che la torre possa ottenere un riconoscimento legale. Ha parlato della sua
candidatura nel grattacielo. “La gente mi
ripete che dovrei candidarmi e che avrei
buone possibilità di essere eletto”, mi dice.
“Sto cominciando a pensarci”.
Al centro di Caracas sta per essere ultimato uno splendido mausoleo. Chávez ha
ordinato la sua costruzione due anni fa per
ofrire un nuovo luogo di riposo alle ossa di
Simón Bolívar. In precedenza aveva fatto
riesumare ed esaminare i resti del Libertador, credendo che fosse stato avvelenato
dai suoi nemici, ma l’autopsia non ha portato a nessuna conclusione. Così il presidente ha deciso di dedicargli una nuova
tomba.
L’ediicio è un sottile cuneo bianco che
si erge, come una vela, ino a 52 metri di altezza. Si dice che sia costato 150 milioni di
dollari e, come molte cose fatte da Chávez,
è contestato. I lavori sono stati condotti in
segreto e il mausoleo non è ancora stato
inaugurato. Quando sarà completato, diventerà il cuore di un angolo degradato
della città, accanto a una vecchia fortezza
militare – dove Chávez è stato recluso dopo
il suo tentativo di colpo di stato – e al pantheon nazionale – una chiesa dell’ottocento dove i resti di Bolívar sono sorvegliati da
guardie in uniforme. Circola anche la voce
che quando Chávez morirà, sarà sepolto
nel mausoleo accanto a Bolívar.
Nel 2001 il comandante mi aveva detto
che il suo più grande desiderio era quello di
portare “una vera rivoluzione in Venezuela”. Ma qualche anno dopo, il suo vecchio
maestro, Jorge Giordani, era preoccupato
che il suo protetto non stesse costruendo
una rivoluzione permanente. “Dobbiamo
tenere i piedi ben piantati a terra”, mi disse
Giordani. “Se ci sarà ancora petrolio, avremo un paese vero tra vent’anni, ma abbiamo molto da fare prima di arrivare a quel
momento”.
Mentre Chávez lotta contro il tumore,
uomini che si deiniscono chavisti trasmettono i suoi presunti desideri ai cittadini.
Nei mesi scorsi i venezuelani hanno avuto
poche informazioni aidabili sulle sue intenzioni e sulle sue reali condizioni di salute. Gli hanno dato il potere, un’elezione
dopo l’altra: sono vittime del loro afetto
per un leader carismatico a cui hanno permesso di diventare la igura centrale della
scena venezuelana, a spese di tutto il resto.
Dopo quasi una generazione, Chávez
lascia ai suoi cittadini molte domande senza risposta e una certezza: la rivoluzione
che ha cercato d’innescare non è mai realmente avvenuta. È cominciata con Chávez
e con lui, probabilmente, inirà. u gc

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