martedì 27 maggio 2014

990 - Addio a Chávez Jon Lee Anderson, The New Yorker, Stati Uniti

Il 5 marzo è morto il presidente del Venezuela
Hugo Chávez, un leader carismatico e populista.
Ora il paese dovrà fare i conti con un vuoto
enorme e una rivoluzione lasciata a metà


I
l presidente venezuelano Hugo
Chávez Frías, morto di cancro il 5
marzo 2013 all’età di 58 anni, è
stato uno dei leader internazionali più provocatori degli ultimi
tempi. Per mesi le sue condizioni
di salute sono state un mistero nazionale,
circondate da voci e segretezza. Chávez ha
passato il giorno in cui avrebbe dovuto assumere la presidenza, il 10 gennaio 2013, in
un letto d’ospedale a Cuba. Il vicepresidente Nicolás Maduro, che ha annunciato la
morte del leader bolivariano, è uno dei politici che punta a controllare il Venezuela.
Tra un mese ci saranno nuove elezioni.
Chávez,  un  paracadutista  che  aveva
passato due anni in prigione dopo aver guidato nel 1992 un colpo di stato militare fallito contro il governo venezuelano, dopo
l’amnistia tornò sulla scena politica con
una rinnovata determinazione a ottenere il
potere. E per farlo cercò il sostegno del leader comunista cubano, Fidel Castro. Nel
1998 Chávez vinse le elezioni presidenziali promettendo un cambiamento radicale.
Una volta diventato presidente, nel gennaio del 1999, tutti i suoi sforzi sono andati in
questa direzione.
Lascia un Venezuela che, per alcuni
versi, non sarà più lo stesso e che per altri è
lo stesso di sempre: uno dei paesi più ricchi
di petrolio del mondo, pieno di disuguaglianze sociali, con moltissimi cittadini che
vivono in alcune delle baraccopoli più violente dell’America Latina.
A suo favore, va detto che Chávez si è
impegnato per cambiare la vita dei poveri,
che sono stati i suoi sostenitori più fedeli.
Cominciò progettando una nuova costituzione e ribattezzando il paese. Simón Bolívar, che lottò per unire tutta l’America
Latina sotto il suo comando, era il suo eroe.
Per questo Chávez decise di cambiare il
nome del paese in Repubblica bolivariana
del Venezuela e poi investì tempo e risorse
per lanciare quella che chiamava “la rivoluzione bolivariana”. All’inizio non doveva
essere una rivoluzione socialista né per
forza antistatunitense, ma poi il governo di
Chávez e il suo ruolo internazionale hanno
preso quest’impronta, almeno nelle intenzioni.
Ho incontrato Chávez varie volte nel
corso degli anni. La prima volta è stato nel
1999, poco dopo che era stato eletto presidente del Venezuela. Si trovava a Cuba per
tenere  una  conferenza  all’università
dell’Avana. Tra il pubblico c’erano i due
fratelli Castro (una presenza eccezionale)
e altri alti membri del politburo cubano.
Fidel Castro guardò e ascoltò rapito Chávez
per i novanta minuti del suo discorso, in cui
il presidente venezuelano gettò le basi retoriche per l’intensa e profonda relazione
tra i due paesi e i due leader. Quel giorno
diversi analisti politici presenti in sala parlarono di quella che sembrava una grande
storia d’amore tra Chávez e Castro. Avevano colto nel segno.
Chávez, quasi trent’anni più giovane di
Fidel, diventò un amico inseparabile del
leader cubano, che per lui rappresentava
una igura paterna e un modello da seguire
(la famiglia di Chávez era umile e veniva
dall’entroterra  del  paese).  Per  Castro,
Chávez era un erede e qualcosa di molto
simile a un iglio prediletto. Sembra incredibile (o forse era nella logica delle cose)
ma fu Fidel a notare qualcosa che non andava in Chávez durante una visita all’Avana nel 2011 e a insistere perché si facesse
visitare da un medico. Così il leader venezuelano scoprì di avere un tumore delle
dimensioni – così è stato descritto – di una
palla da baseball, in una zona non meglio
speciicata dell’inguine. Da allora e ino al

suo rientro in patria il 18 febbraio del 2013,
ormai da malato terminale, Chávez è stato
curato all’Avana sotto lo sguardo attento di
Fidel.
In ritardo
Chávez era uno showman afabile, che sapeva cogliere il momento giusto e ogni opportunità strategica. Le sue ambizioni e la
sua statura internazionale crebbero durante  gli  anni  di  George  W.  Bush,  quando
l’America Latina era stata relegata in secondo piano da Washington. Dopo l’11 settembre  2001  Chávez  prese  le  distanze
dall’amministrazione Bush e diventò sempre più critico nei confronti delle politiche
e degli atteggiamenti “dell’impero” statunitense. Chiuse gli uici militari statunitensi in Venezuela e mise ine alla cooperazione con la Drug enforcement administration. Poi si spinse oltre, ridicolizzando
il presidente degli Stati Uniti, che chiamava “Mr. Danger” e “asino” nel suo programma televisivo settimanale Aló presidente. A volte sembrava che per lui governare fosse come un reality televisivo (una
volta ordinò al suo ministro della difesa di
inviare l’esercito alla frontiera con la Co lombia in diretta su  Aló presidente). Nel
2002 un tentativo di colpo di stato nato da
un complotto di politici di destra, uomini
d’afari e militari, fermò e umiliò Chávez
per un brevissimo periodo, prima che fosse
liberato e riassumesse di nuovo la presidenza.
Il colpo di stato contro Chávez fallì, ma
non prima di ricevere, così sembrò, una
strizzata d’occhi e un cenno di assenso da
parte dell’amministrazione Bush. Chávez
non perdonò mai gli statunitensi. Da quel
momento la sua retorica antiyankee diventò più pungente e, quando poteva, cercava
di mettere in difficoltà Washington. Nel
2000 Chávez andò a Baghdad per un incontro amichevole con Saddam Hussein.
Poi, nella sua dichiarata ambizione d’indebolire “l’impero” degli Stati Uniti e di creare un “mondo multipolare”, si avvicinò ad
altri leader ostili a Washington: l’iraniano
Mahmoud Ahmadinejad e il bielorusso
Alexander Lukashenko. Invitò Vladimir
Putin a mandare le sue navi a esercitarsi in
acque venezuelane e gli vendette delle armi. Era sempre più vicino a Fidel Castro e
dipendente dal legame con il leader cubano. Il petrolio venezuelano arrivava in una
Cuba priva di energia, mettendo di fatto
ine a quasi un decennio di penurie del “periodo speciale” seguito al crollo dell’Unione Sovietica e all’improvvisa ine dei in

ziamenti provenienti da Mosca. Medici
cubani, istruttori sportivi ed esperti di sicurezza venivano inviati in Venezuela, per
aiutare Chávez in alcuni programmi sociali – le cosiddette missioni – creati per ridurre la povertà e le malattie nelle baraccopoli
e nelle zone rurali del paese. Chávez e Castro viaggiavano insieme, spesso si facevano visita e a ognuno piaceva molto la compagnia dell’altro.
Nel 2005 – Chávez aveva annunciato
che il socialismo era la strada da seguire
per la sua rivoluzione e per il Venezuela –
l’ho incontrato al palazzo presidenziale.
Straripava di nuovo fervore rivoluzionario.
In una riunione con alcuni contadini poveri, il presidente annunciò che i grandi latifondi dell’interno del paese sarebbero stati
coniscati e consigliò con euforia di organizzarsi in gruppi per lavorare quelle terre.
“Ras!”, gridò diverse volte. “Ras!”. Un aiutante spiegò che la sigla stava per rumbo al
socialismo, verso il socialismo.
Ma i risultati sono stati scarsi. I tentativi
di collettivizzazione e di riforma agraria di
Chávez erano mal pianificati e fuori dal
tempo, proprio come il presidente stesso,
un personaggio riesumato da un passato in
cui l’America Latina era governata da caudilloscapricciosi e il mondo era diviso in
due grandi blocchi dalla guerra fredda.
Un paio d’anni dopo gli chiesi perché
avesse deciso di aderire al socialismo così
tardi. Lui ammise di esserci arrivato in ritardo, molto dopo che il resto del mondo lo
aveva abbandonato, ma disse che qualcosa
era scattato dentro di lui dopo aver letto il
romanzoI miserabili  di Victor Hugo. Per
questo, e per Fidel.
un cuore grande
Spinto dai miliardi di dollari ottenuti con
l’aumento del prezzo del petrolio, negli ultimi anni Chávez guadagnò inluenza in
tutto l’emisfero, intessendo rapporti con
diversi governi emergenti di sinistra, che in
alcuni casi aiutò a sostenere e a creare: in
Bolivia, in Argentina, in Ecuador e in Nicaragua, guidato dal vecchio leader sandinista Daniel Ortega. Creò un blocco commerciale, chiamato Alba, per contrastare
l’egemonia economica statunitense nella
regione. E pronosticò un indebolimento
dell’inluenza di Washington e un’opportunità, in in dei conti, per far risorgere il
grande sogno di Bolívar. In un certo senso
Chávez aveva ragione. L’inluenza statunitense si è indebolita negli ultimi dieci anni
in America Latina. Però nella regione non
è stato il Venezuela, ma il Brasile a riempire
i vuoti. L’ex presidente brasiliano, Luiz
Inácio Lula da Silva, aveva fatto del “popolo” e della riduzione della povertà una priorità. Con una squadra migliore e senza lo
scontro frontale con l’impero, Lula ha ottenuto risultati enormi. In Venezuela, invece,
la rivoluzione di Chávez ha dovuto fare i
conti con amministratori mediocri e un’organizzazione ineiciente.
Cosa rimane dopo Chávez? Un grande
vuoto per milioni di venezuelani e altri latinoamericani, soprattutto poveri, che lo
consideravano un eroe e un protettore,
qualcuno che “si preoccupava” per loro come nessun altro leader dell’America Latina
aveva fatto nel recente passato. Si dispereranno perché non ci sarà un altro come lui,
nessuno con un cuore così grande e uno
spirito così radicale. Forse hanno ragione.
Ma è altrettanto vero che il chavismo non
ha ancora dato risultati.
Il successore designato di Chávez, Nicolás Maduro, cercherà di portare avanti la
rivoluzione, ma i problemi sociali ed economici del paese si stanno accumulando e
sembra probabile che, in un futuro non lontano, all’inquietudine per la perdita del
leader si aggiungerà quella per la rivoluzione lasciata a metà.
Nel 2006 Castro si è ammalato di diverticolite ed è stato sul punto di morire. Un
anno e mezzo dopo ha rinunciato alla presidenza e ha passato il testimone al fratello
minore  Raúl.  Ero  sull’aereo  di  Chávez
quando andò a Cuba, nel 2008, per congratularsi con Raúl. All’Avana, Chávez si assentò per andare a trovare Fidel, che era
ancora malato e nascosto. Nel volo di ritorno informò tutti noi passeggeri a bordo che
“Fidel stava bene”. E aggiunse: “Fidel mi
ha chiesto di salutarvi tutti da parte sua”.
Cinque anni dopo i fratelli Castro, entrambi  ottantenni,  sono  vivi  e  vegeti.
Chávez è uscito di scena. u f

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