domenica 4 maggio 2014

987 - Il valore delle onde Gregory Thomas,

el 2002 il surista Chad
Nelsen chiese a un eco­
nomista  della  Duke
university di aiutarlo a
issare il prezzo di una
famosa località amata
dagli appassionati di surf sulla costa nord­
occidentale di Puerto Rico. Nelsen aveva
avuto un’idea insolita: dimostrare che le
onde della spiaggia erano una risorsa che
valeva milioni di dollari e convincere l’am­
ministrazione locale a tutelare quel tratto
di costa. Le imprese edili di Puerto Rico
avevano messo gli occhi su un’altra risorsa
milionaria: il panorama dalla spiaggia, l’ar­
gomento più convincente per vendere tre
condomini multipiano di prossima costru­
zione.
I suristi e gli ambientalisti temevano
che lo sviluppo edilizio di Rincón, la locali­
tà portoricana in questione, potesse modi­
icare il lusso dei sedimenti intorno alla
spiaggia danneggiando la barriera natura­
le su cui si infrangevano le onde. L’obietti­
vo di Nelsen era dimostrare che senza la
barriera non ci sarebbero stati più né onde
né suristi, e il turismo ne avrebbe risenti­
to. “Avevamo scoperto che la gente com­
prava casa a Rincón solo per fare surf. Le
onde davano un contributo di milioni di
dollari all’economia locale”, dice Linwood
Pendleton, l’economista di Duke che ha
collaborato con Nelsen e che oggi è il re­
sponsabile economico della National oce­
anic and atmospheric administration.
La vicenda di Rincón e della sua famosa
barriera naturale, scoperta dai suristi alla
ine degli anni sessanta, è la rappresenta­
zione di un ciclo che si ripete inesorabile
come le maree: un gruppo di suristi in cer­
ca dell’onda perfetta scopre una spiaggia
sperduta, la voce si sparge, i turisti arriva­
no a frotte, poi i costruttori mettono le ma­
ni sui terreni e lo sviluppo edilizio modiica
la conformazione dei fondali. Fine delle
onde.
Storicamente i suristi hanno sempre
riiutato l’idea di dare un prezzo a madre
natura, insistendo sui meccanismi geolo­
gici e idrologici che determinano le carat­
teristiche e la qualità delle onde. Negli ulti­
mi tempi, però, Nelsen e un gruppo di in­
tellettuali del surf hanno scelto una nuova
strategia: abbandonare la retorica ambien­
talista per combattere l’economia con le
sue stesse armi. “Quando vediamo un po­
sto così bello, noi che amiamo davvero
l’oceano pensiamo istintivamente che non
abbia prezzo e che la merciicazione della
natura sia la prima causa della distruzione
dell’ambiente. Ma in realtà è un pensiero
controproducente”, ha spiegato nell’aprile
del 2012 Jason Scorse, direttore del Center
for the blue economy, durante un dibattito
al Tedx di Monterey. “Quando si sottova­
luta la natura, si prendono decisioni sba­
gliate”, ha aggiunto Scorse, che nel 2010
ha pubblicato il saggio What environmentalists need to know about economics(Quello
che  gli  ambientalisti  devono  sapere
sull’economia).
L’apertura dei cantieri
Rincón è stata una delle poche battaglie
vinte dai suristi. La campagna internazio­
nale per la tutela della barriera naturale
promossa dalla Surfrider foundation è riu­
scita a bloccare l’apertura dei cantieri e ha
convinto gli amministratori locali a fare di
Tres Palmas – il nome della spiaggia amata
dai suristi – il cuore della prima riserva
marina di Puerto Rico. La campagna ha
inoltre fatto nascere una nuova scienza: la
surfonomics. Nel marzo del 2012 Nelsen ha
completato un dottorato in scienze am­
bientali all’Università della California a
Los Angeles, dove ha studiato teoria eco­
nomica del surf. La surfonomicsè una bran­
ca dell’economia delle risorse naturali che
ha l’obiettivo di quantiicare il valore delle
onde, sia nel mercato sia fuori dal mercato
(cioè quanto le persone sono disposte a pa­
gare per non rinunciare alle onde). “Spesso
si parte dal presupposto che il surf non vale
neanche un dollaro”, dice Nelsen, che nel
frattempo è diventato il direttore della Surfrider foundation. “Lo si dà per scontato. Il
surf non è percepito come una risorsa economica seria e  importante,  soprattutto
dalle persone che prendono le decisioni
sulle zone costiere, quelle con cui ci confrontiamo continuamente”.
Per dimostrare che un’onda ha un valore intrinseco, Nelsen è partito dalla base.
Nell’agosto del 2011 ha presentato uno studio in cui ha calcolato il numero dei suristi
negli Stati Uniti e i soldi che spendono per
il privilegio di cavalcare le onde. Dopo aver
intervistato più di cinquemila suristi, Nelsen è arrivato alla conclusione che negli
Stati Uniti ci sono 3,3 milioni di persone
che fanno surf 108 volte all’anno, percorrendo una media di sedici chilometri alla
volta e dando un contributo di almeno due
miliardi di dollari all’anno all’economia
nazionale. “Il rapporto dimostra che negli
Stati Uniti ci sono moltissimi suristi che
visitano tantissime spiagge e spendono un
sacco di soldi nell’economia locale. Quindi
i loro interessi vanno presi sul serio”.
In parte il lavoro di Nelsen cerca di sradicare lo stereotipo del surista sbracato
che si fa le canne, vive in roulotte e non dà
nessun contributo alla società. Nelsen deinisce questo pregiudizio il “virus di Spicoli”, dal mitico personaggio del surista
fannullone interpretato da Sean Penn nel
ilm Fuori di testa, del 1982. Secondo lo studio, oggi il surista medio ha 34 anni e guadagna più di 75mila dollari all’anno.
“Ancora dieci anni fa c’era un atteggiamento di sufficienza verso questi temi,
considerati ‘roba da suristi sballati’”, spiega Michael Walther, un ingegnere costiero
della Florida che nel 2001 con le sue ricer che ha convinto le autorità della contea di
Monmouth, nel New Jersey, a ritirare un
piano di ripascimento della spiaggia (un
intervento per restituire o ripristinare i lidi
costieri soggetti all’erosione continua) che
avrebbe distrutto una barriera naturale a
Sandy Hook.
Quando si parla della costruzione di un
nuovo porto a Los Angeles, di un terminal
per le navi da crociera in Australia, di una
fabbrica in Messico o di un molo in Francia
non si tiene conto dei danni potenziali legati alla ine del surf, che porta soldi nelle
casse delle amministrazioni locali. Tutte le
volte che i suristi fanno sentire le loro ragioni, osserva Nelsen, lo fanno in modo
appassionato ma eccessivamente astratto:
quello che manca nelle loro argomentazioni è il legame concreto tra lo sviluppo edilizio, le caratteristiche del fondale e l’economia locale. La posizione dei costruttori,
invece, è molto più facile da inquadrare in
termini economici: posti di lavoro, ricavi e
crescita del pil.
Un esempio è Madeira, in Portogallo,
una delle barriere naturali più apprezzate
dai suristi di tutto il mondo. La barriera è
stata alterata quando il governo, negli anni
novanta,  ha  fatto  costruire  un  argine.
L’obiettivo del progetto era difendere la
scogliera dall’erosione e preparare la zona
alla costruzione delle infrastrutture turistiche. L’associazione statunitense Save the
waves si è opposta, sostenendo che l’argine
avrebbe creato dei pericoli per i suristi.
Alla ine l’opera è stata realizzata e i suristi
hanno smesso di andare a Madeira. Will
Henry, il fondatore di Save the waves, è
convinto che la battaglia sia stata persa
perché non è stata preparata in modo adeguato. “Bisogna parlare in dollari e usare
un linguaggio che le amministrazioni siano in grado di capire”, spiega Henry. “Noi
all’epoca non avevamo dati reali per dire
‘questa risorsa nei prossimi dieci anni varrà tot dollari’. Queste informazioni non
esistevano”.
Da allora Save the waves – in collaborazione con l’università di Stanford, l’università dell’Oregon e l’università delle Hawaii
– ha presentato due studi che cercano di
stabilire il valore economico delle barriere
naturali. Un rapporto del 2010 stima che
Mavericks, epicentro del surf su onde giganti ad Half Moon Bay, in California, vale
23,9 milioni di dollari all’anno. Secondo
uno studio analogo del 2007, le onde di
Mundaka, sulla costa settentrionale della
Spagna, portano all’economia locale circa
4,5 milioni di dollari all’anno.
Gli economisti calcolano il valore delle
onde tenendo conto delle spese di soggiorno dei suristi e degli spettatori. Gli indicatori considerati sono le distanze degli spostamenti, le visite annuali, il tempo sottratto al lavoro, la durata del soggiorno, il tempo di spostamento in auto, il costo del carburante, le tarife orarie per i parcheggi, le
pause per mangiare e l’aitto delle attrezzature. L’insieme di queste variabili, secondo la teoria, indica la quantità di denaro che ognuno è disposto a spendere per
vivere l’esperienza del surf. Nel caso di
Mavericks, per esempio, gli economisti
hanno  calcolato  che  ogni  anno  più  di
420mila persone, non solo suristi, arrivano nella località californiana per vedere le
onde e spendono in media 56,70 dollari a
soggiorno.
Un tesoro nazionale
A Yellowstone, il primo parco nazionale
degli Stati Uniti, tutelare le risorse naturali
è un’abitudine antica. Il parco è stato fondato nel 1872 “per il beneicio e il divertimento del popolo”, come dice lo statuto
irmato dal presidente Ulysses S. Grant.
L’economia delle risorse naturali nasce
dallo stesso concetto. All’inizio era un modo per quantiicare il valore dell’industria
mineraria, della pesca e del legname, ma successivamente ha
permesso agli studiosi di calcolare anche il valore in dollari del
turismo e delle attività collegate.
Con questo sistema gli economisti stabiliscono quanto le persone sono disposte a pagare per andare a sciare, per
osservare le balene o per fare un’escursione lungo l’Appalachian Trail. “Queste onde
sono la nostra Yosemite valley”, dice Nelsen. “Per noi sono un tesoro nazionale e
meritano la stessa considerazione e tutela”.
Proprio come i parchi nazionali, che applicano delle restrizioni ad alcune zone
selezionate, i suristi stanno cominciando
a inserire le barriere naturali più importanti del mondo in un registro chiamato World
suring reserves. La lista è stata creata nel
2009 da Save the waves sul modello di
un’organizzazione australiana, la National
suring reserves, che in collaborazione con
le amministrazioni pubbliche è riuscita a
portare avanti una decina di programmi di
tutela ambientale per le barriere naturali.
Spesso quello che manca è l’elemento inanziario, il fattore chiave per convincere
chi  deve  prendere  le  decisioni,  spiega
l’economista Neil Lazarow, che ha studiato l’impatto economico del surf sulla famo sa Gold coast australiana.
Nel 2011 il movimento che cerca di applicare l’economia all’ambiente ha avuto il
sostegno importante del Council of advisors on science and technology del presidente degli Stati Uniti. In un rapporto presentato alla Casa Bianca, il consiglio ha
raccomandato di investire nella ricerca legata al “capitale ambientale”, cioè alle risorse naturali non di consumo per le quali i
cittadini sono disposti a pagare. L’idea che
risorse autosuicienti come le onde non
attirino lussi di denaro solo perché è impossibile contare le persone come quando
attraversano i tornelli allo stadio è antiquata, spiega Pendleton, della Duke university. “Spesso ci siamo concentrati sull’uso
industriale degli spazi all’aperto, dimenticandoci di usi molto più sostenibili, in particolare dell’uso ricreativo”, aggiunge Pendleton. “E lo facciamo a nostro rischio e
pericolo, economicamente parlando”.
Gli studi economici di attività come il
surf sono fondamentali quando si fa una
valutazione dei danni provocati dai disastri
ambientali, come per esempio la
perdita di petrolio dalla piattaforma  Deepwater  horizon  nel
Golfo del Messico. “Purtroppo
stiamo seguendo molti studi legati a calamità naturali, in cui si
cerca di capire le cose solo a fatto compiuto”,  dice  Charles  Colgan,  responsabile
economico del National ocean economic
program, un progetto del Monterey institute of international studies. “Non vogliamo aspettare la prossima fuga di petrolio o
il prossimo uragano per capire cosa sta
succedendo. È un modo costoso di fare le
cose”.
Con la crisi di settori tradizionali come
la pesca commerciale, il turismo rappresenta una fetta sempre più grossa dell’economia del mare. Secondo le ricerche della
National oceanic and atmospheric administration, l’agenzia del governo statunitense che si occupa delle condizioni degli oceani e dell’atmosfera, nel 2009 la pesca
commerciale ha prodotto poco meno di 5,7
miliardi di dollari di fatturato, mentre il
turismo e le attività ricreative hanno generato ricavi per più di 61 miliardi di dollari.
Secondo Colgan, la crescita del turismo
costiero è dovuta in parte alla crisi economica, che ha spinto molte persone a spostarsi verso l’interno, dove gli alloggi costano meno. Dal momento che vivere vicino a dove si fa surf costa troppo, la gente ha
cominciato a viaggiare di più. “Man mano
che la crescita si sposta verso l’interno e
che le persone si spostano di più per raggiungere la costa, l’idea che il surf sia solo
un fenomeno culturale va rivista”, osserva
Colgan. “Qui non si parla più solo di una
piccola striscia di spiaggia. La questione
riguarda un’area geograica molto più ampia”.
Una teoria rischiosa
Gli studiosi ammettono che la surfonomics
è una teoria rischiosa. Finora i pochi studi
che documentano il valore delle onde non
sono stati messi in discussione o analizzati
dai costruttori. In un rapporto del 2010 sulle risorse dell’oceano, l’associazione Surfers against sewage si chiede per esempio
cosa succederebbe se si fosse costretti a
scegliere tra un’onda del valore stimato di
24 milioni di dollari all’anno e un nuovo
albergo da 30 milioni di dollari. “In quel
caso i costruttori sarebbero in una posizione tale da poter ‘comprare’ le onde ai suristi?”.
“È questo il timore, soprattutto quando
le attività turistiche si scontrano con operazioni come l’estrazione del petrolio al
largo delle coste”, dice Pendleton. “Come
possiamo competere?”.
Scorse, il direttore del Center for the
blue economy, è nelle fasi conclusive di
uno studio in cui cercherà di dimostrare
che il surf può dare un contributo di centinaia di milioni di dollari al isco attraverso
le tasse sugli immobili. La ricerca, che dovrebbe  essere  completata  entro  la  fine
dell’anno, mostra che le case in prossimità
delle spiagge frequentate dai suristi a Santa Cruz, in California, valgono molto di più
di quelle più distanti dalle grandi barriere
naturali. Nelsen, invece, non è preoccupato delle implicazioni. “Non stiamo dicendo
che il mondo si riduce a una grande analisi
costi-benefici”, dice. “Probabilmente a
Yosemite oggi si farebbero più soldi riempiendo il parco di appartamenti. Ma a nessuno verrebbe in mente di farlo. La surfonomicsè solo un modo di misurare il valore
di queste risorse. Non è l’unico”. u  fas

Nessun commento:

Posta un commento