lunedì 20 gennaio 2014

1029 - Pensiero sfuggente

Tim Bayne, New Scientist, Regno Unito
Foto di Cerise Doucède
Consapevoli o involontari, i pensieri riempiono la
nostra mente in ogni momento. Ma cosa signiica
esattamente pensare? Possiamo controllare questa
facoltà? Esiste un limite al pensabile? 




e ci riuscite, provate a immaginare una vita senza pensiero. Non sarebbe una grande
esistenza. I pensieri riempiono tutti i nostri momenti di
veglia, e che siano profondi,
banali, divertenti o bizzarri, non possiamo
negare che ci vengono naturali. Potremmo
dire che per gli esseri umani pensare è come
volare per le aquile o nuotare per i delini.
Ma una cosa è pensare e un’altra è comprendere la natura del pensiero. Come le
aquile volano senza sapere nulla di aerodinamica e i delini nuotano senza conoscere
la meccanica dei luidi, la maggior parte di
noi pensa senza avere la più pallida idea di
cosa signiichi farlo. Chiunque può pensare,
ma è piuttosto raro che qualcuno riletta sul
pensiero in sé.
Cos’è il pensiero allora? È diicilissimo
rispondere a questa domanda. Le neuroscienze, la psicologia, la ilosoia e altre
discipline ci hanno dato ognuna una risposta, ma il problema non ha mai ottenuto
tutta l’attenzione che merita. Forse perché
è un fenomeno estremamente vario e complesso. Possiamo pensare a un’incredibile
varietà di cose: oggetti, persone, luoghi,
rapporti, concetti astratti, presente, futuro, cose reali e immaginarie. Possiamo non
pensare  a  niente  e  pensare  al  pensiero
stesso.
Il funzionamento del pensiero ci sfugge,
anche se ormai ne sappiamo qualcosa. Lo
usiamo per risolvere problemi e per inven tare cose nuove, ma ino a che punto lo controlliamo? E inine, esiste un limite a quello
che possiamo pensare?
Prima di provare a rispondere a queste
domande dobbiamo fare qualche distinzione, perché il termine “pensiero” si può riferire a tre aspetti diversi della nostra vita
mentale. Per un verso, è un tipo di evento
mentale. Pensare a qualcosa significa richiamarlo alla mente. Per un altro, è una
facoltà. Come esistono facoltà associate
alla percezione e al linguaggio, esiste anche
una facoltà – o forse più di una – associata
alla capacità di pensare. Inine il pensiero è
anche un tipo di attività. Come possiamo
essere impegnati nell’attività di cercare o
ascoltare qualcosa, possiamo anche esserlo
nell’attività di pensare a qualcosa.
Consideriamo prima di tutto il pensiero
come evento mentale. Cosa sono i pensieri
e cosa li distingue da altri tipi di eventi mentali come le esperienze percettive e le sensazioni isiche? Immaginate di essere davanti a un falò. Potete vedere le iamme e
sentire il calore. Queste sono esperienze
puramente percettive. Ma potreste anche
chiedervi cosa succederebbe se il vento
cambiasse direzione o come funziona la
combustione. Questi eventi sono indotti
dall’esperienza percettiva, ma non sono
percezioni. Sono pensieri.
Anche se la distinzione tra percezione e
pensiero è intuitiva, nessuno è stato mai in
grado di esprimerla in modo inequivocabile. Un modo per farlo è dire che il pensier implica l’impiego di concetti e la percezione
sensoriale no. È possibile vedere un falò anche senza possedere il concetto di falò, ma
è impossibile pensarlo. Tuttavia, questa deinizione non convince tutti. Alcuni teorici
sostengono che anche la percezione implica l’impiego di concetti. E poi non è facile
spiegare con precisione cos’è un concetto.
Un’altra distinzione possibile è che i
pensieri sono coscienti, le percezioni no:
pensare a un falò non è la stessa cosa che
percepirlo. Ma anche qui si va incontro a
qualche diicoltà. Tutti concordano sul fatto che pensare a un falò è soggettivamente
diverso dal percepirlo, ma non è semplice
spiegare perché. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che anche i pensieri possono essere inconsci, come quando
state cercando di risolvere un problema e vi
viene in mente un’idea, oppure ci dormite
sopra e la mattina dopo scoprite che si è miracolosamente risolto. Quindi non possiamo far conto sulla coscienza per distinguere
il pensiero da altri eventi mentali.
E come facoltà? Un punto di partenza
utile potrebbe essere la deinizione che c  dà Cartesio del pensiero come “strumento
universale che può servire in qualsiasi occasione”. Cosa intendeva dire?
Torniamo alla diferenza tra percepire e
pensare. Per percepire, supponiamo, una
mela, dev’esserci un nesso causale tra noi e
la mela. Prima di tutto la mela deve rilettere la luce, che a sua volta deve essere elaborata dal nostro sistema visivo. Ma per pensare a una mela non è necessario nessun
nesso simile. Possiamo farlo in qualsiasi
momento, anche se non l’abbiamo davanti.
È questo che consente alla facoltà del pensare di essere usata “in qualsiasi occasione”.
Un’altra caratteristica del pensiero che
ci fa osservare Cartesio è l’ampiezza della
sua sfera d’azione. La percezione ci permette di accedere a una gamma limitata di cose. La vista può dirci se una mela è rossa o se
sta cadendo, ma solo una creatura capace di
pensare può sapere che è originaria dell’Asia
occidentale o che ha più geni di un essere
umano. Possiamo pensare a oggetti che sono molto lontani da noi nello spazio e nel
tempo, a cose concrete e astratte, al passato  e al futuro, a ciò che esiste e a ciò che non
esiste. La portata del pensiero umano non è
proprio illimitata, ma senza dubbio è molto
più ampia di quella della percezione.
L’importante è capire
Un’altra caratteristica della facoltà di pensiero è la sua capacità di integrare i concetti,
che ci permette di collegare due eventi e di
capire che rapporto c’è tra loro.
Pensate a un famoso episodio della storia della medicina. Negli anni quaranta
dell’ottocento, mentre lavorava in un ospedale di Vienna, il medico Ignaz Semmelweis si accorse che l’incidenza della febbre
puerperale era molto più alta in un reparto
maternità che in un altro. Notò anche che di
quel reparto si occupavano gli studenti che
efettuavano le autopsie. Questo lo portò a
chiedersi se non fossero per caso loro a infettare le donne. Cercò di veriicare questa
ipotesi chiedendo ai giovani di lavarsi le
mani con l’ipoclorito di calcio – noto per la
sua capacità di eliminare l’odore dei cadaveri – prima di andare in reparto. Questo
determinò una notevole diminuzione delle morti per febbre puerperale.
La scoperta di Semmelweis, che gettò le
basi della teoria dei germi come causa delle
malattie, richiedeva una doppia integrazione: non solo aveva fatto un collegamento al
quale ino a quel momento nessuno aveva
pensato, ma aveva anche concepito un modo per veriicare l’ipotesi che ne derivava.
Usiamo ogni giorno questa capacità di risolvere i problemi. Che si tratti di programmare una vacanza o semplicemente di decidere come arrivare da un posto a un altro,
passiamo la maggior parte della nostra vita
a considerare i rapporti tra gli eventi.
Ora passiamo al pensiero come attività
mentale. Anche se possono essere isolati, di
solito i pensieri sono concatenati tra loro.
Esistono due tipi di concatenazione. A volte
il rapporto tra pensieri è di tipo associativo:
uno porta naturalmente e spontaneamente
a un altro. Per esempio, se stiamo pensando
alla Svizzera può venirci in mente lo sci, che
a sua volta può spingerci a pensare alla neve, di conseguenza al Natale, e così via. Di
solito pensiamo in questo modo quando
sogniamo a occhi aperti o fantastichiamo.
Anche  se  è  piacevole  seguire  questo
lusso, la vera forza del pensiero risiede in
qualcosa di più sistematico: nel fatto che ci
permette di usare la logica deduttiva. Anzi,
a volte il termine “pensiero” è riservato
esclusivamente a questa attività. Pensate
alla serie di enunciati “Socrate è un uomo”,
“Tutti gli uomini sono mortali”, quindi “Socrate è mortale”. I tre elementi sono collegati tra loro per inferenza: se i primi due
sono veri, deve necessariamente esserlo
anche il terzo. L’importanza del pensiero si
basa soprattutto sulla nostra capacità di organizzare i concetti in modo coerente per
“capire” cosa consegue da cosa. In altre parole, quello che ci interessa di più è il ragionamento.
Dopo aver distinto tra i vari aspetti del
pensiero, possiamo rivolgere l’attenzione
alla sua natura. Cos’è esattamente?
Un tempo si credeva che richiedesse un
qualche tipo di mezzo non isico, un’anima
o una mente immateriale. I ilosoi moderni
respingono questa ipotesi a favore di una
spiegazione più materialistica, secondo cui
pensare comporta solo una serie di processi
isici.
I motivi alla base di questa teoria sono
tre. Il primo è che spiega i rapporti tra stati
cerebrali e stati mentali. Dai leggeri cambiamenti indotti dalla cafeina a quelli più
radicali provocati dai danni cerebrali, è
chiaro che le condizioni del cervello sono
strettamente collegate alla nostra capacità
di pensare Il secondo motivo è che spiega il ruolo
causale del pensiero. I pensieri sono causati da eventi isici ma possono anche esserne
la causa a loro volta. Vedere un treno entrare in stazione può portarci a pensare che è
“ora di andare”, e questo ci spinge a prendere la valigia e a salire sul treno.
In terzo luogo, la concezione materialistica del pensiero confermerebbe la continuità dell’evoluzione naturale. Supponiamo che gli esseri umani si siano evoluti da
animali che non erano in grado di pensare.
Anche se non si può escludere che questo
abbia comportato l’emergere di un mezzo
non isico, è più plausibile ipotizzare che
l’evoluzione delle creature pensanti sia dovuta a una serie di cambiamenti strutturali
che si sono veriicati nei sistemi isici.
Se la consideriamo separatamente, nessuna di queste motivazioni è decisiva, ma
messe tutte insieme costituiscono una prova abbastanza convincente della validità
della teoria isicalista del pensiero. Ma come fanno i pensieri, in quanto fenomeni isici, a manifestarsi nel cervello?
Per buona parte della storia umana il
pensiero è sempre stato qualcosa di personale e privato, che poteva essere espresso
solo attraverso la parola e il comportamento. Esistono già varie teorie su come nascono i pensieri, ma gli ultimi sviluppi delle
tecniche di “decodiica”, o lettura, del cervello, cominciano a renderlo oggetto di studi più diretti.
Con l’aiuto della risonanza magnetica
funzionale, i neuroscienziati sono in grado
di usare le informazioni sullo stato cerebrale di una persona per stabilire cosa sta pensando. Nel corso di uno studio è stato chiesto ai partecipanti di scegliere tra due opzioni – “somma” o “sottrazione” – prima di
vedere due numeri sui quali avrebbero poi
dovuto efettuare l’operazione prescelta. I
ricercatori sono riusciti a capire con una
precisione del 70 per cento se i soggetti avevano deciso di sommare o sottrarre, e quindi in pratica di leggere le loro intenzioni.
Altri ricercatori sono riusciti a determinare
cosa guardava una persona semplicemente
osservando la sua attività cerebrale.
Anche se i primi risultati sembrano entusiasmanti, è bene sottolineare i limiti di
questi studi. In primo luogo, la gamma di
cose alle quali si chiede ai soggetti di pensare è artiicialmente ristretta. Nello studio
sull’addizione e la sottrazione, le possibilità
erano solo due. Nel mondo reale la gamma
dei nostri pensieri non è così limitata, e
quindi interpretare l’attività mentale di una
persona nella vita quotidiana sarà molto più
diicile.  La decodiica dei pensieri richiede una
lunga  preparazione,  è  necessario  prima
tracciare una mappa delle correlazioni tra
pensieri e attività cerebrale. I ricercatori
non possono leggere pensieri che non sono
già inseriti nel loro database. Il brain imagingnon è ancora in grado di decodiicare il
linguaggio del pensiero, e la possibilità di
progettare una macchina capace di leggere
i pensieri umani è ancora molto lontana.
Nella mente degli animali
Una delle questioni più discusse sulla natura del pensiero riguarda il ruolo del linguaggio. In proposito esistono opinioni diverse.
A un’estremità dello spettro c’è chi sostiene
che pensiamo con le parole. All’altra c’è chi
dice che il linguaggio non svolge alcuna
funzione se non quella di permetterci di comunicare i nostri pensieri. Molto probabilmente la verità sta nel mezzo.
Un modo per intervenire in questo dibattito è considerare che tipo di pensieri
possono avere gli animali non umani. Condurre ricerche in questo settore è molto dificile, ma esistono almeno tre campi in cui è
stato possibile dimostrare l’esistenza di un
pensiero animale: i numeri, i rapporti sociali e gli stati psicologici.
Molte specie hanno la capacità di individuare proprietà matematiche basilari. Durante uno studio, i ricercatori hanno prima
insegnato alle cavie a premere una leva
quando  sentivano  due  suoni  e  un’altra
quando ne sentivano quattro, poi a fare la
stessa cosa quando vedevano dei lampi di
luce. In seguito, quando si sono trovate davanti a un suono e a un lampo, le cavie hanno premuto la prima leva, lasciando quindi
intendere che avevano interpretato lo stimolo come “due eventi”, mentre davanti a
due note e due lampi, hanno premuto la seconda.
Alcune specie sono anche in grado di
confrontare le quantità con una certa precisione.  Durante  un  esperimento,  a  degli
scimpanzé è stata oferta la scelta tra due
vassoi di gocce di cioccolato. Su ogni vassoio ce n’erano due mucchietti – per esempio,
uno di tre e uno di quattro, e uno di sette e
uno di due – e gli animali dovevano stabilire
su quale ce n’erano di più. Alla ine riuscivano sempre a scegliere quello giusto, anche
se con quantità molto simili facevano più
fatica.
Gli scimpanzé sono in grado di capire
anche le frazioni semplici. Dopo che gli è
stato mostrato un bicchiere di latte pieno a
metà, per ottenere una ricompensa sono
capaci di distinguere tra una mezza mela e
una a tre quarti.
Nel complesso, sembra dimostrato che
un certo numero di specie è in grado di
quantiicare gli oggetti ino a tre unità, e di
valutare  approssimativamente  quantità
maggiori. Nella misura in cui sono indipendenti dagli stimoli e sistematiche, queste
rappresentazioni  mentali  sono  simili  ai
pensieri.
Un’altra sfera nella quale esistono le
prove di un pensiero animale è quella dei
ranghi sociali. Le ricerche più estese sulle
cognizioni sociali sono state condotte sui
babbuini femmina, nel cui complesso mondo sociale esiste una gerarchia a due livelli:
quello delle famiglie tra loro, e quello delle
femmine all’interno di ogni famiglia.
Questa gerarchia, anche se non è rigidissima, svolge un ruolo fondamentale nella società dei babbuini, quindi è comprensibile che questi animali abbiano una rappresentazione complessa del loro mondo sociale. Per esempio, un babbuino può essere
più spaventato dalla sequenza di richiami
emessa da un maschio subordinato per minacciarne uno dominante di una famiglia
diversa, che non da quella che rappresenta
un conlitto simile all’interno della stessa
famiglia, anche se la diferenza di rango è
identica.
La comprensione che un babbuino mostra di avere del suo mondo sociale ha più di
un aspetto in comune con il pensiero. In primo luogo, il livello gerarchico non è immediatamente evidente e per riconoscerlo è
necessario avere una teoria in proposito. In
secondo luogo, questa comprensione sembra essere elastica: un babbuino è in grado
di concepire un gran numero di possibili
rapporti, anche inaspettati, tra membri del
suo branco. Queste caratteristiche permettono di deinire la rappresentazione mentale che i babbuini hanno del loro mondo sociale come una forma di pensiero.  Un terzo settore in cui sono state scoperte rappresentazioni mentali simili a pensieri è quello della comprensione degli stati
psicologici. Sembra che almeno i primati
siano in grado di stabilire quello che gli altri
possono vedere – e quindi, probabilmente
sanno – in base a quello che stanno guardando. Seguono lo sguardo di altri animali
per individuare l’oggetto della loro attenzione e rimuovono il cibo dalla loro visuale.
Negli esperimenti, gli scimpanzé di rango
inferiore prendono solo il cibo che quelli
dominanti non possono vedere (di solito i
dominanti prendono tutto il cibo e puniscono i subordinati che li sidano), il che fa pensare che comprendono il collegamento tra
vedere e sapere.
Sdoppiamento
È stato anche dimostrato che i primati sono
in grado di controllare i loro stati mentali. In
una serie di studi, alcune scimmie avevano
imparato a sottoporsi a un test in cui dovevano distinguere tra due forme. Quando
rispondevano correttamente gli veniva offerto del cibo, quando sbagliavano non ricevevano nulla ed erano obbligate ad aspettare un po’ di tempo prima della prova successiva, cosa che detestavano fare. Così
avevano imparato che premendo un bottone potevano saltare una prova e passare
immediatamente alla successiva. Dall’uso
che ne facevano si deduceva che erano in
grado di valutarne la diicoltà, perché sceglievano di saltare solo quelle più diicili.
Sembra ormai chiaro che le specie non
umane usano processi simili al pensiero in
diverse situazioni, ma che comunque non si
avvicinano mai all’ampiezza e alla rainatezza del pensiero umano. Perché questo è
così unico? Sembra che l’elemento discriminante sia il linguaggio.
Pensate al seguente esperimento condotto su Sheba, una femmina di scimpanzé
addestrata a usare i numeri per rappresentare gli oggetti. I ricercatori le avevano offerto due piatti di cibo, uno grande e uno
piccolo. Per avere il piatto più grande, doveva indicare quello piccolo. Anche se aveva
capito la regola, non riusciva a superare
l’istinto di indicare quello più grande, ino a
quando i piatti non sono stati coperti e sopra
ci sono stati messi dei numeri.
L’uso dei simboli ha permesso a Sheba
di andare oltre le sue normali capacità e di
fare qualcosa di molto più intelligente: separare il pensiero dalla percezione. Questo
“sdoppiamento” è uno dei tratti tipici del
pensiero  umano  e  può  essere  facilitato
dall’uso di simboli, in particolare linguistici
(e forse addirittura lo richiede).
Un altro esempio del potere dei simboli
ci è fornito da uno studio sugli scimpanzé
addestrati a usare targhette di plastica per
rappresentare l’identicità e la diferenza.
Per esempio, due tazze potevano essere associate a un triangolo rosso (identicità),
mentre una tazza e una scarpa a un cerchio
azzurro (diferenza).
Una volta capito questo concetto, ma
solo a quel punto, gli scimpanzé erano in
grado di comprendere rapporti di identicità
e diferenza più complessi. Capivano che il
rapporto tra due coppie di oggetti, come
tazza-tazza e tazza-scarpa, era di diferenza. Secondo i ricercatori, le targhette permettevano agli animali di rispondere correttamente perché trasformavano un compito complesso in quello più semplice di
stabilire se il simbolo associato alle due
coppie era lo stesso. Come ha osservato il
filosofo Andy Clark: “L’uso di etichette
esterne consente al cervello di risolvere
problemi il cui livello di complessità e astrazione ci metterebbe in diicoltà”.
Il linguaggio facilita il pensiero anche
in altri modi. È uno strumento che aumenta la nostra capacità di pensare. Traducendo i pensieri in linguaggio siamo in grado
di fare un passo indietro e sottoporli a una  valutazione  critica. Abbiamo buoni motivi
per supporre che il linguaggio sia il presupposto di alcune caratteristiche distintive
del pensiero umano, o almeno che le renda
possibili.
Un altro tratto caratteristico del pensiero umano è che implica un contesto sociale.
Nasciamo in una comunità di pensatori, e
impariamo a pensare guidati da chi è più
esperto di noi. L’infanzia è un lungo periodo
di apprendistato. Impariamo sia cosa sia
come pensare.
Ma, forse soprattutto, è la cultura a consentire che i pensieri migliori di una generazione  siano  trasmessi  alla  successiva.
Diversamente da altre specie, le cui scoperte cognitive di solito devono essere ripetute
da ogni generazione, noi siamo in grado di
costruire sui pensieri dei nostri antenati.
Ereditiamo non solo il contenuto dei loro
pensieri, ma anche il metodo per generarli,
valutarli e comunicarli.
Fuori controllo
Un altro interrogativo importante che ci poniamo quando consideriamo il pensiero
come attività riguarda il grado di controllo
che esercitiamo su di esso. È un’attività intenzionale o essenzialmente passiva? La
controlliamo o è qualcosa che semplicemente ci succede?
A volte il pensiero è controllato dall’applicazione di regole. Le operazioni matematiche e logiche, per esempio, si basano
su regole, e i ilosoi hanno inventato molti
altri “strumenti sistematici” per pensare
più chiaramente. Ma è un tipo di attività insolito: nella maggior parte dei casi invece il
pensiero non comporta nessuna regola.
Supponiamo che vi chieda perché le democrazie tendono a non dichiarare guerra
alle altre democrazie. Se non avete già rilettuto sulla questione, forse avete bisogno
di pensarci.
Cosa signiica questo esattamente? Se la
vostra esperienza somiglia vagamente alla
mia, vi limitate a porre la domanda a voi
stessi e aspettare che vi venga in mente
qualcosa. A volte non succede quasi niente,
altre volte il vostro inconscio tira fuori qualcosa di intellegibile. In un caso o nell’altro,
non esiste alcuna regola da seguire coscientemente per generare i pensieri che vi servono.
Nel complesso, spesso pensare somiglia
alla semplice attività di porsi delle domande e aspettare che l’inconscio risponda. In
questi casi, il pensiero sembra avere il ruolo
di un guardiano incaricato di garantire che
i nostri pensieri non vadano fuori tema.
In realtà, non siamo afatto bravi a tene  re a freno la tendenza della nostra mente a
divagare. In occasione di uno studio, è stato
chiesto a un gruppo di persone di leggere
mentalmente un brano cercando di non
“distrarsi”. Ogni tanto venivano interrotte
per sapere se stavano ancora leggendo, e si
è scoperto che si distraevano spesso, per di
più senza rendersene conto.
Una buona parte dei nostri pensieri non
ha una direzione precisa, cioè non mira a
uno scopo o a risolvere un problema speciico. Questo modo di pensare può assumere
varie forme, che vanno dal semplice divagare rispetto al compito che ci eravamo preissi ai pensieri spontanei che ci vengono in
mente quando riposiamo o facciamo un lavoro di routine.
Fino a poco tempo fa i pensieri non mirati erano considerati un aspetto inutile e
superluo della nostra vita interiore. Ma oggi i risultati di alcuni studi fanno pensare
che siano normali se non addirittura necessari. L’attività cerebrale che si registra quando la mente vaga senza meta è molto simile
a quella del pensiero creativo cosciente. È
possibile che, paradossalmente, i nostri
pensieri migliori siano proprio quelli non
mirati.
È stato anche dimostrato che cercare di
controllare la direzione di un lusso di pensiero può essere controproducente. In occasione di un famoso studio, lo psicologo
Daniel Wegner ha chiesto a un gruppo di
partecipanti di non pensare agli orsi bianchi
per cinque minuti, e ha scoperto che ci avevano pensato più di quanto avevano fatto i
componenti del gruppo a cui aveva chiesto
di fare il contrario.
Quindi, anche se un certo controllo cosciente sulla direzione dei nostri pensieri lo
abbiamo, non è afatto illimitato. E se abbiamo relativamente poco controllo, forse
abbiamo anche relativamente poca responsabilità per quello che pensiamo.
Nonostante questo, le capacità del pensiero umano sono chiaramente enormi.
Non sono limitate come quelle isiche o percettive. Per esempio, non possiamo vedere
luoghi molto lontani nello spazio e nel tempo, ma possiamo pensarli.
Più lontano
Le capacità della nostra mente hanno un
limite? L’idea che non possiamo capire certi aspetti della realtà a prima vista appare
poco plausibile. Dopotutto, non sembra esserci nessun aspetto del mondo al quale
non possiamo pensare. C’è qualche motivo
per prendere sul serio la possibilità di avere
dei limiti cognitivi?
Ebbene sì. Dato che il meccanismo del
pensiero fa parte della nostra biologia, abbiamo tutti i motivi per sospettare che sia
afetto dalle stesse carenze che costituiscono un vincolo per gli altri sistemi biologici.
Per esempio, è improbabile che gli scimpanzé siano in grado di pensare alla meccanica quantistica, forse perché gli manca la
parola. E se esistono parti della realtà inaccessibili ad altre specie pensanti, perché
dovremmo presumere che per noi siano
tutte accessibili?
Ma  una  cosa  è  ammettere  che  certi
aspetti della realtà vanno oltre la nostra
capacità di comprensione, tutt’altra cosa è
individuare esattamente quali sono. È possibile stabilire i conini del pensiero umano?
Forse questa domanda vi sembrerà assurda. Potreste obiettare che se qualcosa è
impensabile, non possiamo pensarci, e meno che mai sapere che è impensabile. Ma
non c’è nulla di assurdo nel cercare di stabilire quali sono questi limiti. Tutto sta nel
distinguere tra immaginare un pensiero e
pensarlo veramente. Possiamo sapere quello che non sappiamo (le incognite note),
perciò forse potremmo anche essere in grado di pensare a ciò che non possiamo pensare, a quelli che potremmo deinire gli impensabili pensabili.
Quali  che  siano  i  limiti  del  pensiero
umano, non c’è dubbio che siamo ben lontani dall’averli raggiunti. Esistono sicuramente idee – profonde e importanti – che
nessun essere umano ha mai concepito. Il
pensiero ci ha già portato molto lontano, e
chissà dove ci porterà ancora. u  bt
Se esistono parti della
realtà inaccessibili
ad altre specie
pensanti, perché
dovremmo presumere
che per noi siano tutte
accessibili?
L’AUTORE
Tim Bayneè un ilosofo della psicologia
dell’università di Manchester, nel Regno
Unito. Ha scritto Thought. A very short
introduction (Oxford University Press 201

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