lunedì 20 gennaio 2014

1029 - Africani a Guangzhou

Philippe Grangereau, Libération, Francia
Negli ultimi dieci anni, migliaia di cittadini dei paesi africani che forniscono materie
prime a Pechino hanno ottenuto il visto per la Cina. Molti sono partiti in cerca
di fortuna ma hanno dovuto fare i conti con una società poco accogliente




L
a terza volta che è
venuto nel mio piccolo negozio di magliette, mi ha detto
che era innamorato
di  me”,  racconta
con civetteria Xiao Jiang. “Dato che trovavo
il suo naso e i suoi occhi molto belli, alla ine
sono uscita con lui. E nel 2007 ci siamo sposati”. Xiao Jiang, una cantonese di trent’anni, e Saliou Ndyaye, un senegalese di 32 anni, oggi hanno una bambina di due anni che
si chiama Yiwa. “Le parlo in cinese per evitare che confonda le due lingue”, mormora
il papà premuroso aprendoci la porta del
suo minuscolo appartamento di due stanze
nella periferia di Guangzhou. Sullo schermo del computer una voce femminile canta
una nenia locale. “Le canzoni cinesi mi
piacciono moltissimo”, confessa Saliou.
Dal suo arrivo in Cina, nel 2005, tira avanti
lavorando nell’import-export. In questo
momento ha comprato in Cina delle macchine da cucire per fare merletti che esporta
via nave in Senegal. “I margini sono molto
piccoli, ma mi permettono di sopravvivere.
Per noi immigrati non è facile lavorare.
L’unico modo è lanciarsi negli afari”.
Xiao Jiang e Saliou sono una delle quattrocento coppie miste sinoafricane di questa metropoli del sud della Cina, dove vivono tra i 20 e i 30mila africani. Gli anglofoni
gravitano intorno a Sanyuanli, un quartiere
moderno, mentre i francofoni dell’Africa
occidentale frequentano le stradine del
quartiere di Xiaobei, dove da molto tempo
è presente una grande comunità di commercianti mediorientali. Qui si arriva passando sotto un ponte ferroviario dove, non  ontano da una bancarella di vestiti africani
made in China, due africane sedute su delle
sedie in mezzo alla strada si fanno depilare
il volto da donne cinesi. “Portate sempre
con voi il passaporto. È vietato frequentare
le prostitute. Qualunque infrazione sarà
punita con una multa”, si legge in inglese su
una grande stele in cemento collocata dal
commissariato di quartiere.
Arrivato per caso
In un dedalo di vicoli dove incrociamo un
gruppo di donne in abaya(il velo nero integrale), ci sono ristoranti turchi, burkinabé,
maliani e qualche parrucchiere africano
quasi sempre pieno. Sul bordo di una piccola piazza, davanti a un manifesto in francese che pubblicizza una scuola serale di “lingua  cinese  commerciale”,  alcuni  uiguri
dello Xinjang davanti ai loro scooter aspettano i clienti africani. “I taxi normali ci accettano di rado come clienti perché siamo
neri. Ma si è creato un servizio di taxi parallelo illegale. Il problema è che costa il doppio del normale”, ci spiega Mustafa Dieng,
il “presidente” della comunità senegalese
di Guangzhou. “Conosco un uomo d’afari
del Togo che è talmente stufo di veder scappare i taxi che ha inito per comprarsi una
macchina. La Cina non è un paese facile”.
Mustafa Dieng, ex militare dell’aeronautica senegalese, è arrivato un po’ per
caso a Guangzhou, all’epoca in cui la Little
Africa non esisteva ancora. Era il 2003 e la
Cina si era messa in cerca di materie prime
in Africa. Per questo Pechino aveva liberalizzato la sua politica dei visti nei confronti
di molti paesi del continente. “Un visto cinese si otteneva in pochi giorni, mentre ci
volevano dei mesi per ottenerne uno da un
paese europeo”, sottolinea Dieng, che ha
abbandonato il suo progetto iniziale di emigrare in Australia per dedicarsi all’importexport a Guangzhou. “Ho cominciato con
jeans e scarpe da ginnastica. All’inizio si
guadagnava così bene che spedivo le mie
merci  con  aerei  cargo”,  ricorda  Dieng.
Quando gli ordini sono diminuiti, si è dato
invece al trasporto marittimo. Ma gli afari
non vanno più come prima. “La manodopera cinese è diventata più cara e l’industria
tessile ha perso la sua competitività. Ora
bisogna andare in Vietnam”. Per Dieng sono initi i bei giorni della Little Africa. “A
poco a poco i cinesi si stanno riprendendo
le nostre attività”, dice Dieng. “Sono ovunque in Africa, dove creano i loro canali
commerciali facendo a meno di quelli del
posto”. Nel corso degli anni molti degli interpreti e degli impiegati cinesi con cui lavorava lo hanno lasciato per creare sullo
stesso modello le loro ditte di import-export. “Uno di loro si è perino portato via
tutta la mia lista di clienti”.
“Le dimensioni della comunità africana  di Guangzhou, che ha avuto il suo momento di massimo splendore nel 2008, si stanno riducendo sempre più”, conferma Roberto Castillo, un ricercatore messicano
dell’università Lingnan di Hong Kong, che
da tre anni studia il particolare melting pot
etnico  della  “Chocolate  city”  di
Guangzhou. Da qualche tempo Pechino ha
reso più diicile la concessione dei visti ai
cittadini di alcuni paesi africani. “I congo  lesi, che ormai hanno molta diicoltà a ottenere un  visto cinese, si sono ridotti a comprare di nascosto i passaporti degli angolani, che al contrario sono accolti molto bene
in Cina”, osserva Castillo. Molti africani
vivono in Cina senza documenti perché la
polizia di frontiera punisce gli immigrati
irregolari con multe severe e una pena di 21
giorni di prigione, anche quando vogliono
lasciare il paese. Chi non ha il denaro per  pagare è quindi paradossalmente incoraggiato a rimanere. Tuttavia molti iniscono
in prigione o sono espulsi (a loro spese).
“Mi controllano i documenti anche diverse
volte al giorno. Talvolta la polizia arriva da
noi all’una di notte, è terribile”, si lamenta
Fatima, una donna d’afari della Guinea.
La nuova politica cinese di restrizione
dei visti spinge gli africani a lasciare il paese, conferma Ojukwu Emma, il presidente
della comunità nigeriana di Guangzhou,
che conta diecimila persone. Imponente,
con una voce profonda e pacata, ci riceve
nel suo grande uicio pieno di telecamere
di sorveglianza. Gli afari vanno bene poiché secondo lui “tra Guangzhou e Lagos
transitano ogni giorno più di trenta milioni
di dollari”. Ma il clima sta peggiorando.
Molti dei suoi connazionali sono irregolari
e “si fanno trufare dai commercianti cinesi”, riconosce Emma. “Per evitare di pagare
i loro clienti nigeriani, i cinesi li denunciano
alla polizia per farli espellere”. Le liti tra i
commercianti nigeriani e i loro fornitori cinesi sono così frequenti che la comunità
nigeriana ha creato una polizia parallela, i
peace-keepers (custodi della pace), sessanta
colossi tatuati strategicamente distribuiti
nei mercati cinesi dove lavorano gli uomini
d’afari nigeriani per dare l’allarme in caso  di problemi. “Quando c’è un diverbio intervengono, perché la polizia dà sempre ragione ai cinesi”, osserva Emma.
Il piccolo Obama
Gli  incidenti  tra  la  comunità  africana  e
quella cinese sono piuttosto frequenti. Nel
2009 un giovane nigeriano che scappava da
un controllo dei documenti è morto saltando dal secondo piano di un ediicio. Il giorno stesso duecento nigeriani hanno protestato  davanti  a  un  commissariato  di
Guangzhou. Nel 2012 centinaia di cittadini
africani hanno manifestato dopo la morte
di un uomo picchiato a morte da un gruppo
di cinesi nel corso di una lite sulla tarifa di
una corsa in taxi. “I rappresentanti di tutte
le comunità africane si sono uniti nella protesta”, ricorda Dieng. “Ma la polizia si è riiutata di incontrarci tutti insieme, preferendo convocarci separatamente. Alla ine
abbiamo preferito non andare. Per quanto
ne sappia, i colpevoli di questo omicidio
non sono ancora stati arrestati. La Cina è un
paese comunista, mentre noi veniamo da
un paese democratico. Si cerca di dialogare
ma non è facile”, commenta Emma, che vive a Guangzhou dal 1997.
Il razzismo dei cinesi nei confronti degli
heiren(neri) mette a disagio molti africani,
spiega questo veterano della comunità ni  geriana sistemandosi la veste. “Ho perso il
conto delle volte che ho visto dei cinesi uscire dall’ascensore turandosi il naso quando
entravo io. Il mese scorso, per strada, una
babysitter mi ha indicato con il dito al bambino che portava a spasso deinendomi con
termini molto volgari”. Sposato con una
cantonese, Emma ci racconta che suo iglio,
che ha quattro anni, ha dovuto cambiare
scuola tre volte. “Gli insegnanti dicevano
agli studenti che mio iglio non era come
loro e questo lo ha fatto molto sofrire”. Nella speranza di ridurre al minimo la discriminazione, ha chiamato suo figlio Obama.
Con i suoi interlocutori, Emma dimostra
ogni tanto un umorismo caustico: “Una volta per provocazione ho detto a delle autorità
cinesi che il mio Obama, in quanto cinese,
sarebbe potuto diventare il loro futuro presidente! Mi hanno risposto alzando le braccia al cielo ‘no, no, è impossibile’”.
Alimentando il razzismo, la polizia di
Guangzhou caccia i neri da alcuni quartieri.
“L’altro giorno alcuni poliziotti hanno convocato il proprietario del mio appartamento
per chiedergli di sfrattarci”, si lamenta Saliou. “E non sono certo l’unico africano a
cui è successa una cosa simile”. Questa segregazione  silenziosa  è  cominciata  nel
2007. Anche se è contento di essere in Cina,
a  Saliou  il  “razzismo  quotidiano”  pesa.
“Quando mi siedo in autobus, i passeggeri
accanto a me si alzano e a volte si turano il
naso”, dice il ragazzo mostrando il video di
uno di questi incidenti che ha ilmato con il
suo smartphone.
Durante una breve passeggiata con la
moglie e la iglia, si possono scorgere gli
sguardi dei passanti. Sorridente, Xiao Jiang
fa inta di niente. “Non mi interessa quello
che pensa questa gente”, inisce per dire. “È
Saliou che amo e che ho sposato, non loro!”.
Ma Xiao dice anche di avere “molta voglia”
di vedere il Senegal, il paese da dove viene
suo marito.  u  adr

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