martedì 21 gennaio 2014

1033 - I giochi sporchi di Putin - McKenzie Funk, Outside, Stati Uniti Foto di Simon Roberts - Le Olimpiadi di Soči cominciano il 7 febbraio e saranno una vetrina per la Russia di Vladimir Putin. Ma dietro i progetti grandiosi voluti dal presidente ci sono danni ambientali gravissimi e costi enormi

N
el  2010  in  Russia  si  è
svolto un concorso per
scegliere  la  mascotte
per le Olimpiadi invernali del 2014 a Soči. In
tre  mesi  sono  arrivati
24mila disegni di orsi, tigri, iocchi di neve,
streghe e lupi. Una miriade di proposte:
sembrava il trionfo della democrazia. Fino
a quel momento i giochi olimpici erano stati a cuore soprattutto a Vladimir Putin. Il
presidente avrebbe avuto l’opportunità di
mettere in mostra la nuova Russia grazie
agli impianti costruiti dai suoi oligarchi nella città costiera del mar Nero e sulle montagne del Caucaso.
“Soči è un posto unico”, aveva dichiarato Putin al Comitato olimpico internazionale nel 2007, quando il suo intervento personale aveva permesso alla Russia di battere la concorrenza di Austria e Corea del
Sud. “Sulla costa c’è un clima primaverile,
mentre sulle montagne è inverno”. Putin
era andato alla riunione in Guatemala per
sostenere la candidatura russa e aveva perino parlato in inglese in pubblico, un fatto
rarissimo. Più tardi, per accendere la passione olimpica tra i russi, il suo governo
aveva indetto il concorso per la mascotte.
Chiunque poteva fare proposte e votare il
disegno preferito. Il vincitore avrebbe ricevuto in premio due biglietti per i giochi.
Appena quaranta minuti dopo essere
stata messa online, una rana psichedelica
azzurra con una racchetta da sci in bocca è
arrivata in cima alla classiica. I motivi del
suo successo erano diversi. Innanzitutto, la
democrazia – anche se gestita dall’alto, come in Russia – è sempre imprevedibile. E
poi, come ho potuto constatare di persona
durante la mia visita a Soči nel febbraio del
2013, le Olimpiadi sono la Russia di Putin in
miniatura.
La rana aveva in testa una corona zarista, un riferimento “al nostro nazionalismo
e alla nostra spiritualità”, ha spiegato con
sarcasmo il suo creatore, il disegnatore moscovita Egor Zhgun. Negli occhi, al posto
delle pupille, ruotavano gli anelli olimpici.
La rana era coperta di pelo – dopotutto si
trattava di Olimpiadi invernali – e non aveva le braccia, il che aveva spinto molti a
chiedersi quale fosse la possibile metafora
dietro questa scelta (in realtà Zhgun ha
spiegato che si era semplicemente dimenticato di disegnarle). Il nome era Zoich, una
parola che in cirillico (ZOIǬ) somiglia molto a 2014: la z è simile al 2 mentre l’ultima
lettera, la  ȫ (la c dolce), sembra un 4. Dopo
qualche bicchierino di vodka, 2014 si può
facilmente leggere Zoich.
Marketing e proteste
Il video difuso su YouTube per sostenere la
candidatura della mascotte, mostra la rana
mentre sorseggia un martini in discoteca,
si lancia sulla città in paracadute attaccata
a una ila di palloncini, prende a calci un altro candidato (un delino con gli sci) e beve
in compagnia di una delle altre mascotte
candidate più irriverenti, Pila, un nome che
in russo evoca la corruzione che tutti si
aspettavano avrebbe caratterizzato i lavori
delle  Olimpiadi.  Il  filmato  è  stato  visto
700mila volte. Perino i giornali e le tv si
sono innamorati di Zoich. Anche se nessuno sapeva cosa signiicasse quella rana, la
sua popolarità sembrava pericolosa. Era  diicile non vederla come una mascotte di
protesta.
Nel febbraio del 2013 incontro Zhgun in
un cafè di Mosca durante una sosta del mio
viaggio verso Soči. Ventisette anni, alto e
allampanato, non sembra particolarmente
interessato alle Olimpiadi. “Mentre disegnavo Zoich”, mi dice, “non mi sono reso
conto che sarebbe diventato un simbolo
dell’opposizione, ma la cosa non mi è dispiaciuta”.
Al momento del concorso, Putin, allora
primo ministro, stava organizzando il suo
ritorno al Cremlino. E l’opposizione – rappresentata soprattutto da persone della
classe media urbana, come Zhgun – cominciava a mobilitarsi. Quando nel 2012 Putin
ha conquistato di nuovo la presidenza, con
il 64 per cento dei voti, molti osservatori
hanno afermato che, nonostante le numerose accuse di irregolarità, il vero problema
non erano stati i brogli. Il punto era che il
potere aveva stabilito chi poteva partecipare alle elezioni e chi no. L’opposizione non
aveva potuto presentare i suoi candidati.
Una cosa simile è successa a Zoich. Poco prima del Natale 2010, una giuria di
esperti e persone famose nominata dal governo ha selezionato le mascotte, riducendone il numero da 24mila a undici. Il delino con gli sci è rientrato nella rosa dei prescelti. C’erano anche due orsi, uno polare e
uno bruno, e un leopardo delle nevi, secondo Zhgun disegnato molto male. Ma Zoich
non c’era. Dopo l’esclusione della rana l’intera faccenda è diventata ancora più strana.
Zhgun ha confessato di aver partecipato al
concorso solo perché il Comitato olimpico
russo lo aveva pagato nella speranza di
stuzzicare la curiosità del pubblico. “Può
disegnare quello che vuole”, gli avevano
detto, “ma non deve parlarne con nessuno”. Perino il candidato di protesta era stato un’idea del marketing, messa da parte
appena aveva cominciato a creare problemi.
L’ultimo round, la votazione trasmessa
in tv dal Primo canale russo, è stato seguito
da più di un milione di spettatori. L’orso polare era decisamente il preferito del pubblico, ma quella mattina qualcuno ha chiesto
a Putin, che stava visitando una scuola a
Soči, qual era la sua mascotte preferita. Si
dà il caso che in un parco alle porte della città il Wwf avesse avviato un programma per
l’allevamento di leopardi delle nevi, che
Putin aveva già visitato un paio di volte. Il
nuovo recinto era stato costruito con i soldi
delle Olimpiadi. Nel frattempo il leopardo
mascotte era stato ritoccato da un professionista e ribattezzato Barsik. Secondo l  sua biograia uiciale, era la personiicazione di un leader intrepido e solitario. “Il leopardo è un animale forte, bello e veloce”, ha
detto Putin ai bambini. La sera sono state
svelate le tre mascotte più votate: un coniglio, l’orso polare e, come era prevedibile, il
leopardo delle nevi.
La città fantasma
Mentre con il fotografo Simon Roberts saliamo verso i monti del Caucaso dall’aeroporto internazionale di Soči, il recinto del
leopardo del Wwf dev’essere da qualche
parte in un bosco alla nostra sinistra. Le
nuove strutture olimpiche ospitano una serie di gare di prova: competizioni di slittino,
ski  cross  e  snowboard  cross,  halfpipe  e
snowboard. Squadre provenienti da tutto il
mondo stanno convergendo verso l’unica
città subtropicale della Russia, un tempo
famosa per i sanatori in cui andavano a curarsi i lavoratori sovietici.
La cerimonia di apertura e metà degli
eventi dei giochi del 2014 – le gare di pattinaggio sul ghiaccio, di hockey, di curling e
di tutte le altre discipline che richiedono
uno stadio coperto – si terranno in quella
che gli organizzatori chiamano la Zona costiera, sulle sponde del mar Nero a una
trentina di chilometri a sud del centro di
Soči, un disordinato insediamento urbano
con circa 400mila abitanti che si estende
per decine di chilometri.
Lo stadio principale, chiamato Fish  capace di accogliere 40mila spettatori, è
avvolto in un guscio trasparente a forma di
uovo, e lascia aperta la vista verso le montagne. Ma per assistere alla gare che si svolgeranno in pista bisogna raggiungere la Zona
montuosa, risalendo per più di un’ora le gole del fiume Mzymta, fino al villaggio di
Krasnaja Poljana.
A causa del traico arriviamo nella cittadina giusto in tempo per la festa di benvenuto: danzatori cosacchi con i tamburi, ragazze che fanno piroette, e decine di sciatori e snowboarder stranieri che applaudono
e bevono.
È più o meno a questo punto che il mondo comincia a preoccuparsi per una serie di
motivi: la vicinanza di Soči alla Cecenia, le
minacce dei jihadisti del Caucaso, le rivendicazioni dei circassi, che nel 2014 ricordano  il  centocinquantesimo  anniversario
della cacciata dal Caucaso e del “genocidio
circasso”, le nuove leggi russe contro gli
omosessuali, il ruolo di Mosca nella crisi
siriana, la corruzione e il costo astronomico
dei giochi (51 miliardi di dollari, otto in più
rispetto alle Olimpiadi cinesi del 2008, inora le più costose di sempre). Ma a Krasnaja Poljana tutti questi problemi sembrano lontanissimi. Una cosa è certa: il vincitore è Putin. E gli sconitti sono i russi di Soči,
che vedono le loro montagne, le coste e la
loro città trasformate nel più grande cantiere europeo.
Siamo in pieno inverno, ma a Krasnaja
Poljana non c’è neve. Anche di giorno la città quasi non ha colore: ci sono solo le diverse tonalità di grigio degli ediici in costruzione. Il rumore dei martelli pneumatici,
degli autocarri e dei mezzi che trasportano
gli operai comincia all’alba. Gruppi di lavoratori uzbechi e kirghisi camminano a testa
bassa, fumando e schivando le pozzanghere. In lontananza si vedono le scintille delle
saldatrici. In un singolo cantiere contiamo
tredici gru. Sulle iancate di molti ediici
sono appesi i cartelloni con le immagini dei
lussuosi condomini e alberghi che saranno
completati per l’inizio dei giochi. A febbraio
la temperatura media a Krasnaja Poljana è
di 6 gradi, ma sulle foto tutto è coperto di
neve. Qualche giorno prima del nostro arrivo, Putin ha deciso di mettere ine ai ritardi
e alla lievitazione dei costi con un gesto
esemplare. Parlando da un trampolino da
sci ancora non completato davanti alle telecamere della tv nazionale, ha messo alla
gogna pubblicamente il vicepresidente del
comitato olimpico russo, Akhmed Bilalov,
accusandolo di corruzione. Ventiquattr’ore
dopo Bilalov è stato licenziato.
Dall’unica parte del villaggio che se  bra quasi completata – due ile di alberghi e
passaggi pedonali accanto al iume Mzymta – partiamo con la funivia per raggiungere
il luogo dove si svolgono le gare di prova. Se
non fosse per la vernice fresca e l’ininita
confusione dei cantieri, sembrerebbe di
essere sulle montagne del Colorado. Ma
l’impressione dura solo ino a quando non
scorgiamo un gruppo di soldati con armi
automatiche. Sono qui a ricordarci cosa c’è
poco più a est: le instabili repubbliche autonome di Cecenia, Daghestan e Inguscezia.
I soldati hanno un metal detector. Controllano i miei stivali, ma non gli sci e le racchette. Secondo gli atleti, sui pendii circostanti ci sono perfino cecchini vestiti di
bianco, anche se non riusciamo a vederli.
Alcune prove sono state annullate per
mancanza di neve, e i concorrenti delusi
stanno già tornando verso l’aeroporto. Non
riesco a capire perché a Putin piaccia tanto
Krasnaja Poljana, né perché l’abbia scelta
per i giochi, inché non salgo a 2.300 metri
d’altezza. Allora tutto si chiarisce. Appena
superato uno strato di nuvole, all’orizzonte
appare una distesa di cime altissime.
In Russia ci sono anche altre montagne,   ma solo il Caucaso ha la bellezza delle Alpi.
La brulla e frastagliata catena montuosa
dell’Aibga si estende per chilometri alla mia
destra e alla mia sinistra. E le sue pareti
scendono a valle quasi a picco .
Dissidenti per caso
Le vittime abituali dei progetti faraonici come quello che ha cambiato il volto di Soči – i
lavoratori stranieri sottopagati o non pagati
afatto, gli abitanti sfrattati con la forza per
fare spazio alle nuove costruzioni – nel 2013
sono state protagoniste di un rapporto di
Human rights watch sulla città che ospiterà
i giochi, insieme a un gruppo di vittime più
improbabili: i 226 membri della sezione locale della Società geograica russa (Sgr). Il
rapporto è stato pubblicato poco prima della mia partenza per la Russia, e gli studiosi
della Sgr – dissidenti per caso, ormai in rotta con l’intero stato russo – mi aiuteranno a
capire cosa sta succedendo nella zona.
Fondata  nel  1845,  la  Sgr  è  la  società
scientiica più antica del paese, lontana dal
mondo per la politica e universalmente rispettata, come la National geographic society negli Stati Uniti. Durante l’era sovietica, le sue sezioni erano luoghi d’incontro
per esploratori e scienziati, e punti di partenza per spedizioni. L’associazione organizzava un’assemblea nazionale ogni cinque anni a San Pietroburgo (all’epoca Leningrado), ma per il resto del tempo le sezioni operavano in modo indipendente. Pur
essendo una città piuttosto piccola, nel 1957
Soči era diventata una delle sedi dell’organizzazione grazie alla straordinaria varietà
geograica e biologica della regione.
La Sgr occupa oggi l’ex residenza di un
generale che aveva avuto il compito di proteggere il leader sovietico Josif Stalin, la cui
dacia era nascosta nel itto bosco in cima
alla collina. La casa si afaccia sulle placide
onde del mar Nero e su una serie di binari
dove arrivano treni carichi di materiali da
costruzione che ripartono pieni di detriti e
calcinacci. All’interno, la segretaria scientifica Maria Reneva, un’affabile geologa
sulla  quarantina,  e  Julia  Naberežnaja,
un’ambientalista di 37 anni responsabile
della sezione, mi raccontano come sono inite nel mirino di Putin. Il marito, il padre e
la madre di Maria sono geologi, e la madre
è stata segretaria dell’Sgr di Soči prima d  lei.  Maria è entrata nell’associazione nel
1989, a 16 anni, proprio mentre l’Unione
Sovietica si stava sfaldando. Con la ine del
comunismo, la Sgr di Soči è diventata legalmente indipendente. Dopo che altre istituzioni scientiiche locali sono crollate insieme allo stato sovietico, i loro archivi hanno
trovato rifugio nella sua biblioteca.
Quando gli oligarchi di Putin hanno cominciato a costruire l’autostrada e la ferrovia per dimezzare il tempo necessario a
raggiungere Krasnaja Poljana dalla costa,
la principale impresa di costruzioni si è imbattuta in un blocco di grotte calcaree proprio dove intendeva scavare un tunnel. I
funzionari della compagnia hanno chiesto
informazioni sugli speleologi locali e sono
stati indirizzati alla sede della Sgr, la cui biblioteca  ospitava  alcuni  studi  su  quelle
grotte risalenti al periodo sovietico. In questo modo i soci dell’Sgr hanno potuto farsi
un’idea in anticipo di quello che sarebbe
successo di lì a poco a Soči. E si sono subito
schierati contro la nuova strada, i giochi e
tutto il resto. “Non abbiamo dovuto votare
per  decidere  che  eravamo  contrari  alle
Olimpiadi”, dice Julia. “Era chiaro a tutti
che  sarebbero  state  un  disastro”.  Sulle
montagne ci sarebbero stati più skilift, nelle valli più strade, sarebbero stati scavati
tunnel nelle grotte, costruite barriere sulle
spiagge e stadi nella zona umida.
Le ville degli zar
I membri dell’Sgr di Soči si sono uniti alle
associazioni ambientaliste locali per dar
voce a queste preoccupazioni, hanno pubblicato articoli su riviste e sul sito web
dell’organizzazione, e hanno concesso interviste a tv e giornali, attirando così l’attenzione di Mosca. Alla ine del 2009, la
direzione nazionale dell’associazione ha
indetto una riunione straordinaria durante
la quale è stato deciso che l’Sgr aveva biso gno di un nuovo statuto. Secondo la proposta avanzata, le sezioni locali non sarebbero più state indipendenti. Avrebbero ricevuto inanziamenti, e ordini, da quelle regionali, che a loro volta li avrebbero presi
da una nuova direzione con sede a Mosca.
In pratica, la sezione di Soči sarebbe stata
messa a tacere. Con una votazione separata, Sergeij Shoigu, esponente di spicco del
partito Russia unita e allora ministro delle
situazioni di emergenza, è stato eletto presidente.
“Oggi siamo l’unica sezione che non fa
ancora parte del nuovo sistema”, ci spiega
Maria, sottolineando che entro breve Mosca avvierà un’azione legale e che le autorità  locali  stanno  già  facendo  pressioni  “Hanno detto che se non ci uniamo a loro,
avremo dei ‘problemi’”, aggiunge. Problemi con documenti e permessi, problemi
con le tasse, o qualsiasi cosa possa venire in
mente alle autorità.
In cima alla collina, lungo la strada che
porta alla dacia di Stalin sono in costruzione alcuni palazzi con le pareti di vetro. Si
dice che appartengano al governatore della
regione, un altro esponente di spicco di
Russia unita, che li ha costruiti per alloggiare i suoi ospiti durante i giochi. Maria e Julia
stanno cercando di tirare avanti come al
solito in attesa della causa. Ci spiegano che
la riunione mensile della sezione, durante
la quale i membri presentano rapporti sulle
loro spedizioni e mostrano foto e diapositive, è prevista per la domenica successiva. E
aggiungono che se vogliamo fare un giro
delle sedi delle Olimpiadi senza limiti e
censure,  potranno  accompagnarci  due
giorni dopo.
Quello stesso pomeriggio, prima di ritirarci nel into lusso del nostro albergo di
Soči, io e Simon saliamo a vedere la dacia di
Stalin, che può essere visitata. Fu costruita
nel 1937, e ogni dettaglio venne studiato per
garantire la salute e la sicurezza del dittatore. L’esterno è dipinto di verde scuro, colore
che  rende  il  complesso  quasi  invisibile
dall’alto. I buchi delle serrature erano ermeticamente sigillati, ainché eventuali
attentatori non potessero pompare gas tossici all’interno. Gli scalini sono alti 13 centimetri, calibrati esattamente sul passo di
Stalin. In ogni stanza ci sono una inestra e
un balcone, perché, come ci spiega la guardiana, “Stalin potesse respirare l’aria fresca
di cui i suoi polmoni avevano bisogno”. Pochi russi erano a conoscenza dei suoi problemi di salute, ma era proprio questo il
vero motivo delle sue visite a Soči. Aveva
problemi ai polmoni e alla schiena. E il suo
braccio sinistro era rimasto compromesso
da un incidente avuto da bambino. “La seconda parte della sua vita fu una tortura”,
dice la guida in tono ironico. “Ma qui l’aria
di mare si mescola con quella di montagna.
E fa bene ai polmoni”.
Stalin trovava toniicanti anche le nuotate quotidiane, e aveva deciso che Soči
sarebbe stato un posto ideale per la salute
non solo sua ma di tutti i lavoratori sovietici. Insomma Stalin amava Soči come la ama
Putin.  “Ma  cosa  avrebbe  pensato  delle
Olimpiadi?”, chiede Simon.
“Stalin non avrebbe permesso che suc  cedesse tutto questo”, risponde la guida.
“Stanno rovinando la città”.
Anche Vladimir Putin ha una dacia a
Soči. Anzi tre, se si vuol credere alle voci
che circolano. Voci che sono confermate
dai registri immobiliari, da indiscrezioni
varie, dalle guardie federali davanti ai cancelli, e dalle foto scattate da attivisti e lavoratori e poi messe online. Tutti a Soči sembrano saperlo. Una delle dacie, una villa in
stile italiano da 350 milioni di dollari che
qui chiamano il Palazzo di Putin, è sulla costa a nord della città. Un’altra è nei boschi
alle spalle di Krasnaja Poljana, vicino alla
pista dove si svolgeranno le gare di discesa
libera. Ma quella che vorrei visitare è a più
di duemila metri d’altezza, sui pendii nevosi della cima più alta del Caucaso occidentale, il monte Fisht, che raggiunge i 3.868
metri e dà il nome al principale stadio olimpico di Soči. Il posto si chiama Lunnaja Poljana (campo della luna) e, a seconda delle
mappe, è all’interno o al conine con una
zona protetta dall’Unesco, “una delle poche regioni montuose europee che non sono state modiicate in modo signiicativo
dall’uomo”, ha sottolineato l’organizzazione quando nel 1999 ha dichiarato il Caucaso occidentale patrimonio dell’umanità.
Quando è cominciata la costruzione del
corpo centrale della villa, nel 2002, il sito è
stato deinito uicialmente una stazione
meteorologica o un “centro scientiico” e
battezzato Biosfera. Ma poi sono arrivati gli
skilift, le piattaforme di atterraggio per gli
elicotteri, gli chalet in stile svizzero, decine
di stanze per gli ospiti e quattro gatti delle
nevi. A tutti è apparso chiaro che si trattava
d’altro: una stazione sciistica privata all’interno di quella che un tempo era una zona
protetta.
Gli escursionisti sono stati i primi a notare la strana costruzione. Alcuni hanno
raccontato  di  essere  stati  cacciati  dalle
guardie, che li hanno costretti a cancellare
le foto. Qualche immagine però è trapelata,
grazie soprattutto a un gruppo ambientalista locale che si fa chiamare Guardia ambientale del Caucaso settentrionale e che
nel 2007 ha iniziato a fare ispezioni annuali al sito. Sono cominciati a circolare video e
fotograie. Secondo un rapporto pubblicato
dai gruppi di opposizione, Lunnaja Poljana
sarebbe uno dei venti tra palazzi e chalet di
campagna  di  cui  dispone  Putin,  oltre  a
quattro yacht, 15 elicotteri e 43 aerei.
A far saltare il mio piano di visitare di
persona Lunnaja Poljana sono le stesse
piogge che hanno mandato a monte diverse
prove olimpiche. Le strade sterrate son  impraticabili a causa del fango, non c’è abbastanza neve per spostarsi con gli sci, e le
guide che contatto mi spiegano che mi ci
vorrebbe più di una settimana per salire
sulla montagna e riscendere a piedi. Perciò
decido di limitarmi a prendere un treno che
costeggia il mar Nero in direzione nordovest per incontrare il fondatore della Guardia ambientale del Caucaso settentrionale,
Andrej Rudomakha, un attivista leggendario che è probabilmente la più fastidiosa
spina nel ianco di Putin in tutta la regione.
Alla stazione di Krasnodar, la capitale
della regione, un gruppo di giovani mi accoglie con un cartello con la scritta “State
department”.  Uno  di  loro  mi  spiega  lo
scherzo: “Pensano tutti che siamo inanziati dagli Stati Uniti”. In efetti in Russia le
autorità ormai bollano ogni tipo di dissenso
come frutto di complotti stranieri. Io e i
miei ospiti ci stringiamo in una vecchia Lada in cui manca un sedile e ci dirigiamo verso la sede locale del partito liberale Yabloko. Cercare sponde in politica è l’ultimo
esperimento di Rudomakha, il tentativo di
capire se c’è un modo di lottare per la tutela
del Caucaso che vada oltre i picchetti e i comunicati stampa.
Nella sede di Yabloko, Rudomakha – che
da giovane è stato un chitarrista rock, un
ammiratore di Che Guevara e il fondatore
di una comune – scrive silenziosamente al
computer. Le Olimpiadi, dice, sono una catastrofe per l’ambiente. La villa di Lunnaja
Poljana è una minaccia all’ecosistema altrettanto grave, ma è anche stata l’oggetto
di una delle principali vittorie della sua organizzazione. Qualche anno fa, dopo che le
autorità avevano cominciato a costruire
una strada per raggiungere la villa attraverso la foresta, la Guardia ha avviato un’azione legale, ha mandato i loro attivisti a bloccare le ruspe e i taglialegna, e ha lanciato un
appello all’Unesco. La minaccia di aggiungere il Caucaso occidentale alla lista di siti
patrimonio dell’umanità a rischio è stata
suiciente a convincere il governo a fare
marcia indietro. Ma la villa è ancora lì, e
all’orizzonte c’è un nuovo progetto: un’altra
strada che dovrà sorgere sulla parte opposta della montagna. “In Russia la legge non
esiste”,  commenta  Rudomakha.  “È  per
questo che siamo destinati a perdere quasi
tutte le nostre battaglie. Ma in questo caso
c’è di mezzo l’Unesco, e forse abbiamo
qualche possibilità”.
Vietato inquinare
“Hai solo una iglia, vero?”, chiedo a Julia in
una mattinata piovosa mentre lei e Maria si
preparano ad accompagnarci a fare il giro
dei siti olimpici. È una semplice curiosità.
Ma lei si gira verso di me, che sono seduto
sul sedile posteriore della macchina, e mi
lancia un’occhiata carica d’odio. “Come fai
a saperlo?”, mi chiede. Si calma solo quando le ricordo che ho visto la bambina qualche giorno prima nella sede della società
geograica. In quel momento capisco l’atmosfera di terrore che ormai pervade tutto.
Qualche tempo dopo trapelerà la notizia
che a Soči il governo ha istituito un sistema
per sorvegliare tutti i tweet, le email e le telefonate fatte durante i giochi.
Julia, scopro, da tempo fa anche parte
della Guardia. Negli anni novanta ha perino vissuto nella comune di Rudomakha, il
quale, a sua volta, è socio della Società geograica. Tuttavia è importante distinguere
tra i due gruppi, sottolinea Maria. L’opposizione dell’Sgr di Soči ai giochi non è di tipo
politico:  è  motivata  esclusivamente  da
quello che vedremo tra poco. La nostra destinazione è un’importante zona umida che
un tempo ospitava duecento specie di uccelli  migratori  e  numerose  piante  rare.
“Questo territorio doveva diventare una
riserva”, spiega Julia. “Avevamo preparato
tutti i documenti. Doveva rientrare nella
convenzione di Ramsar sulle zone umide.
Ma non è stato possibile”.
Lasciamo la strada principale e seguiamo una ila di enormi ribaltabili arancioni
ino alla Zona costiera dei giochi. Il Fisht e
altri stadi in costruzione emergono dal fango circondati da strade di ghiaia e da una
foresta di grattacieli destinati a ospitare
atleti, giornalisti e spettatori. Il rumore dei
lavori si sente attraverso i inestrini chiusi
della macchina. Quando arriviamo a quel
che resta della palude, Maria e Julia non dicono nulla. Non è necessario. Una serie di
piccoli stagni privi di vegetazione segna
l’incrocio tra due strade fangose percorse
da un lusso continuo di camion. Le sponde
sono disseminate di bottiglie di plastica,
calcinacci e cataste di legna. Accanto a un
bagno chimico ci sono due cartelli, uno in
russo  e  uno  in  inglese,  che  definiscono
quella scena apocalittica “Parco ornitologico naturale della palude di Imeretinskaja”.
“Su tutto il territorio del parco”, dicono i
cartelli, “è vietato svolgere attività che possano  modificare  il  paesaggio  naturale”.
Vietato cacciare, danneggiare i terreni di
riproduzione  degli  uccelli,  raccogliere
piante selvatiche, inquinare l’acqua o danneggiare “la qualità ambientale, estetica e
ricreativa del parco”.
Dalla  palude  ci  spostiamo  verso  un
quartiere residenziale afacciato sulla Zona
costiera. Cerchiamo una strada chiamata
Bakinskaja. Un intero isolato di case quasi
tutte ancora occupate è inclinato con una
strana angolazione. Un po’ più giù, la posizione di due palazzi ricorda quella della
torre di Pisa: sono appoggiati l’uno all’altro
e si sostengono come due ubriachi. Da un
paio d’anni gli abitanti della zona vedono i
camion arrampicarsi pieni in cima alla collina per scenderne vuoti. Trentamila tonnellate di detriti olimpici, provenienti quasi
tutti dalla costruzione della ferrovia, sono
initi in una discarica illegale. Un giorno,
dopo un temporale, il ianco della collina è
improvvisamente scivolato, insieme alle
fondamenta delle case. Dieci mesi prima
della nostra visita, il governo ha annunciato
che avrebbe trasferito altrove gli abitanti
della strada. Ma passati i dieci mesi i camion continuano a scaricare materiale e la
gente è ancora nelle vecchie case. La nostra
ultima meta è un campo di attivisti sulla riva nord del fiume Kudepsta, sorvegliato
ventiquattr’ore al giorno dai residenti della
zona e da membri della Guardia. Hanno
occupato la postazione nove mesi prima,
quando un’impresa edile ci ha costruito un
ponte temporaneo. Sulla riva opposta doveva sorgere una centrale elettrica a gas
destinata a fornire elettricità ai giochi.
L’ultimo giorno a Soči assisto alla riunione domenicale della Società geograica:
per qualche ora nessuno parla delle Olimpiadi. Tre soci intrattengono gli ospiti, uno
dopo l’altro, nella sala conferenze. Una
trentina di persone, tra vecchi e giovani, è
arrivata per assistere alle loro presentazioni. Il primo a parlare è un tizio che ha fatto
una normale gita turistica in Crimea e proietta una serie di diapositive. Poi c’è il video
di un trekking attraverso il Caucaso accompagnato da una piacevole musichetta. Le
montagne sopra Krasnaja Poljana sono di
una bellezza mozzaiato anche d’estate.
L’ultima presentazione è una sorpresa:
nell’estate del 2012 uno degli iscritti di no  me Andrej ha chiesto 19 passaggi, è saltato
su un numero imprecisato di treni merci e si
è costruito una zattera di tronchi per raggiungere la parte più settentrionale della
Siberia. Il suo viaggio è durato 58 giorni.
“Adesso vi mostrerò le mie 269 foto”, dice.
L’intera stanza scoppia a ridere, applaude e
comincia a cantare con lui le canzoni che ha
scritto lungo la strada. È una manifestazione di quello spirito russo che tanto sorprende gli stranieri. Questa è la Russia che Putin
dovrebbe  orgogliosamente  mostrare  al
mondo ai giochi di Soči.
Dopo la festa
Qualche giorno dopo il mio ritorno negli
Stati Uniti ho ricevuto un’email da Julia.
Erano stati scoperti dei taglialegna e dei
bulldozer al lavoro per costruire una nuova
strada per Lunnaja Poljana. Julia era subito
andata sul posto con gli attivisti della Guardia ed era riuscita a conservare la scheda di
memoria della sua macchina fotograica.
Le immagini sono inite su internet. Poco
più di un mese dopo, gli agenti dell’Fsb, i
servizi di sicurezza russi, e del Centro per la
lotta all’estremismo hanno fatto irruzione
nella sede della Guardia a Majkop. Hanno
costretto gli attivisti ad aprire le loro caselle
di posta elettronica e hanno letto tutti i
messaggi. Alla ine hanno “consigliato” di
non pubblicare il rapporto sulle Olimpiadi
per non “danneggiare la Russia”.
Qualche mese dopo, Andrej Rudomakha è stato invitato a incontrarsi con un presunto informatore a un capolinea degli autobus di Krasnodar. L’uomo aveva detto di
chiamarsi Aleksej e di essere un “cittadino
preoccupato” che aveva informazioni su
una discarica illegale. In realtà era un agente del Centro per la lotta all’estremismo e
aveva con sé la lettera di un procuratore.
Rudomakha è stato costretto a leggerla a
voce alta mentre l’agente lo ilmava. Confessate che la Guardia è “un’agenzia straniera”, diceva, altrimenti saranno guai. Alla
ine di aprile, alcuni pesanti macchinari e
sette guardie private sono arrivati al campo
di attivisti sulla riva del Kudepsta. Gli attivisti si sono arrampicati sul ponte per bloccare il passaggio. Poi sono arrivati una settantina di poliziotti, li hanno trascinati via e le
macchine hanno raggiunto l’altra sponda.
Il progetto della centrale elettrica, tuttavia,
è stato abbandonato a giugno per ritardi
nella costruzione. Per quanto riguarda la
Società geograica di Soči, l’ingiunzione di
Mosca è arrivata all’inizio di marzo, come
preannunciato. Ma un mese dopo, mentre i
manifestanti venivano allontanati dal iume Kudepsta, è successo qualcosa di sorprendente. “Può congratularsi con noi”,
diceva un messaggio di Maria e Julia. “Ieri
abbiamo vinto la causa”. Mosca ha deciso
che la sezione di Soči potrà continuare a
esistere. Maria e Julia erano sorprese. E
anch’io. Poi mi sono ricordato una cosa che
Maria mi aveva detto quando ero a Soči.
“Qualunque cosa vogliano farci, aspetteranno dopo le Olimpiadi, quando nessuno
presterà più attenzione a quello che succede qui”. u  bt
L’AUTORE
McKenzie Funkè un giornalista
statunitense. Si occupa di ambiente e ha
collaborato con Harper’s, National
Geographic e il New York Times. Ha
scritto Windfall: The booming business of
global warming (Penguin Press 2014).




Qualcosa si è rotto
Gazeta, Russia  


S
e non ci fossero stati gli attentati
di Volgograd (dove il 29 e il 30 dicembre un attentato suicida e
un’autobomba hanno causato 34 morti)
il 2013 sarebbe stato un anno di pace e
perino di slancio spirituale: l’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij, in carcere
dal 2003, ha ricevuto la grazia, mentre
le Pussy riot e gli attivisti di Greenpeace sono stati amnistiati. E alle Olimpiadi di Soči potrà partecipare senza timori di conseguenze perino chi non condivide i valori tradizionali russi. Alla ine, però, qualcosa si è rotto proprio dove il tessuto del paese è più fragile.
All’inizio del 2013 la Russia sembrava essere sprofondata in un vortice di
oscurantismo. Il parlamento aveva vietato agli statunitensi di adottare gli orfani russi e si preparava a vietare la
“propaganda” dell’omosessualità. I dodici incriminati per le proteste di piazza
Bolotnaja contro Putin erano in attesa
di un processo. In estate, poi, c’è stato il
processo ad Aleksej Navalnij, uno dei
leader dell’opposizione, che prima è
stato condannato a cinque anni di carcere, poi inaspettatamente scarcerato.
In autunno si è fatta sentire una delle
Pussy riot, Nadežda Tolokonnikova,
che è riuscita a far pubblicare una lettera aperta sulle violazioni dei diritti dei
detenuti ed è stata poi trasferita in un
luogo di reclusione in Siberia. Negli
stessi giorni si apriva il processo agli attivisti di Greenpeace accusati di avere
assaltato una piattaforma petrolifera
nell’Artico. Il 2013, insomma, è stato un
anno di repressione: processi, carcere,
esilio per chi si era macchiato di colpe
nei confronti dello stato e del sistema.
Alla ine dell’anno, però, il sistema
stesso ha inaspettatamente mostrato
un volto nuovo. In realtà non è corretto
parlare di sistema, visto che si tratta di
un uomo solo e della sua benevolenza.
Navalnij? Non è pericoloso, dice l’uomo al comando, altrimenti non gli avrei
permesso di candidarsi alle elezioni
per il sindaco di Mosca. Le Pussy riot?
Solo delle innocue teppiste. E Khodorkovskij? Ma è stato lui a chiedermi la
grazia, io l’ho solo irmata. Certo, il
processo per le proteste di piazza Bolotnaja continua, ma lontano dai rilettori, ora che l’oligarca può inalmente riabbracciare la mamma malata e le Pussy riot rilasciano interviste in tv. La
Russia è diventata così un quadro da
esposizione, una terra promessa. Le
Olimpiadi? È tutto pronto. Mosca? Una
città piena di mercatini natalizi e con
elezioni trasparenti. I prigionieri politici? Tutti liberi.
I tribunali russi non sono più uno
strumento per risolvere i problemi di
politica interna. Insieme alla polizia,
ora svolgono il ruolo di ligi esecutori
della volontà suprema dello stato. E poco importa che, tra un’amnistia e una
grazia, nella sostanza le cose non siano
cambiate: l’importante è che il clima
per gli investimenti sia migliorato.
L’importante è il messaggio simbolico
inviato alla vigilia delle Olimpiadi e del
summit dei G8, in programma a giugno, sempre a Soči. L’importante è la
benevolenza del sovrano e la sensazione che ci troviamo in un momento in
cui non ci sono pericoli incombenti.
Che il pubblico accorra pure in Russia
per il grande spettacolo, ovunque regna la stabilità...
Ma l’illusione della stabilità è stata
infranta dalle bombe di Volgograd. E
ora c’è il rischio che il 2014 sia segnato
da un inasprirsi della repressione. I politici nazionalisti sembrano fare a gara
a chi è più assetato di sangue. Alcuni
hanno chiesto di annullare la moratoria
sulla pena di morte, altri vogliono che
la polizia possa intercettare ogni tipo di
conversazione. E così, nonostante le
sorprese dell’anno appena inito, l’inizio del 2014 ha la stessa tetra atmosfera
che aveva l’inizio del 2013. u  af

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