martedì 21 gennaio 2014

1033 - Il tiranno amato dall’occidente Jefrey Gettleman, The New York Times, Stati Uniti Il presidente ruandese Paul Kagame vuole sconiggere la povertà e l’odio a sfondo etnico. I paesi occidentali gli assicurano ingenti aiuti per lo sviluppo, ma chiudono un occhio di fronte ai suoi metodi autoritari. Un giornalista del New York Times l’ha incontrato nella capitale Kigali

aul  Kagame, il presidente
del Ruanda, mi ha dato appuntamento alle undici di
mattina di un sabato di agosto. Il suo uicio è in cima a
una collina vicino al centro
di Kigali. Ogni volta che torno nella capitale
ruandese rimango colpito dalla pulizia e
dall’eicienza di questa città, caratteristiche ancora più eccezionali se si considera
che il Ruanda è uno dei paesi più poveri del
mondo. Plotoni di donne con i guanti bianchi spazzano le strade. In centro il traico
scorre luido intorno a una fontana gigantesca. Non c’è spazzatura in giro e, diversamente da molte altre città africane, non si
vedono sacchetti di plastica attaccati agli
alberi e ai recinti perché il governo di Kagame li ha vietati. Non ci sono giovani senzatetto che dormono sui marciapiedi o che
snifano colla. Vagabondi e piccoli criminali sono stati arrestati e spediti in un “centro
di riabilitazione” giovanile su un’isola in
mezzo al lago Kivu. A Kigali non ci sono
neppure grandi baraccopoli perché il governo non le tollera.
Il Ruanda è uno dei paesi più sicuri che
ho visitato e questo è diicile da conciliare
con il fatto che nel 1994, in cento giorni, qui
furono uccisi più civili che in qualsiasi altro
periodo di tre mesi della storia umana. Durante il genocidio, la maggioranza hutu si
scagliò contro la minoranza tutsi massacrando circa un milione di persone. Oggi è
diicile perino trovare dei pedoni indisciplinati.
Nessun paese in Africa, e forse nel mondo intero, è cambiato così radicalmente in
un arco di tempo tanto breve, e Kagame ha
guidato con accortezza questa trasformazione. In confronto ad altri presidenti – come Robert Mugabe dello Zimbabwe, un
megalomane, o Joseph Kabila della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), afabile ma inetto – Kagame sembra un dono del
cielo. Morigerato, stoico, analitico e austero, di solito rimane sveglio ino alle due o
alle tre di notte per sfogliare vecchi numeri
dell’Economist o i rapporti spediti dai villaggi di tutto il paese per trovare il modo
migliore per sfruttare il miliardo di dollari
di aiuti che il suo governo riceve ogni anno.
Kagame è una presenza issa al Forum economico mondiale di Davos ed è in ottimi
rapporti con molti uomini di potere, tra cui
Bill Gates e Bono.
Il presidente ruandese ha ottenuto progressi indiscutibili nella lotta contro il più
grande male dell’Africa: la povertà. Il suo
paese è ancora molto povero – in media gli
abitanti vivono con meno di un dollaro e
mezzo al giorno – ma la situazione è molto
migliorata rispetto al passato. Il governo
Kagame ha ridotto la mortalità infantile del
70 per cento, ha fatto crescere l’economia a
una media dell’8 per cento annuo negli ultimi cinque anni e ha istituito un programma
nazionale di assicurazione sanitaria. Progressista sotto vari aspetti, Kagame ha aidato numerosi incarichi politici a donne.
Oggi il parlamento ruandese conta la percentuale di donne più alta del mondo (64
per cento). I suoi sostenitori, in patria e
all’estero, afermano che ha abilmente riorganizzato la società ruandese per disinnescare le rivalità etniche.
Un alleato comodo
Il problema, però, non sono tanto i risultati
ottenuti dal presidente, quanto i suoi metodi. Ha fama di essere spietato e brutale, è
accusato di reprimere il suo popolo e di aver
inanziato segretamente alcuni gruppi ribelli nella vicina Repubblica Democratica
del Congo. O almeno, questo è quello che
afermano i suoi critici – tra cui alti funzionari delle Nazioni Unite e diplomatici occidentali – e i dissidenti ruandes  all’estero. Secondo loro il Ruanda di Kagame è stretto in una camicia di forza. Pochi
ruandesi si sentono liberi di parlare apertamente del presidente e molti aspetti della
loro vita sono rigidamente regolati dal governo. Molti dicono di sentirsi spiati da Kagame in persona.
Pur di tutelare i loro interessi strategici,
gli Stati Uniti hanno spesso appoggiato dei
dittatori, mettendo da parte ogni preoccupazione sui diritti umani e sui princìpi democratici. Ma la situazione del Ruanda è
diversa da quella dell’Egitto o dell’Arabia
Saudita, perché Washington non ha espliciti interessi strategici in questo paese africano. È minuscolo, ha poche risorse naturali e
non ospita terroristi islamici. E allora perché l’occidente si è afrettato a sostenere
Kagame?  Un  diplomatico  che  lavora  in
Ruanda mi ha spiegato che il presidente è
diventato un raro simbolo di progresso in
un continente dove proliferano gli stati falliti e la corruzione. Kagame dà lustro all’immagine dell’industria miliardaria degli aiuti. “Metti dentro i soldi e tiri fuori i risultati”,
mi ha detto il diplomatico. Sì, Kagame è
“assolutamente spietato”, ma gli Stati Uniti
hanno interesse ad averlo come allea to perché sta dimostrando che gli aiuti all’Africa
non sono soldi buttati e che con la leadership giusta i paesi poveri possono rimettersi
in piedi.
Il taxi mi lascia all’ingresso della residenza presidenziale, sorvegliata da due
guardie armate di mitra. I collaboratori di
Kagame mi invitano a passare attraverso il
metal detector e mi accompagnano in una
sala cavernosa con un tappeto color pesca.
Mi accomodo su un’elegante sedia di legno.
Mi  aspetto  di  incontrare  una  persona
dall’aria minacciosa, perciò rimango sorpreso quando Kagame scivola nella stanza
silenziosamente e si materializza accanto a
me senza che me ne accorga. Mi accoglie
con un sorriso timido e sembra più nervoso
di me.
Kagame, 55 anni, è cresciuto in una capanna con il tetto di paglia in un campo profughi in Uganda, un’umiliazione particolarmente grave per un tutsi come lui. I re tutsi
hanno dominato il Ruanda per secoli, prima che la maggioranza hutu rovesciasse la
situazione nel 1959, uccidendo centinaia o
forse migliaia di tutsi e costringendo molti,
tra cui la famiglia di Kagame, a scappare per
salvarsi la vita. Quando aveva circa dodici
anni e viveva nel campo profughi, Kagame
chiese al padre: “Perché ci troviamo qui?
Perché dobbiamo vivere in questo modo?
Cosa abbiamo fatto di male?”.
Questo, spiega Kagame, ha segnato la  nascita della sua coscienza politica. “È qui
che comincia  tutto”, sussurra. Questa storia
me la racconta all’inizio dell’intervista, che
dura quasi tre ore. Il presidente sembra
aperto, esuberante e cordiale. Parla un ottimo inglese con un forte accento. Militare di
formazione, racconta di essersi unito a un
gruppo ribelle ugandese poco dopo aver inito il liceo, di aver fatto carriera e di aver
passato un breve periodo nella scuola di
Fort  Leavenworth,  una  base  militare
dell’esercito  statunitense  in  Kansas,
nell’ambito di un’iniziativa del Pentagono
per rendere più professionali gli eserciti
africani.
Ma Kagame abbandonò il programma
per diventare uno dei comandanti di una
forza ribelle tutsi che nel 1990 invase il
Ruanda. Ben presto sarebbe diventato il capo dell’Esercito patriottico ruandese, impegnato  a  rovesciare  il  governo  hutu.
Nell’aprile del 1994, quando fu abbattuto
un aereo che trasportava il presidente ruandese di etnia hutu, gli estremisti hutu esortarono i loro seguaci, soprattutto attraverso
le radio, ad annientare i tutsi. Le squadre
della morte imperversarono in tutto il paese
ino a quando l’esercito ribelle di Kagame
prese d’assalto la capitale mettendo ine al
genocidio e conquistando il potere. Kagame diventò ministro della difesa, vicepresidente e inine presidente. In base alla costituzione  ruandese,  che  prevede  due  soli
mandati settennali, dovrebbe lasciare l’incarico nel 2017. Ma a Kigali si dice che probabilmente  chiederà  al  parlamento  di
emendare la costituzione per candidarsi
una terza volta.
La bomba demograica
Nonostante i grandi passi avanti, il Ruanda
è ancora una bomba a orologeria dal punto
di vista demograico. È uno dei paesi più
densamente popolati dell’Africa e, malgrado un recente programma di vasectomia
gratuita, ha ancora un tasso di natalità pericolosamente  alto.  La  maggior  parte  dei
ruandesi è composta da contadini e la loro
vita è inesorabilmente legata alla terra. Ma
ogni centimetro di quella terra, dalle paludi
alle vette delle montagne, è già occupato.
Quando chiedo a Kagame come pensa di
afrontare il problema, spiega che una delle
sue priorità è incoraggiare le donne ad avere meno igli. “Abbiamo insegnato alle donne a dire di no. Diciamo loro: ‘Non ti accontentare. Meriti di meglio’”. Cambiare atteggiamenti radicati richiede tempo, aggiunge,
“però funziona”.
Perino i critici più severi di Kagame riconoscono che sotto la sua guida molte cos  sono migliorate. La speranza media di vita,
per esempio, è passata a 56 anni rispetto ai
36 del 1994. La malaria era una delle principali cause di morte, ma il governo ha lanciato una campagna di disinfestazione su larga
scala e ha distribuito milioni di zanzariere.
In questo modo le morti dovute alla malaria
sono diminuite dell’85 per cento tra il 2005
e il 2011.
Kagame ha fatto costruire centinaia di
nuove scuole e installare chilometri di cavi
in ibra ottica, investendo in progetti infrastrutturali, tra cui un impianto per l’energia
geotermica. L’economia del Ruanda è tra le
più dinamiche del continente, sebbene il
paese non possa contare su risorse minerarie signiicative e non abbia uno sbocco sul  mare. Kagame spera di fare soldi anche con
il cafè,  il tè e i gorilla. “Il Ruanda ha superato le aspettative di tutti e continua a stupire”, dice Jendayi Frazer, ex sottosegretario
di stato per gli afari africani, che ha contribuito a indirizzare decine di milioni di dollari di aiuti statunitensi verso il Ruanda.
Il paese riceve parecchi inanziamenti
perché Kagame è un leader stimato. È un
uomo attivo e pragmatico, più interessato a
far funzionare le cose che all’ideologia.
Ama le nuove tecnologie – ha un proilo su
Twitter – ed è molto bravo a suddividere
progetti vasti e ambiziosi in progetti più piccoli e più facili da gestire. Nel 2012 il Ruanda
è salito al 52° posto, rispetto al 158° del 2005,
nella classiica Doing business della Banca
mondiale perché Kagame ha creato un’unità speciale del governo che esamina attentamente il sistema di classiicazione della
Banca mondiale per cercare di capire come
migliorare il punteggio del Ruanda sotto
ogni aspetto.
La corruzione, mi spiega Kagame, è “un
parassita” che scava nella carne di un paese
e “uccide la nazione”. Un’innovazione introdotta da Kagame per tenere sotto controllo i vari livelli della sua amministrazione
è pretendere che i funzionari irmino degli
imihigo, obiettivi. Gli  imihigofunzionano
come i contratti di rendimento delle aziende e sono lunghi documenti che indicano
obiettivi specifici, dal numero di segnali
stradali da piantare in un anno alle tonnellate di ananas da raccogliere. Lo staf di Kagame mi ha stampato un paio di imihigo,
ciascuno irmato personalmente da Kagame. Sono rimasto colpito dall’attenzione
ossessiva per i dettagli, dal numero di adulti di un particolare distretto rurale che devono imparare a leggere (1.500) al numero
di mucche da fecondare (3.000).
Il Ruanda è piccolissimo, e per questo
realizzare progetti ambiziosi è più facile che
in altri paesi dove esistono grandi territori
isolati dalla capitale. Molti storici spiegano
che il Ruanda ha una storia anomala per
l’Africa perché è sempre stato rigidamente
controllato. Prima che gli europei colonizzassero il continente, nell’ottocento c’erano
pochi stati forti e centralizzati. Due ecce  zioni erano il Ruanda e l’Etiopia, dove altipiani insolitamente fertili e densamente
popolati avevano fatto nascere dei regni e
degli eserciti disciplinati che avevano inito
per dominare i popoli più deboli. Ancora
oggi il Ruanda e l’Etiopia vengono spesso
paragonati: due società emerse da conlitti
con una forte leadership tecnocratica, ma
anche con una tradizione di autoritarismo e
spietatezza.
Squadra di killer
Fuori il sole picchia, ma le tende pesanti
fermano la luce e confondono il senso dello
scorrere del tempo. Kagame porta avanti la
sua ofensiva di charme, parlando dei miglioramenti dell’agricoltura e del fatto che i
contadini ruandesi usano più fertilizzanti
rispetto al passato. Ma quando sollevo l’argomento della sua fama di tiranno tra i dissidenti ruandesi, Kagame s’irrigidisce.
A  detta  di  molti,  Faustin  Kayumba
Nyamwasa è l’oppositore più temuto da Kagame. I due erano amici quando vivevano
in Uganda trent’anni fa. Nyamwasa è entrato molto presto nelle ile dei ribelli tutsi e in
seguito è diventato capo di stato maggiore
dell’esercito ruandese. Quando sono andato a trovarlo in Sudafrica, nella primavera
del 2012, ha espresso con sincerità il suo
odio verso Kagame.
“Kagame è diventato stupidamente arrogante”, mi ha detto Nyamwasa, elencando quelli che considera i più gravi errori del
presidente, tra cui la sua ingerenza nella
Repubblica Democratica del Congo e il fatto di aver allontanato da sé chiunque non
fosse d’accordo con lui. Nel 2010, dopo aver
contestato alcune decisioni del presidente
e  sentendo  voci  di  un  possibile  arresto,
Nyamwasa è fuggito dal Ruanda attraversando un iume a nuoto e ha raggiunto Johannesburg, dove pensava di essere al sicuro. Qualche mese dopo, mentre tornava a
casa, ha visto un uomo armato di pistola
correre verso la sua auto. L’uomo gli ha sparato allo stomaco e poi ha cercato di dargli
un colpo di grazia, ma la pistola si è inceppata. “Kagame stava cercando di uccidermi”, mi ha rivelato Nyamwasa. “Non ci sono dubbi”. A Johannesburg sei persone sono state processate in relazione all’attentato: tre di loro sono ruandesi.
Molti dissidenti sostengono che il Ruanda dispone di un servizio di intelligence letale, con assassini in grado di operare ovunque. René Claudel Mugenzi, un attivista
ruandese per i diritti umani che vive nel Regno Unito, mi ha raccontato che nel marzo
del 2011 Kagame aveva partecipato a un
programma della Bbc e che lui aveva telefonato per fargli una domanda provocatoria
– se in Ruanda poteva scoppiare una rivolta
simile a quelle della primavera araba. Qualche settimana dopo due poliziotti di Scotland Yard hanno bussato alla sua porta per
consegnargli una lettera. “Secondo informazioni aidabili il governo ruandese pone
una minaccia imminente alla sua vita”, diceva. Mugenzi era sbalordito. “Non avevo
mai pensato che potessero cercare di uccidermi nel Regno Unito”, spiega (il governo
ruandese ha negato di aver ordito un complotto per uccidere Mugenzi).
Guardando l’uomo seduto di fronte a
me è diicile credere alle accuse secondo
cui Kagame comanda una squadra internazionale di killer. In risposta alle mie domande sull’opposizione politica, fa vaghe allusioni ai dissidenti come Nyamwasa deinendoli dei “ladri”, pronti a sfruttare l’idea
“che in Africa non succeda niente di buono
e che ogni leader sia un dittatore e un oppressore.”
David Himbara, un altro ex consigliere
di  Kagame,  fuggito  a  Johannesburg  nel
2010,  mi  ha  raccontato  una  storia  sugli
scoppi d’ira di Kagame. Nel 2009 il presidente aveva convocato nel suo uicio due
impiegati, aveva sbattuto violentemente la
porta e aveva cominciato a urlare chiedendo dove avevano comprato le tende della
sala. Poi aveva fatto entrare due guardie armate di bastoni. Kagame aveva ordinato ai
due impiegati di sdraiarsi con la faccia a terra e aveva cominciato a picchiarli. Dopo
cinque minuti si era stancato e le guardie gli
avevano dato il cambio. Himbara dice che
la scena dava il voltastomaco. Quasi tutti i
conoscenti di Kagame con cui ho parlato mi
hanno raccontato storie simili. Noble Marara, un suo ex autista che vive in esilio nel
Regno Unito, osserva: “Se dovessi fare una
diagnosi, direi che sofre di disturbi della
personalità”.
Himbara è convinto che sebbene sia riuscito a conquistare il potere, Kagame è ancora una persona molto insicura. “È riuscito
appena a inire il liceo”, spiega l’ex consigliere, che ha conseguito un dottorato in
Canada, ed è stato uno dei principali collaboratori del presidente. “Era diicile lavorare con lui perché dovevamo sempre trovare il modo di far sembrare che fosse lui la
mente dietro ogni iniziativa. Una volta gli
scrissi un discorso e lui mi disse: ‘Credi di
essere più intelligente di me perché hai preso un dottorato in Canada? Sei un contadino. Vacci tu a leggere questo stupido discorso!’”. Himbara aveva dovuto rispondergli:
“No signore, lei è il presidente e nelle mie
mani il discorso è solo il prodotto di uno stupido contadino. Ma nelle sue è qualcosa di
speciale”.
Quando chiedo conferma della storia
del pestaggio, Kagame si china verso di me.
“È la mia natura. Posso essere molto duro e
fare errori di questo tipo”. Ma quando lo incalzo su altri episodi di violenza che mi sono
stati riferiti, mi risponde stizzito: “Dobbiamo metterci a elencare ogni nome, ogni incidente?”.
Si irrita ancora di più quando gli chiedo
di un suo costoso viaggio a New York nel
2011. All’epoca avevo sentito dire che aveva
speso 15mila dollari a notte per una suite. Fa
quasi spavento vedere con quanta rapidità
abbandona il suo atteggiamento cordiale
per diventare autoritario. Evidentemente
non è abituato alle domande provocatorie,
soprattutto se arrivano da un giornalista.
Kagame è accusato di aver sofocato gran
parte dei mezzi d’informazione indipendenti del Ruanda. Nel 2012 la giornalista
Agnès Uwimana Nkusi è stata condannata
a quattro anni di carcere con l’accusa di aver
insultato il presidente e messo in pericolo la
sicurezza nazionale pubblicando una serie
di articoli che lo criticavano. Un altro, JeanLéonard Rugambage, è stato ucciso dopo
aver pubblicato un articolo sui sospetti che
il governo di Kigali fosse implicato nell’at  tentato  a  Faustin  Kayumba  Nyamwasa.
Quindi passiamo a un altro argomento: i
suoi sforzi per neutralizzare le tensioni etniche adottando leggi contro il “settarismo” e
“l’ideologia genocida”. Queste norme sono
state criticate perché impediscono qualunque dibattito sull’etnia e il governo di Kagame le sta rivedendo.
Quando cerco di afrontare la questione
etnica con gli abitanti di Kigali non vado
troppo lontano. La maggior parte si riiuta
di dirmi se è hutu o tutsi, e dichiara di essere
semplicemente ruandese. Un giorno mi dirigo  verso  il  distretto  di  Nyamasheke,
nell’ovest del paese, sperando che la distanza dalla capitale possa permettere alla gente di parlare più apertamente. Mentre percorro circa 150 chilometri sulle colline, vedo
uomini che trasportano cataste di legna appena tagliata, donne che trascinano taniche
di acqua torbida e bambini che tirano calci
a palloni di stracci. C’è gente dappertutto.
Le colline sono animate e ritagliate in un’ininità di piccoli campi coltivati a cafè, mais,
canna da zucchero e banane.
Passo la notte a casa di Alfred, un maestro di scuola che ho incontrato lungo la
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strada.  Vive in una casetta con il pavimento
umido e una presina appesa al muro che dice “Gesù mi ama”. Davanti a una cena di
banane cotte e una scatola di sardine aperta
in mio onore, Alfred dice che con Kagame
la vita della sua famiglia è migliorata. “I
miei igli mangiano più di quanto facevo
io”, dice. “Tutto è migliorato: sicurezza,
istruzione, salute”. Penso che forse Alfred
sta lodando Kagame perché anche lui è tutsi. Ma lui scoppia a ridere quando gli chiedo
la sua etnia: “Oggi non lo diciamo. Però in
passato ero un hutu”.
Non è un segreto
Il mattino dopo incontro un altro hutu, molto più critico. Sostiene che i tutsi sono favoriti dal governo in tutto, dalle borse di studio per l’università alle cariche più importanti, con il pretesto di un programma di
airmative actiondestinato ai “sopravvissuto al genocidio” che, per deinizione, sono
tutsi. Tutto il sistema è truccato in modo da
tenere in alto i tutsi e in basso gli hutu, dice,
e “durante le elezioni gli emissari del partito ti strappavano la scheda se non votavi per
Kagame”. Durante le ultime consultazioni,
nel 2010, Kagame ha ottenuto il 93 per cento dei consensi, dopo che il suo governo
aveva di fatto impedito la partecipazione ai
principali partiti di opposizione.
Alcuni  ruandesi  dicono  che  Kagame
cerca di sminuire l’importanza del fattore
etnico solo per nascondere il fatto che i tutsi, circa il 15 per cento della popolazione,
controllano praticamente tutto. Se nessuno
può parlare del problema etnico, allora è
diicile parlare di un dominio tutsi. Quando afronto la questione con Kagame, cerca
di convincermi che in realtà i tutsi non controllano la politica e l’economia. Poi, quando gli sottopongo fatti speciici – i ministri
della difesa, della salute, degli esteri e delle
inanze sono tutsi, insieme ad alcuni degli
uomini più ricchi del paese – ammette che i
tutsi potrebbero godere di qualche vantaggio, ma questo avviene “in automatico, non
di proposito”.
Quello che tanti critici di Kagame trovano frustrante è che la repressione non è affatto un segreto. Human rights watch e Amnesty international hanno pubblicato rapporti dettagliati sui metodi usati dal governo per tenere sotto stretto controllo la so  cietà ruandese. Dopo le presidenziali del
2010 alcuni funzionari hanno denunciato la
“mancanza di spazio politico” ma il lusso
degli aiuti non si è fermato. Il sostegno degli
Stati Uniti è rimasto più o meno lo stesso,
circa 200 milioni di dollari all’anno in aiuti
diretti bilaterali. Accusato di molti crimini
nel corso degli anni, Kagame ha fatto tesoro
dei suoi contatti e dei suoi successi per sottrarsi alle critiche. E cerca di sfruttare anche
il senso di colpa occidentale, ricordando
spesso che durante il genocidio tutti i governi abbandonarono il Ruanda. Il messaggio
è chiaro: nessuno all’esterno può vantare
una superiorità morale, e nessuno dovrebbe dire a Kagame cosa è giusto e cosa è sbagliato.
“Il Ruanda non è un paese facile”, dice
un funzionario occidentale che ha collaborato con il governo a progetti di sviluppo.
“Kagame  è  oppressivo?  Sicuramente  sì.
Gliel’abbiamo fatto notare, chiedendogli
un’apertura? In continuazione”. Ma poi il
funzionario  aggiunge:  “Non  sappiamo
quanto sia delicata la situazione. Non abbiamo accesso alle informazioni di cui dispone il presidente”. È possibile, spiega, che
combattenti hutu in Ruanda o nella Repubblica Democratica del Congo stiano ancora
cercando di rovesciare Kagame, “perciò gli
concediamo il beneicio del dubbio”.
Dalle trincee al palazzo
Kagame non è l’unico leader africano a essere allo stesso tempo eicace e oppressivo,
anche se forse è il più eicace e tra i più oppressivi. L’ugandese Yoweri Museveni ha
portato la stabilità nel suo paese e pavimentato moltissime strade nei suoi 27 anni di
presidenza, ma ha anche perseguitato giornalisti e oppositori. L’etiope Meles Zenawi,
che ha governato per 21 anni prima di morire nell’estate del 2012, ha favorito il boom
economico del suo paese ma ha anche annientato ogni forma di dissenso. Isaias Afewerki, il presidente dell’Eritrea, a un certo
punto della sua carriera era un leader afascinante e progressista, ma poi ha riiutato
gli aiuti occidentali, incarcerato i dissidenti
in container sotterranei e trasformato il suo
paese nella Corea del Nord africana. È significativo che tutti questi uomini siano
stati, in un primo tempo, dei leader ribelli e
si siano fatti strada con le armi dalle trincee
al palazzo presidenziale.
Molti diplomatici e analisti con cui ho
parlato non sono eccessivamente preoccupati per l’atteggiamento autoritario di Kagame. Alcuni mi hanno perino detto che è
proprio quello di cui il continente ha bisogno: più Kagame, più uomini forti e abili,
capaci di paciicare società caotiche e conlittuali, di trovare medicine per gli ospedali, di schierare una forza di polizia e di togliere i sacchetti di plastica dagli alberi. Le
libertà non sono così importanti da queste
parti, sostengono, perché chi può godersi la
libertà di parola o di stampa quando tutti si
scannano? Quello che conta è preservare la
stabilità e minimizzare le soferenze isiche
e salvare vite umane dalle malattie.
Tuttavia i paesi donatori, come gli Stati
Uniti, non sono rimasti impassibili di fronte
al coinvolgimento di Kagame nella Repubblica Democratica del Congo. Nel 2012 un
rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che
le truppe ruandesi avevano varcato la frontiera per combattere al ianco di un gruppo
ribelle, l’M23, che massacrava i civili e si era
macchiato di vari crimini, come gli stupri di
massa, provocando caos e distruzione in
vaste aree dell’est della Rdc. La storia della
Repubblica Democratica del Congo è forse
una delle più grandi tragedie del mondo,
perché  un  paese  benedetto  da
ogni tipo di risorsa naturale è stato devastato da una serie di guerre connesse tra loro che hanno
causato milioni di morti. Un precedente  rapporto  dell’Onu  del
2002 accusava l’esercito di Kagame di saccheggiare i minerali dell’Rdc ed esportarli
attraverso il Ruanda, ottenendo proitti da
capogiro, e presumibilmente ricorrendo
all’aiuto di uno dei più famigerati mercanti
di armi del mondo, Viktor Bout.
Kagame ha sempre negato ogni coinvolgimento nella Rdc, respingendo le accuse
secondo cui il suo governo l’anno scorso
avrebbe introdotto delle truppe nel paese.
Gli Stati Uniti, però, hanno subito tagliato
200mila dollari di aiuti militari al Ruanda:
una cifra irrisoria, ma in ogni caso un segnale di forte condanna. Altri paesi hanno a
loro volta ridotto o sospeso gli aiuti. Era la
prima volta che Kagame perdeva un’importante battaglia di pubbliche relazioni.
Quando gli parlo del problema della Repubblica Democratica del Congo, il presidente annuisce con aria pensierosa, ben
sapendo dove voglio arrivare con le mie domande. Poi mi invita a ripercorrere con lui
la complessa storia recente dei due paesi, a
partire dai primi anni novanta, quando il
governo congolese si schierò con il governo
hutu ruandese per respingere gli attacchi
dei ribelli di Ka game. Dopo che Kagame
riuscì a sconiggere l’esercito hutu, molti
comandanti che avevano orchestrato il genocidio fuggirono nello Zaire (oggi Rdc) e
continuarono ad attaccare il Ruanda dai
campi profughi oltre il conine. Convinto
che il governo congolese appoggiasse i ribelli hutu, Kagame invase il paese vicino e
le violenze continuano ancora oggi.
Un  problema  storico  è  che  l’esercito
ruandese ha segretamente sostenuto varie
forze congolesi per potersi ritagliare una
zona cuscinetto controllata dai tutsi lungo
la frontiera, che da decenni è una specie di
membrana porosa attraversata da un iume
di uomini, animali e merci. A detta di Kagame, molti tutsi ruandesi temono che senza
la protezione del Ruanda i loro fratelli che
vivono nella Rdc possano essere massacrati. Ammette inoltre che alcune chiese ruandesi mandano denaro ai ribelli congolesi
per sostenere una campagna di autodifesa.
Ma i critici del presidente ribattono che è
solo un pretesto per interferire in un paese
ricco di risorse facili da conquistare.
Il presidente ammette che alcuni soldati
ruandesi combattono nella Rdc, ma precisa
che si tratta di disertori. “A un certo punto
alcuni soldati sono scappati. Se ne vanno e
basta”, sostiene. È un modo astuto per spiegare come mai nella
Repubblica  Democratica  del
Congo  siano  stati  avvistati  dei
soldati ruandesi, ma non ha molto senso. In un paese sorvegliato
come il Ruanda, com’è possibile che i soldati “se ne vadano e basta” senza che qualcuno lo ordini o chiuda deliberatamente un
occhio? Quando glielo chiedo, Kagame si
difende. “Parla sul serio?”, mi chiede. “Perché gli Stati Uniti, con tutta la loro potenza,
non sono riusciti a chiudere la frontiera con
il Messico alla droga e a tutto quello che la
attraversa? Forse non s’impegnano abbastanza? Anche questo è un problema complesso”.
Il sole iltra a poco a poco tra le tende e il
volto di Kagame comincia a mostrare i segni delle quattro o cinque ore di sonno notturno. Le sue risposte diventano più brevi,
le pause più lunghe. Quando il mio tempo
sta per esaurirsi, diventa quasi malinconico. Si alza lentamente dalla sedia, si liscia i
pantaloni e mi saluta. “Di tutti questi soprannomi che mi sono stati aibbiati”, dice,
“alcuni li accetto, altri non sono giusti”. E
mentre vado via aggiunge, quasi con un
sussurro: “Dio mi ha fatto in modo molto
strano”.  u  gc
52 Internazionale 1033 | 10 gennaio 2014

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