lunedì 20 gennaio 2014

1029 - La stagnazione secolare Secondo l’economista Larry Summers, l’occidente è destinato ad anni di crescita piatta come il Giappone. Il suo intervento fa discutere gli esperti e i politici Mark Schieritz, Die Zeit, Germania

N
ei primi mesi della presidenza
di Bill  Clinton un gruppo di economisti statunitensi ricevette
l’incarico di esaminare attentamente la situazione del Giappone. In quel
periodo, all’inizio degli anni novanta, il
pae se asiatico era precipitato in una grave
crisi dopo anni di rapido sviluppo. Uno degli
esperti era Larry Summers, un ambizioso
studioso di economia che era stato nominato professore a Harvard ad appena 29 anni .
Summers e i suoi colleghi si misero al lavoro
e  pronosticarono  una  rapida  ripresa
dell’economia giapponese. La loro previsione, però, si è rivelata completamente
sbagliata: oggi il pil del Giappone corrisponde a circa la metà di quello contenuto nello
studio per l’amministrazione Clinton.
Summers, che in seguito è stato ministro
delle inanze e poi è tornato a insegnare a
Harvard, ha raccontato questo aneddoto a
novembre, in occasione di un convegno del
Fondo monetario internazionale. Il suo intervento, che è durato sedici minuti, ha avuto  un  grande  risalto  online,  gettando  lo
scompiglio tra gli economisti e i politici di
tutto il mondo. Summers, infatti, ritiene
che l’occidente si trovi di fronte allo stesso
destino del Giappone, cioè lo attendono anni di stagnazione.
Per comprendere lo scalpore provocato
dal discorso, bisogna considerare che il modello  economico  occidentale  è  basato
sull’idea di una crescita ininterrotta. Una
crescita che serve a creare nuovi posti di lavoro per le persone che restano disoccupate
a causa del progresso tecnologico. Una crescita che fa in modo che ci sia bisogno di
sempre meno giovani per pagare la pensione a un numero crescente di anziani. Una
crescita, inine, che permette di far salire le  entrate dello stato, che così può rimborsare
i suoi debiti. Insomma, senza la crescita il
mondo così com’è organizzato si trova di
fronte a gravi diicoltà.
Secondo Summers, invece, questo problema esiste già: a uno sguardo attento, infatti, si può notare che l’economia dei grandi paesi industrializzati è praticamente immobile  da  più  di  vent’anni.  Prima  dello
scoppio della crisi, nel 2008, negli Stati Uniti era stato registrato un notevole sviluppo
in alcuni settori, ma questo era dovuto soprattutto al fatto che l’economia era stata
ravvivata grazie agli eccessi del mercato
immobiliare. Qualche anno prima era avvenuta la stessa cosa quando gli statunitensi si
erano rovinati speculando sulle azioni delle
aziende high-tech.
Troppi risparmi
In questa prospettiva, la storia economica
recente può essere descritta come una sequenza ininterrotta di bolle speculative.
Diversamente da altre fasi di crescita, durante le bolle le paghe dei lavoratori non
hanno registrato quasi nessun aumento, e
anche la produzione industriale è rimasta
indietro rispetto alle sue possibilità. I tempi
della crescita sana, ha detto Summers, sono
“initi da un pezzo”.
Secondo l’economista, il motivo è che si
risparmia troppo e si investe troppo poco.
Normalmente gli interessi fanno sì che i risparmi e gli investimenti siano in equilibrio.
Se per esempio durante una crisi si risparmia molto, in un primo momento i consumi  ne risentono. Ma dato che tutti i soldi risparmiati iniscono prima o poi sul mercato, si
ottiene una riduzione del costo del denaro,
cioè dei tassi d’interesse, e le imprese possono ottenere finanziamenti più convenienti. In questo modo diventano realizzabili  quei  progetti  d’investimento  che  in
presenza di tassi d’interesse più alti non sarebbero stati redditizi. Così l’economia torna a crescere a ritmi più sostenuti.
Ma i tassi d’interesse hanno un limite:
non possono scendere in modo signiicativo al di sotto dello zero (un tasso d’interesse
è negativo quando il suo valore nominale è
inferiore all’inlazione, cioè la perdita di
potere d’acquisto dei soldi depositati supera la loro remunerazione). Se, con i tassi
negativi, le banche tentassero di sottrarre
una certa somma ogni mese dai risparmi   dei loro correntisti, i clienti si limiterebbero
a conservare più denaro a casa.
Nel  suo  discorso  Summers  ha  citato
l’economista Alvin Hansen, che già negli
anni trenta aveva previsto una pericolosa
“stagnazione secolare” dell’economia: nello scenario delineato da Hansen, le imprese
investono meno perché vendono meno prodotti a causa della diminuzione della popolazione e perché si è esaurita la spinta causata dalle grandi innovazioni tecnologiche.
Le aziende potrebbero decidere di lanciare
nuovi progetti, in modo da riequilibrare i
risparmi e gli investimenti, solo se i tassi
d’interesse scendessero molto al di sotto
dello zero. Dal momento che questo è impossibile, i risparmi restano inutilizzati e
quindi l’economia ristagna.
Negli ultimi anni, in efetti, gli investimenti nei paesi industrializzati sono calati.
Le imprese accumulano liquidità invece di
comprare nuovi macchinari. La Apple detiene quasi centocinquanta miliardi di dollari in riserve di liquidità, e perino in Germania, dove l’economia è relativamente
lorida, la quota di investimenti che ha contribuito al pil è scesa dal 30 per cento circa
del 1980 all’attuale 17 per cento. A cinque
anni dall’inizio della crisi, inoltre, in quasi
tutti i paesi la crescita è nettamente sotto i
livelli precedenti al 2008.
Secondo i profeti della stagnazione, gli
eccessi dei mercati inanziari non sono un  efetto collaterale ma, per citare il premio
Nobel per l’economia Paul Krugman, il tentativo disperato di continuare anche in un
contesto del genere a raggiungere “qualcosa di simile alla piena occupazione”. Quando si cade nella trappola della stagnazione
non valgono più le regole di una sana amministrazione economica e qualunque tipo di
spesa garantisce la creazione di posti di lavoro anche se, in base ai criteri economici
tradizionali, si tratta di uno spreco.
I moderni critici della crescita possono
contare su una lunga tradizione. Già nell’ottocento, studiosi come l’inglese Thomas
Malthus sostenevano che la limitatezza
delle risorse frena la crescita. Nel 1972, inoltre, il Club di Roma pubblicò un famoso
studio secondo cui le riserve di materie prime si sarebbero esaurite già prima del 2100.
John Maynard Keynes, inine, ipotizzava
che a un certo punto la crescita avrebbe cominciato  autonomamente  a  ridursi,  dal
momento che i bisogni materiali dell’umanità erano già ampiamente soddisfatti. Il
problema di queste previsioni è che inora
hanno sempre sottovalutato il progresso
tecnico, che permette alle aziende di produrre risparmiando risorse e fa nascere
nuovi bisogni tra i consumatori.
Summers, però, si discosta dai suoi predecessori su un punto importante: l’economista è convinto che la crisi della crescita si
possa quantomeno attenuare attraverso
delle misure politiche, ma a condizione che
si riesca a trasformare nuovamente i risparmi in investimenti. Le vie d’uscita da questa
situazione, però, sono tutte drastiche. Una
consisterebbe nell’abolizione del denaro
contante. In questo modo si dovrebbero depositare in banca almeno i risparmi necessari per soddisfare il fabbisogno quotidiano
(e i pagamenti dovrebbero avvenire attraverso la carta di credito), e le banche centrali potrebbero tranquillamente ridurre i tassi
d’interesse al di sotto dello zero. Così si risparmierebbe di meno e si investirebbe di
più. Si potrebbe pure immaginare che sia lo
stato a spendere il denaro in eccedenza, come propose negli anni cinquanta l’economista Paul Samuelson, un allievo di Hansen. La sua idea era la seguente: anche se i  tempi normali è diicile che lo stato prenda
in prestito troppi soldi da investire, perché
poi ne resterebbero pochi per le imprese,
nei momenti di crisi le aziende non hanno
comunque intenzione di investire, perciò lo
stato potrebbe usare i capitali che altrimenti resterebbero immobilizzati nei conti bancari, e in questo modo sventerebbe il rischio
della stagnazione.
Samuelson era convinto che la società
avrebbe tratto proitto dagli investimenti
pubblici. E poiché, data l’oferta eccessiva
di risparmi, sarebbe sceso il costo del denaro, per lo stato sarebbe diventato conveniente indebitarsi a quello scopo. L’economista proponeva di spianare le montagne
in modo che i treni andassero più veloci.
Nella situazione attuale si potrebbe pensare, per esempio, al inanziamento di una
svolta energetica generalizzata per afrontare il cambiamento climatico.
Rilevanza politica
La tesi della stagnazione permanente giustiica quindi l’elaborazione di programmi
d’investimento inanziati con il debito pubblico, e in questo risiede la sua rilevanza
politica: a causa delle loro limitate risorse
inanziarie, infatti, molti paesi stanno ridimensionando gli investimenti. Il governo
tedesco sta perino cercando di limitare la
richiesta di crediti sia a livello europeo sia a
livello internazionale, sostenendo che la
crescita riprenderà solo se saranno attuate
delle riforme strutturali.
Secondo il punto di vista della Germania, in seguito allo scoppio della bolla immobiliare paesi come la Spagna non sono
economicamente produttivi come in passato: troppa manodopera formata per lavorare nel settore edile deve imparare un altro
mestiere e trovare un altro impiego. Ci vuole tempo perché questo succeda, e il compito sarebbe più facile se il mercato del lavoro
fosse lessibile. Non stupisce quindi che a
Berlino molti sospettino che la crisi sia solo
un nuovo stratagemma degli Stati Uniti per
costringere i tedeschi a spendere di più. Il
dibattito sulla stagnazione si soferma anche sul modo più corretto di analizzare la
crisi: Summers vorrebbe soprattutto rilanciare la domanda, mentre i suoi avversari
puntano alle riforme.
Nel Giappone degli anni novanta infuriava una dibattito simile, ma alla ine nessuna delle due posizioni ha dato risultati
degni di nota. Forse è questo il rischio peggiore per l’economia globale. u  f

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