S
eduto al volante della sua Buick, Pan accende l’autoradio
con il suo cd preferito e su un
allegro motivetto raisi lancia
a tutta velocità sul raccordo
sopraelevato del porto commerciale di Qingdao. Sei corsie di asfalto
che sorvolano una itta schiera di case per
atterrare davanti alle navi ormeggiate alla
banchina di Heze road. Lao Pan lavora qui,
come capitano di navi mercantili. Fino a sei
anni fa era un pescatore e lavorava nell’oceano Atlantico per conto dell’azienda ittica
di Qingdao, un’impresa statale gestita dal
comune della città. Capitano di lungo corso, Lao Pan ha lavorato per otto anni al largo
del Marocco, a dodicimila chilometri dalla
sua città natale. Con la marea prendeva il
largo e portava il suo grande peschereccio
lontano, verso sud, ino al largo delle coste
rocciose e desertiche del Sahara occidentale, vicino alla frontiera con la Mauritania. A
bordo, guidava una ventina di giovani marinai: igli di contadini arrivati dalle province cinesi del Sichuan o dello Henan, e catapultati nelle acque dell’Atlantico. Con le
reti ancora umide e le stive piene di anguille, polpi e calamari, il capitano tornava nel
porto di Agadir, ai piedi dell’ex casba decorata con la scritta: “Dio, la patria, il re”.
La pesca era miracolosa: “Prendevamo
tantissimi polpi, era incredibile. Li vendevamo a diecimila dollari alla tonnellata ai
giapponesi, che ne sono ghiotti, e spedivamo le anguille in Cina”. In quegli anni, tra la
metà degli anni novanta e la metà degli anni 2000, il Marocco – così come la Mauritania, il Ghana e la Guinea equatoriale – era
un vero e proprio Eldorado. “Le peschiere
di Agadir avevano noleggiato una sessantina di pescherecci sui quali lavoravano circa
mille marinai cinesi. Come i sudcoreani, i
nostri concorrenti”. Tra una battuta di pesca d’altura e l’altra, Lao Pan aveva tre giorni di riposo. Così, con i suoi abiti migliori,
andava al porto per mescolarsi ai turisti seduti sulle terrazze dei ristoranti. Il pomeriggio si chiudeva in un internet café per parlare attraverso una webcam con sua moglie
Mei e la loro iglia Lin, che oggi ha 19 anni.
La sera, mentre i suoi marinai si giocavano
lo stipendio a poker, il capitano russava sul
divano di cuoio della segreteria della sua
peschiera, un piccolo uicio a Charaf, una
cittadina a pochi minuti a piedi dal centro
della città. “Ogni tanto con un altro capitano di Qingdao e con gli uiciali di macchina
prendevamo l’auto del padrone e andavamo ino a Marrakech, a tre ore di macchina
da Agadir. Attraversavamo l’Atlante a tutto
gas, il panorama era magniico”.
Dal suo esilio africano, Lao Pan ha portato vari gioielli d’argento e due braccialetti
d’avorio per sua moglie, che li tiene in bella
vista su un mobile in salotto. Ha conservato
anche un album di foto e lo sfoglia con aria
nostalgica, come davanti a dei ricordi d’infanzia: “Qui sono io di fronte al Nilo blu, il
mio ristorante preferito. Qui sono davanti a
un albergo di lusso pieno di francesi e là davanti a un muro. Lì i muri sono bianchi, non
come in Cina, dove tutto è grigio”. Nel suo
ultimo anno in Marocco il capitano Pan
guadagnava 600 dollari al mese, senza
contare i premi, cioè uno stipendio da due a
quattro volte più alto di quello di un capitano cinese che lavora in acque nazionali. “Ci
sono andato per questo. Oggi un capitano
guadagna il doppio, senza contare i premi”.
Ma alla ine Pan ha preferito tornare in Cina. Stanco di non poter vedere crescere la
sua unica iglia, alle prese con una madre
un po’ troppo apprensiva, Lao Pan ha preferito non rinnovare il suo contratto. “Mia iglia Lin ha 19 anni. Non ha mai avuto un
ragazzo e ha paura del mondo. Con i suoi
ottimi voti avrebbe potuto studiare a Pechino, ma è troppo legata alla famiglia”. Il fratello di Pan, che lavora in Giappone da sei
anni come operaio specializzato in una fabbrica di auto, ha gli stessi problemi: “Si svena per permettere al iglio di diventare tiratore scelto nella polizia. Sono sei anni che
non si vedono e credo che non tornerà molto presto” Rientrato a Qingdao nel 2006, il capitano ha rinunciato alla pesca. A dire il vero
non ha avuto molta scelta. A due anni dalle
Olimpiadi di Pechino del 2008, la grande
baia di nove milioni di abitanti si preparava
ad accogliere le gare nautiche. La città doveva diventare una vetrina mondiale e
l’obiettivo principale era la crescita. I piccoli porti lungo la costa di Qingdao sono
scomparsi uno dopo l’altro, così come le case sul mare, davanti alle quali le donne rammendavano le reti da pesca. Sulla costa
spianata dalle ruspe, sono stati costruiti
grattacieli residenziali con pannelli solari
sui tetti e condizionatori sui balconi. Qui il
sindaco ha sistemato le famiglie dei pescatori, che in cambio hanno dovuto sborsare
le indennità ricevute per le demolizioni delle loro case. Nella fretta della preparazione
delle Olimpiadi, l’isola del Grano, un isolotto nella baia ricoperto di acacie, era stata
promessa a un emiro di Dubai che voleva
farci costruire un albergo di lusso con suite
reali sottomarine. Ma l’imprenditore ha rinunciato. Così sull’isola sono state ammucchiate le migliaia di vecchi pescherecci di
legno di Qingdao. E nella fretta, l’isola si è
trasformata nel cimitero di un tempo ormai
scomparso.
I pescatori non si sono lamentati di questa modernizzazione travolgente. L’indennità di centomila yuan (12mila euro), che si
aggiunge a una pensione mensile di duemila yuan (250 euro), gli permette di vivere
modestamente negli spaziosi appartamenti di cemento. Nemmeno Lao Pan ha rimpianti. Anche senza le Olimpiadi, dice l’ex
pescatore, il cambiamento era inevitabile:
“Quando sono tornato in Cina, nel 2006, il
pesce era quasi completamente scomparso.
E oggi in mare non c’è più nulla. Anche la
moratoria di quattro mesi sulla costa non
viene rispettata”. Della sua esperienza passata ricorda i marocchini che “ributtavano
in acqua i pesci più piccoli. Noi invece tenia mo tutto. Così adesso mangiamo pesce di
allevamento nutrito con farina animale”.
La Buick di Pan è parcheggiata sulla
banchina. Il porto mercantile di Qingdao è
il quarto più importante della Cina. Con un
thermos pieno di tè, Lao Pan indossa la sua
tuta bianca con le strisce fosforescenti cuci
te sulle spalle e sugli avambracci. Fino alle
17 è al timone di una pilotina, e aianca nel
le manovre i bastimenti e le navi che arriva
no da tutto il mondo. Un “Welcome” dipin
to su tre silos di grano accoglie le navi all’en
trata dell’immenso molo. Un traghetto
bianco e arancione in partenza per il Giap
pone imbarca gli ultimi passeggeri. “Guido
all’entrata e all’uscita del porto navi che mi
surano ino a 360 metri e che possono pesa
re ino a 220mila tonnellate”, spiega Lao
Pan. Un affare redditizio per il porto di
Qingdao, che fattura mezzo yuan alla ton
nellata, cioè ino a tredicimila euro per ac
compagnare le navi più grosse. Ma gli ordini
e le commesse di prodotti made in China
cominciano a diminuire, e i grandi porta
container sono sempre meno. Questa mat
tina, per esempio, Lao Pan è impegnato in
una lunga partita di mah-jongcon i suoi col
leghi. Dall’oblò della timoneria climatizza
ta si sente lo sciabordio delle onde, i rumori
delle vecchie bagnarole che galleggiano, il
frastuono dei martelli pneumatici. Un ma
rinaio a torso nudo cerca di far ripartire il
suo motore a martellate. Altri strappano le
alghe verdi che in estate si attaccano alle
reti e invadono le spiagge. Zhu, 53 anni e 35
di pesca locale alle spalle, abita in fondo alla
baia. Secco come una canna di bambù, pan
cia e braccia coperte di cicatrici, dice di non
amare più la vita da marinaio: “Vorrei che il
mio quartiere fosse dichiarato ‘zona di svi
luppo turistico’. Così potrei buttare via le
mie reti come gli altri”. A Qingdao, città
portuale di quasi dieci milioni di abitanti,
rimangono solo settemila pescatori.
Altri tempi
Agadir. In agosto la temperatura siora i 47
gradi e gli abitanti, già debilitati dal digiuno
del ramadan, evitano il sole. Anche i caccia
tori di turisti preferiscono risparmiare le
energie. Chiusa nelle case o all’ombra delle
palme, la città è addormentata, tranne al
porto, dove c’è una grande attività. Tra
qualche ora rientreranno i grandi pesche
recci cinesi, sotto la pioggia di guano dei
gabbiani eccitati dalle stive piene. Domani
comincia la “pausa biologica”, un divieto di
pesca di altura di almeno tre mesi decisa dal
re. Le risorse si stanno esaurendo. Il polpo,
“l’oro bianco” del mare marocchino, ri
schiava di scomparire, e una drastica mora
toria di otto mesi, imposta nel 2003, ha li
mitato i danni. Ma le grandi battute di pesca
raccontate da Lao Pan appartengono al pas
sato. Le navi della peschiera di Qingdao,
inviate a 12mila chilometri dal loro porto,
sono scomparse. Ormeggiate da mesi
all’estremità in cemento della banchina
principale, due barche hanno la carena ar
rugginita e piena di buchi.
“Non escono da un bel po’”, osserva uno
scaricatore marocchino.
“Perché?”.
“Gli afari, gli afari!”.
Le barche rimangono a galla per mira
colo. Mano a mano sono fatte a pezzi, can
nibalizzate, usate per riparare le navi della
lotta cinese ancora in attività. All’improv
viso le banchine si animano. Appena le bar
che attraccano, gli uomini cominciano ad
agitarsi tra le grida dei gabbiani. Le casse di
preziosi polpi, già congelate e imballate, so
no issate dalle stive per essere subito spedi
te al migliore oferente in Europa o in Giap
pone. Avvolti in tute multistrato per afron
tare il freddo dei depositi, i magazzinieri
con passo nervoso e spedito entrano nel
ventre delle navi per togliere dall’oscurità
migliaia di casse da sistemare e ordinare in
tutta fretta. Sulla passerella i capitani cinesi
osservano in silenzio e con attenzione. Alla
ine delle operazioni gli uomini vengono
tutti perquisiti. Una volta sistemato il carico
a terra, la lotta si raccoglie in fondo al por
to. Sono una sessantina di barche intorno ai
40 metri, ormeggiate una accanto all’altra
su quattro ile. Di fronte, un’armata vario
pinta di piccoli gozzi marocchini.
Ad Agadir ci sono sei aziende ittiche ci
nesi. La più importante, quella statale, pos
siede 25 imbarcazioni riconoscibili dal colo
re azzurro dello scafo. Il comune di
Shanghai dispone della seconda lotta in
ordine di importanza: undici barche opera
tive e sei vecchie bagnarole. “Arriveranno
tre nuove barche a ine anno”, promettono
a ogni ispezione i responsabili di Shanghai.
Due pescherecci sono ormeggiati accanto
alle vecchie imbarcazioni di Qingdao. Ap
pena uscite dai cantieri navali, nel 1991,
queste due barche dalla chiglia di legno e
lamiera si chiamavano Cna 2711 e Cna 2712.
Una famiglia marocchina importante nel
settore immobiliare e in società con i cinesi
– la sua licenza di pesca in cambio della me
tà degli incassi – le ha ribattezzate Rahma I
e Rahma II.
Jin Zi You, 24 anni, arrivata ad Agadir
nove mesi fa, gestisce le due imbarcazioni
che suo zio, un ricco imprenditore, ha com
prato dalle autorità del comune di Nantong
per un pezzo di pane e ha aidato a lei. Fi
glia di un commissario di polizia che “ha
smesso di correre dietro i delinquenti dopo
una brutta caduta” e di una madre impiega
ta all’uicio delle imposte, Jin Zi You stava
inendo un anno di stage presso un fabbri
cante cinese di mazze da golf, quando suo
zio le ha proposto l’avventura africana. La
ragazza ha accettato “per lo stipendio, per
l’esperienza e per il curriculum”. Sul posto
Jin ha a disposizione una vecchia Bmw e tre
volte alla settimana una donna delle pulizie
marocchina che le prepara i suoi piatti pre
feriti.
Una volta arrivata in Marocco, Jin si è
trovata un po’ spaesata. A eccezione del ca
pitano e dell’uiciale di macchina, entram
bi cinesi, l’equipaggio dei due pescherecci è
locale. Per far fronte alla disoccupazione, le
autorità del regno hanno imposto questa
misura sconosciuta ai tempi di Lao Pan. Ma
la ragazza ha imparato il suo nuovo mestie
re sulle rive dell’Atlantico. La sua attività
quotidiana? Gestire uomini dal carattere
forte e riempire le varie pratiche burocrati
che per ottenere le sovvenzioni dello stato
cinese, come l’importante contributo an
nuale per il gasolio di 300mila yuan (37mila
euro). Gli afari, dice la ragazza, non vanno
più molto bene, ma il governo di Pechino
vuole che si rimanga sul posto, che si occupi
il terreno.
Jin non ha grande esperienza di pesca, e
ancora meno di politica. Nella sua città na
tale, Qidong, a 70 chilometri da Nantong, ci
sono regolarmente delle manifestazioni.
Alla ine dell’estate diecimila abitanti ar
rabbiati hanno occupato il comune per pro
testare contro un progetto che voleva river
sare 160mila tonnellate di acque nere nella
baia della città. Ma la ragazza dice di non
essere al corrente di quello che succede in
patria. Quando la giovane “padrona” arriva
sulle banchine del porto di Agadir con il suo
foulard di seta giallo, il suo berretto da base
ball con la scritta New York City e i suoi oc
chiali da sole tempestati di Swarowski, Jin
attira gli sguardi di tutti. Coperti di gasolio
e di resti di pesce fresco, i pescatori marocchini guardano con occhi increduli le Adidas rosa luorescenti, la borsa e la giacca di
jeans attillata che le protegge la pelle bianca
dai raggi del sole. Sotto una falsa aria altezzosa, l’orecchio incollato al cellulare, Jin ripete sempre le stesse frasi senza verbo, ma
insistendo su ogni sillaba: “Questo, non
d’accordo! Questo, troppo caro!”. Gli uomini, irritati, le rispondono in spagnolo, poi in
arabo quando cominciano ad arrabbiarsi.
La nipote dell’imprenditore non sopporta che una cassa di polpi sfugga alla sua
contabilità. La sua calcolatrice vocale dai
grossi tasti verdi non mente mai. In caso di
errore l’aiuta il suo ragazzo, che le fa da interprete. L’aspetto da primo della classe di
Shen Yu Wei non fa paura a nessuno. Lui è
cortese, paziente e sa essere diplomatico.
“Qui funziona così, tutti vogliono la loro
cassa e non vale la pena arrabbiarsi”. All’entrata del porto di Agadir i guardiani hanno
imparato a salutare Shen Yu Wei con il suo
nome occidentale, Christophe, per poi
chiedergli la mancia. Jin non va mai fuori
città: anche quando le sue barche sono fuori per una battuta di pesca, preferisce rimanere a casa, dove non fa niente. “Non mi
sento sicura. Al suk mi guardano tutti come
se fossi un animale allo zoo, ed è vero che
non somiglio ai soliti turisti francesi o russi”. Così preferisce evadere, malinconica,
sul touch screen del suo smartphone e su
RenRen, la versione cinese di Facebook,
conta i giorni del suo purgatorio marocchino. Se avrà buoni risultati, tra sei mesi potrebbe tornare a casa. A volte per rendere
più piacevole un pomeriggio e per combattere un po’ la nostalgia di casa, Jin propone
ai suoi due capitani e agli uiciali di macchina un corso di cucina sul ponte del Rahma II. Così mettono un telo di plastica sul
tavolo di ferro e preparano diversi chili di
ravioli con la carne di maiale e il sedano, da
cuocere per tre minuti nell’acqua bollente.
Ma oggi Qiu, l’uiciale di macchina di
46 anni, non ha voglia di giocare al cuoco.
Esce dalla sala macchine dove combatte da
ore con la stiva refrigerata per mantenerla
alla giusta temperatura ed è arrabbiato:
“Siamo in pieno ramadan ed è impossibile
avere dei meccanici! E quegli scansafatiche
di agenti portuali non vogliono anticipare lo
scarico della merce! Sono sicuro che dovrò
fare tutto da solo con quattro pezzi di corda
del cazzo!”. Ma il nervosismo scorbutico di
Qiu lascia Jin del tutto indiferente. Il marinaio insiste: “Bisogna essere malati per lavorare in questa nave di merda. È tutto talmente marcio, ci sono così tanti problemi che anch’io ho paura”. I suoi brontolii sono
coperti dalla grossa risata del capitano
Miao. “Se continua così, iniamo come la
lotta di Qingdao che ha fatto le valigie in
primavera”. Le voci che circolano nel porto
dicono che il comune di Qingdao ha abban
donato il paese lasciando dietro di sé, oltre
alle vecchie barche, un debito di un milione
di dollari: stipendi non pagati, benzina, spe
se varie. Pare che l’equipaggio marocchino
rimasto a terra sia molto arrabbiato.
L’uiciale di macchina del Rahma II è
molto preoccupato, agita le braccia e batte
il pugno sul tavolo: “Se vuoi dei pezzi di ri
cambio per la stiva frigorifera faresti meglio
a rivendere la tua Bmw. E con il resto mi ri
servi un biglietto di sola andata per la Cina,
sono tre anni che mi rompo le scatole qui!”.
Le nuvole di farina sollevate a ogni pugno
sbattuto sul tavolo non sembrano disturba
re Jin. Sbadigliando in modo ostentato, la
ragazza se ne va con il suo piatto di ravioli in
cucina, dove il capitano ha fatto bollire una
pentola d’acqua su un vecchio fornello a
gas. Entrambi sanno bene che tre chili di
profumati ravioli accompagnati da gambe
ri lambé al whisky basteranno a calmare
Qiu. Almeno ino a domani.
L’uiciale di macchina ha un brutto ri
cordo di una battuta di pesca recente. Con
un cavo arrugginito abbandonato a prua si è
tagliato la mano e ha dovuto amputarsi un
dito. Appena parla di Agadir, questa città
agli antipodi del suo mondo, comincia a
grattarsi nervosamente il collo con il suo
indice più corto. Non se ne rende conto, è
più forte di lui. A tavola è critico: “Qualcuno
potrebbe almeno riconoscere che i maroc
chini non sono molto furbi. Se si esclude
l’aprire una cella frigorifera, mi chiedo che
cosa sappiano fare questi marinai”. Spesso
si annoia: “Qui non c’è niente da fare. Nes
sun centro commerciale, nessun giardino
all’ombra dove sedersi. Solo una spiaggia,
dei bar e dei ristoranti per turisti. Ah sì, ci
sono anche due supermercati dove la birra
e il whisky sono più cari che in Cina. Biso
gna essere pazzi per rimanere!”. Qiu si è
appena servito il quinto whisky.
In Cina Qiu ha un appartamento di 160
metri quadrati al piano terra di un ediicio
degli anni novanta in stile sovietico. Gli pia
cerebbe poterlo rivendere per comprare a
sua moglie un appartamento moderno di
quattro stanze: “È molto attenta alle nuove
tendenze, passa le sue giornata nelle bouti
que alla moda”. Per ora risparmia per gli
studi della sua unica figlia, ammessa
all’università di Nanchino: “Ogni sei mesi
verso il mio denaro su un conto in Cina.
Questo mi permette di non spendere trop
po qui”. Sul ponte del peschereccio illumi
nato dalla luna piena, Qiu si accende un’ul
tima sigaretta, e senza dire una parola torna
con passo titubante nella sua cabina. Il gior
no dopo il capitano Miao, 52 anni, è immer
so nella lettura delle sue email. Nella sua
cabina non ci sono bottiglie di whisky ma
un cesto di frutta, un binocolo, due compu
ter portatili, un calendario illustrato di pae
saggi idilliaci dello Yunnan e tre poster di
bellezze asiatiche più o meno succinte. Il
capitano vive qui tutto l’anno, e quando
esce chiude la porta con il lucchetto: “Mi
hanno già rubato un computer, e a Qiu han
no preso il cellulare mentre era andato a
pisciare”.
I due pescherecci Rahma sono stati con
cepiti per periodi di pesca d’altura e non per
abitarci. Gli spazi sono ristretti, il comfort
molto ridotto. La promiscuità quotidiana
aumenta le tensioni. Per evitare i problemi,
i marinai marocchini e gli ufficiali cinesi
fanno attenzione a non incrociarsi nei cor
ridoi. Il giovane equipaggio del pescherec
cio è andato a festeggiare il ramadan in fa
miglia. Le piccole cabine collettive sono
coperte da almeno una decina di mani di
vernice. Ci sono foto di rapper americani
insieme a scritte a pennarello, “fuck the
world” o “motherfucker”. Ma c’è anche un
passaggio della sura Al Alaq del Corano, do
ve si legge: “Hai visto colui che impedisce al
servo di eseguire l’orazione? (…) Non sa che,
invero, Allah vede? Stia in guardia: se non
smette, noi lo aferreremo per il ciufo. Il
ciufo mendace e peccaminoso!”. Miao si
arrabbia spesso con i suoi uomini perché
pregano cinque volte al giorno, prendono la
bussola per localizzare la Mecca e usano
l’acqua dolce per le abluzioni.
Sono passati sei anni dalla partenza di
Lao Pan, l’ex pescatore tornato nelle sue
terre, ma per i cinesi che l’hanno sostituito
la dolce vita marocchina è diventata una
sorta di miraggio. A volte Miao è demoraliz
zato, come questa sera dopo una riunione
decisamente animata: “I marinai minac
ciano di scioperare e di non occuparsi più
delle nostre barche, vogliono un capitano
locale. E i nostri soci marocchini fanno
pressione per non aumentare gli stipendi”,
spiega il capitano parlando con Jin, che do
vrà decidere cosa fare.
Miao fugge dalle chiacchiere e gli piace
andare a mangiare in un vecchio ristorante
spagnolo. Il problema è che non può soddi
sfare i piaceri della carne. Alcune donne li
tuane ofrono i loro favori in tristi discote
che sul mare, ma i tempi sono cambiati. La
clientela cinese non può più entrare. “I sud
coreani bevevano come spugne e amavano
le risse. Adesso sono andati via tutti, ma i
buttafuori ci confondono ancora con loro”.
Qiu scoppia a ridere: “Comunque ci si di
verte più ad Agadir che in Mauritania!”. Il
suo scalo preferito rimangono le Canarie:
“A Las Palmas ci sono spiagge dove sono
tutti nudi, è incredibile!”.
Jin e il suo ragazzo, Shen, vanno all’aero
porto per accogliere un professore universi
tario “molto rispettato in Cina”. Specialista
di risorse marine, lo scienziato conduce
delle ricerche che riguardano il futuro della
pesca cinese in Marocco. Il professore deve
determinare se la pesca della sardina, anco
ra abbondante in queste acque, possa sosti
tuire quella del polpo. “A quanto pare le
autorità marocchine ci chiedono di investi
re e di spendere molto denaro, ma ingono
di ignorare che noi qui abbiamo già le no
stre navi”. Se i marocchini accettassero di
condividere questa nuova ricchezza, allora
le aziende ittiche cinesi potrebbero manda
re altre navi.
Le nuove leve
Qingdao. Al liceo professionale marittimo
della città ci si prepara all’invio di nuove
lotte in giro per il mondo. “Gli studenti bra
vi sono indirizzati alla marina mercantile,
ma per i meno bravi la pesca d’altura rima
ne la soluzione migliore”, spiega Mu Feng,
il segretario del partito del liceo, orgoglioso
di presentare il suo prestigioso istituto. Nel
le aule, gli adolescenti in tuta da lavoro, da
vanti a marinai diventati insegnanti, ma
neggiano degli strumenti prima di riprodur
li disegnandoli sotto tutte le prospettive. Al
quinto piano di un dormitorio lì accanto,
altri si riposano e sognano. Figlio di conta
dini del Sichuan, Chang Zheng sogna, steso
sul suo letto, di vedere il mondo. Vuole di
ventare pescatore e gli piacerebbe molto
vedere “l’Olanda e i suoi mulini”. A 19 anni
segue un corso gratuito di quattro anni. Un
giorno sostituirà Lao, Qiu e Miao. u a
martedì 27 maggio 2014
990 - Contro le donne Rebecca Solnit, TomDispatch, Stati Uniti Foto di Gabriele Galimberti e Pietro Chelli In famiglia, a scuola, in strada, in caserma. Ogni giorno nel mondo le donne sono vittime di violenza. Nessuno ne parla. Ma è un problema di diritti umani e civili che riguarda tutti
egli Stati Uniti, dove uno
stupro è denunciato
ogni 6,2 minuti e una
donna su cinque è vittima di uno stupro o di un
tentato stupro nel corso
della vita, la terribile storia della ragazza
violentata e uccisa su un autobus di New
Delhi, il 16 dicembre 2012, è stata presentata come un fatto eccezionale. Eppure proprio in quei giorni si cominciava a parlare
del presunto stupro di un’adolescente priva
di sensi aggredita dai giocatori della squadra di football del liceo di Steubenville, in
Ohio. Dalle nostre parti gli stupri di gruppo
non sono rari. Qualche esempio: a novembre sono stati condannati alcuni dei venti
uomini che hanno stuprato una bambina di
11 anni a Cleveland, in Texas, mentre l’istigatore dello stupro di gruppo di una sedicenne a Richmond, in California, è stato
condannato a ottobre e quattro uomini che
avevano stuprato una ragazza di 15 anni vicino a New Orleans sono stati condannati
ad aprile. I sei che hanno stuprato una ragazza di 14 anni a Chicago nell’autunno del
2012, invece, sono ancora latitanti. Non ho
dovuto cercare queste notizie: sono su tutti
i mezzi d’informazione, anche se nessuno
pensa a collegarle e a spiegare che siamo di
fronte a uno schema ricorrente.
E invece la violenza contro le donne è
uno schema ricorrente ampio, radicato,
terribile e sistematicamente ignorato. A
volte, se il caso coinvolge una celebrità o
presenta qualche particolare scabroso, se
ne parla di più, ma come fosse un’anomalia, mentre la valanga di notizie di secondo
piano sulle donne vittime di violenza negli
Stati Uniti, in altri paesi, in tutti i continenti
compreso l’Antartide, formano una sorta di
rumore di sottofondo. Se gli stupri sugli autobus vi interessano più degli stupri di
gruppo, allora ci sono lo stupro di una disabile mentale su un autobus di Los Angeles
a novembre e il rapimento di una ragazza di
16 anni autistica su un treno regionale a
Oakland, in California (è successo quest’inverno, e il rapitore l’ha stuprata per due
giorni di seguito) e uno stupro di gruppo
con diverse vittime su un autobus a Città
del Messico il 19 dicembre. Mentre scrive
vo questo articolo ho letto che un’altra donna era stata rapita su un autobus in India e
stuprata tutta la notte dal conducente e da
cinque suoi amici, ai quali i fatti di Delhi
dovevano essere sembrati una gran igata.
In questo paese e su questa terra gli stupri e le violenze contro le donne non si contano, eppure quasi nessuno ne parla come
di una questione di diritti civili o umani, o
come di una crisi, o anche solo di uno schema ricorrente. La violenza non ha razza,
classe, religione né nazionalità, ma ha un
genere.
Chiariamo subito una cosa: anche se gli
autori di questi crimini sono quasi tutti uomini, non vuol dire che tutti gli uomini siano violenti. La maggior parte non lo è. E
anche gli uomini, naturalmente, subiscono
violenze, spesso per mano di altri uomini, e
qualunque morte violenta, qualunque aggressione è orribile. Ma l’argomento che
voglio trattare ora è l’epidemia di violenze
maschili contro le donne commesse da
persone molto vicine e da estranei.
Tutto tranne il genere
Potrei andare avanti all’infinito. Parlare
dell’aggressione e dello stupro di una donna di 73 anni a Central park, a Manhattan,
sei mesi fa, o del recente stupro di una bambina di quattro anni e di una signora di 83
anni in Louisiana, o del poliziotto di New
York arrestato a ottobre del 2012 perché sospettato di voler rapire, stuprare, cuocere e
mangiare una donna, qualunque donna
(non nutriva un odio personale, a diferenza probabilmente dell’uomo di San Diego
che ha ucciso e cotto sua moglie a novembre e del tizio di New Orleans che ha ucciso, smembrato e cotto la sua ragazza nel
2005).
Questi crimini sono fuori del comune,
ma potremmo parlare delle aggressioni
quotidiane, perché anche se negli Stati
Uniti viene denunciato solo uno stupro
ogni 6,2 minuti, il numero reale probabilmente è cinque volte superiore. Vuol dire
che negli Stati Uniti potrebbe esserci quasi
uno stupro al minuto. Stiamo parlando di
decine di milioni di vittime.
Potremmo parlare degli stupri nei licei,
nei college e nelle università, nei confronti
dei quali le autorità mostrano spesso un’agghiacciante apatia, com’è successo nel liceo di Steubenville, alla Notre Dame university, all’Amherst college e in tanti altri
casi. Potremmo parlare dell’esplosione di
stupri, aggressioni e molestie sessuali
nell’esercito statunitense: secondo il segretario alla difesa Leon Panetta ci sarebbero
state 19mila aggressioni sessuali contro
soldate nel solo 2010, e la stragrande maggioranza degli aggressori l’ha fatta franca.
Ma lasciamo perdere le violenze sul
luogo di lavoro, spostiamoci nelle case.
Ogni anno più di mille uomini uccidono le
loro compagne ed ex compagne, il che signiica che ogni tre anni il numero delle
vittime supera quello delle vittime dell’11
settembre, eppure nessuno dichiara guerra
a questo tipo di terrorismo. Per dirla altrimenti: le 11.766 donne vittime di omicidi
domestici dall’11 settembre a oggi sono più
delle vittime dell’11 settembre e di tutti i
soldati statunitensi uccisi durante la “guerra al terrorismo” messi insieme. Se parlassimo di questi reati e del perché sono tanto
frequenti, dovremmo parlare anche dei
profondi cambiamenti necessari in questa
società, in questo paese, in quasi tutti i paesi. Dovremmo parlare di mascolinità, di
ruoli maschili, forse di patriarcato, e sono
cose di cui non parliamo.
Invece sentiamo dire che negli Stati
Uniti gli uomini commettono omicidi-suicidi (circa dodici alla settimana) per colpa
della crisi economica, ma poi li commettono anche quando l’economia è in crescita.
O che in India quegli uomini hanno ucciso
la ragazza sull’autobus perché i poveri ce
l’hanno con i ricchi, ma sempre in India altri casi di stupro sono legati al fatto che i
ricchi sfruttano i poveri. E poi ci sono le
spiegazioni classiche: disturbi mentali, sostanze stupefacenti e, per gli atleti, i traumi
cranici. L’ultima trovata è l’avvelenamento
da piombo, che avrebbe causato gran parte
di queste violenze, solo che entrambi i sessi
sono avvelenati e uno dei due commette la
maggior parte delle violenze. Per spiegare
l’epidemia di violenza si tira in ballo tutto
tranne il genere, tutto tranne quello che
sembra il più ampio schema di spiegazione.
Quando un professore della Washington state university ha scritto che negli Stati Uniti le stragi le commettono soprattutto
uomini bianchi, i commentatori, in gran
parte ostili, si sono sofermati sulla parola
“bianchi”. È raro sentir dire quello che una
ricerca medica, per quanto aridamente, ha
evidenziato: “Diversi studi indicano che il
fatto di essere un uomo è un fattore di rischio di comportamenti criminali violenti
proprio come l’essere esposti al fumo di sigaretta prima della nascita, avere dei genitori antisociali e appartenere a una famiglia
povera”.
Lo schema ricorrente salta agli occhi.
Potremmo deinirlo un problema globale,
se consideriamo l’epidemia di aggressioni,
molestie e stupri a piazza Tahrir, che ha tolto alle donne la libertà celebrata durante la
primavera araba, o della persecuzione delle donne indiane nella sfera privata e pubblica (dal cosiddetto eve teasing– le aggressioni sessuali – all’immolazione delle vedove), o dei “delitti d’onore” nell’Asia meridionale e in Medio Oriente, o di come il
Sudafrica sia diventato una capitale mondiale dello stupro, con una stima di 600mila stupri nel 2012, o di come lo stupro sia
stato usato come tattica e “arma” di guerra
in Mali, in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo, come era già successo
nell’ex Jugoslavia, o della frequenza degli
stupri e delle molestie in Messico e del femminicidio a Ciudad Juárez, o della negazione dei diritti fondamentali delle donne in
Arabia Saudita e della miriade di aggressioni sessuali di cui sono vittime le lavoratrici
domestiche immigrate in quel paese, o di
come la reazione al caso Dominique
Strauss-Kahn negli Stati Uniti abbia svelato
l’impunità riservata a lui e ad altri in Francia, ed è solo per mancanza di spazio che
non parlerò del Regno Unito, del Canada,
dell’Italia (con quell’ex presidente del consiglio noto per le sue orge con delle minorenni), dell’Argentina, dell’Australia e di
tanti altri paesi.
Il diritto di ucciderti
Ma forse siete stanchi delle statistiche,
quindi parliamo di un fatto preciso, avvenuto nella mia città il 7 gennaio 2013, uno
dei tanti fatti di questo tipo segnalati dai
mezzi d’informazione locali a gennaio:
“Una donna è stata pugnalata dopo aver
respinto le avance di un uomo mentre camminava nel quartiere Tenderloin di San Francisco nella tarda serata di lunedì, ha
dichiarato oggi un portavoce della polizia.
La vittima, 33 anni, stava camminando per
strada quando un estraneo l’ha avvicinata,
ha spiegato l’uiciale di polizia Albie Esparza. Quando la donna l’ha respinto, l’uomo
si è alterato, ha colpito la donna al viso e
l’ha pugnalata al braccio”.
Per quell’uomo, la vittima prescelta non
aveva diritti né libertà, mentre lui aveva il
diritto di controllarla e di punirla. E questo
ci ricorda che la violenza è innanzitutto autoritaria. Comincia dalla premessa: io ho il
diritto di controllare la tua vita.
L’omicidio è la forma estrema dell’auto
Gli stupri
di piazza Tahrir
I
l 25 gennaio 2013, al centro del
Cairo, una donna è stata aggredita e ferita ai genitali con
un coltello nel bel mezzo di
quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione rivoluzionaria.
Secondo le informazioni raccolte
dall’organizzazione Operazione antistupro, è stata una delle 19 donne aggredite sessualmente nella piazza e
nelle strade circostanti. Alcune di lorsono state spogliate e violentate in pubblico con le mani, altre minacciate con i
coltelli. Sei di loro sono state portate in
ospedale. E senza dubbio ci sono stati altri episodi dei quali non è giunta notizia.
Nel novembre del 2011 una coraggiosa
vittima di un’aggressione simile ha pubblicato la sua storia sul sito del gruppo
femminista Nazra: “Ricordo solo che
c’erano centinaia di mani che mi spogliavano e violavano brutalmente il mio corpo. Non c’era via d’uscita, perché tutti dicevano che mi avrebbero protetta e salvata, ma intorno a me sentivo solo quelle
mani che mi toccavano, quelle dita che
mi stupravano, davanti e dietro, qualcuno
ha cercato perino di baciarmi. Ero completamente nuda, sono stata spinta dalla
folla che mi circondava in un vicolo vicino al ristorante Hardee. Mi si stringevano
intorno. Ogni volta che cercavo di strillare, di difendermi, di chiedere aiuto, la loro violenza aumentava”.
La sera del 25 gennaio, stavo passando
per la piazza, nella zona dove di solito
montano il palco, cominciava a fare buio
e ho assistito a un altro episodio simile. A
una trentina di metri di distanza si era
formato un mulinello di persone, con una
donna sulla quarantina, chiaramente
egiziana, al centro. Cerchi concentrici di
uomini le giravano intorno e lei urlava.
Ho cercato di avvicinarmi facendomi
strada tra la folla.
Alla ine quelli che la circondavano
l’hanno spinta verso le sbarre. Lei continuava a strillare. Ero ormai a pochi metri
di distanza quando l’ho persa di vista, era
stata gettata a terra. Quando è ricomparsa era nuda e le si leggeva il terrore sul
volto. Ho provato ad avvicinarmi, ma non
si riusciva a capire chi la stesse attaccando e chi cercasse di aiutarla. Molti sostenevano di volerlo fare ma poi partecipavano all’aggressione.
Ho individuato un ragazzo che senza
dubbio era tra gli aggressori, l’ho preso
per una spalla e l’ho tirato via. Si è girato
verso di me, mi aspettavo un pugno, o almeno un ghigno. Invece mi ha sorriso. A
un certo punto, il corpo nudo della donna
è stato piegato in avanti sulle sbarre che
dividono i marciapiedi della piazza dalla
strada.
L’ho persa nuovamente di vista, ho
pensato che fosse stata trascinata al di là
delle sbarre e ho cercato di andare dall’altra parte. Non so se mi ero sbagliato, o come e perché fosse tornata indietro, ma
quando l’ho rivista era sull’asfalto, inalmente difesa da due o tre energumeni
che usavano le loro cinture come fruste.
Alla ine, un’ambulanza è riuscita a farsi
strada tra la folla e l’ha caricata.
Mentre mi allontanavo, qualcuno mi
ha chiesto cos’era successo. “Uno stupro,
molto violento”. E ogni volta, c’era qualcuno che interveniva e negava quello che
era accaduto a pochi metri da lì.ritarismo, quella in cui qualcuno si arroga il
diritto di decidere se vivrai o morirai, il
massimo controllo che una persona possa
esercitare sull’altra. Ed è così anche quando l’altra “obbedisce”, perché il desiderio
di controllo nasce da una rabbia che l’obbedienza non può placare. Dietro questo
comportamento possono esserci paure e
senso di fragilità, ma rimane un arrogarsi il
diritto di infliggere sofferenza e perfino
morte all’altra persona. È una disgrazia per
gli autori e per le vittime.
Tornando al caso di cronaca nella mia
città, fatti simili succedono spessissimo. A
me è capitato varie volte quando ero più
giovane, a volte nella variante “minacce di
morte”, spesso nella variante “fiumi di
oscenità”: un uomo abborda una donna
mosso dal desiderio e al tempo stesso rabbiosamente pronto a essere respinto. La
rabbia e il desiderio sono inseparabili, formano un intreccio che minaccia sempre di
trasformare l’eros in thanatos, l’amore in
morte, a volte in senso letterale.
È un sistema di controllo. Per questo
tante vittime di omicidi domestici sono
donne che hanno osato lasciare il loro partner. Per questo tante donne sono in trappola, e anche se l’aggressore del 7 gennaio, o
l’autore di un violento tentativo di stupro
nel mio quartiere il 5 gennaio, o l’autore di
un altro stupro da queste parti il 12 gennaio,
o l’uomo di San Francisco che il 6 gennaio
ha dato fuoco alla sua ragazza perché aveva
riiutato di fare la lavatrice, o l’uomo che è
appena stato condannato a 370 anni di carcere per alcuni stupri particolarmente brutali commessi nel 2011, anche se tutti questi
uomini potrebbero essere deiniti dei marginali, le stesse cose le fanno gli uomini
ricchi, famosi e privilegiati.
A settembre il viceconsole giapponese a
San Francisco è stato incriminato con dodici capi di accusa per violenze coniugali e
aggressione con un’arma letale, e lo stesso
mese, nella stessa città, l’ex compagna di
Mason Mayer (fratello dell’amministratrice delegata di Yahoo, Marissa Mayer) testimoniava in tribunale: “Mi ha strappato gli
orecchini e le ciglia e mi ha sputato in faccia, dicendomi quanto ero spregevole. Ero
a terra, in posizione fetale, e quando provavo a muovermi mi stringeva più forte i ianchi con le ginocchia e mi schiafeggiava”.
Secondo il San Francisco Gate, “Mayer le
ha sbattuto ripetutamente la testa sul pavimento, strappandole ciocche di capelli e
dicendole che non sarebbe uscita viva
dall’appartamento a meno che lui non
l’avesse portata sul Golden gate bridge ‘dove ti potrai buttare o ti butterò giù io’”. Mason Mayer ha ottenuto la condizionale.
L’estate scorsa un uomo ha violato il divieto di avvicinamento alla moglie che lo
aveva lasciato, sparando a lei e ad altre sei
donne nel centro benessere in cui lavoravano, nella periferia di Milwaukee, ma dato
che c’erano solo quattro cadaveri, in un anno pieno di stragi spettacolari, la cosa non
ha colpito i mezzi d’informazione (e ancora
non abbiamo parlato del fatto che, delle
sessantadue sparatorie di massa registrate
negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti, solo
una è stata opera di una donna, e visto che
ci siamo quasi due terzi di tutte le donne
vittime di armi da fuoco sono uccise dai loro partner o ex partner).
“What’s love got to do with it”, si chiedeva Tina Turner, il cui ex marito Ike una
volta disse: “Sì, la picchiavo, ma non più di
quanto un uomo normalmente picchi la
moglie”. Una donna è picchiata ogni nove
secondi negli Stati Uniti. Avete letto bene:
non ogni nove minuti, ogni nove secondi. È
la prima causa di ferite tra le donne americane. Secondo il Center for desease control, dei due milioni di donne ferite ogni
anno, mezzo milione ha bisogno di cure
mediche e circa 145mila passano una notte
in ospedale, e vi risparmio i particolari sui
successivi interventi odontoiatrici. Negli
Stati Uniti i mariti sono anche la causa principale di morte tra le donne incinte.
“In tutto il mondo le donne tra i quindici
e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere uccise o menomate dalla
violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici
messi insieme”, scrive Nicholas D. Kristof,
una delle poche irme note ad afrontare
spesso l’argomento.
Lo stupro e altri atti di violenza (finoall’omicidio), così come le minacce di violenza, sono il fuoco di sbarramento che alcuni uomini aprono nel loro tentativo di
controllare alcune donne, e la paura di questa violenza limita molte donne in modi di
cui non si rendono più conto, e di cui non
parla quasi nessuno. Esistono delle eccezioni: nell’estate del 2012 qualcuno mi ha
raccontato di un corso in cui gli studenti di
un college dovevano spiegare come si proteggevano dai rischi di stupro. Le ragazz avevano descritto i mille modi in cui cercavano di essere vigili, riducevano i loro contatti con il mondo, prendevano precauzioni
e, di fatto, pensavano di continuo allo stupro. I ragazzi avevano ascoltato con la bocca spalancata. Per un attimo l’abisso tra i
loro mondi era diventato visibile.
Di solito, però, non se ne parla. A un certo punto in rete ha girato un elenco, “Dieci
consigli per mettere ine agli stupri”, il classico messaggio che le ragazze ricevono
spesso, ma con un approccio inedito. Uno
dei consigli era: “Porta un ischietto! Se temi di aggredire qualcuno ‘per sbaglio’, potrai darlo alla persona con cui ti trovi e lei
chiamerà aiuto”. Per quanto divertente,
l’elenco mette in luce un dato terribile: questo tipo di raccomandazioni in genere carica tutto il peso della prevenzione sulle spalle delle potenziali vittime, dando per scontata la violenza. Qualcuno mi spiega perché
i college passano più tempo a dire alle ragazze come sopravvivere alle aggressioni
che a dire all’altra metà dei loro studenti di
non aggredire le donne?
Ormai le minacce di violenza sessuale
sono frequenti anche online. Alla ine del
2011 l’opinionista britannica Laurie Penny
scriveva: “A quanto pare, un’opinione è la
minigonna di internet. Averne una e mostrarla è un po’ come chiedere a una massa
amorfa e quasi interamente maschile iche modo vorrebbe stuprarti, ucciderti e
pisciarti addosso. Questa settimana, dopo
una lunga serie di minacce particolarmente pesanti, ho deciso di rendere pubblici
alcuni di quei messaggi su Twitter, e sono
stata subissata di risposte. Molti non riuscivano a credere che ricevessi messaggi così
pieni di odio, e molti altri hanno cominciato a raccontarmi le loro storie di molestie,
intimidazioni e abusi” (Internazionale 927,
8 dicembre 2011).
Nelle comunità di giochi online le donne vengono molestate, minacciate ed
escluse. Anita Sarkeesian, una critica femminista canadese che ha documentato
questo fenomeno, ha ricevuto molta solidarietà ma anche, come spiegava una giornalista, “una nuova ondata di minacce
personali e davvero violente. C’è chi ha
provato a piratare i suoi account e un tizio
dell’Ontario ha addirittura creato un gioco
online in cui l’utente può prendere a pugni
l’immagine di Anita. E dopo qualche pugno
si vedono apparire lividi e ferite”. Tra questi giocatori e i taliban che, nell’ottobre del
2012, hanno tentato di uccidere Malala
Yousafzai, 14 anni, colpevole di aver difeso
il diritto all’istruzione delle donne pachistane, esiste solo una diferenza di grado.
In entrambi i casi degli uomini vogliono
zittire e punire delle donne che chiedono
libertà di espressione, potere e diritto di
partecipazione. Benvenuti in Maschistan.
I diritti degli stupratori
Il fenomeno non è solo pubblico, privato o
online. È radicato nel nostro sistema politico e nel nostro ordinamento giuridico che,
prima delle battaglie femministe, praticamente non riconosceva il reato di violenza
domestica, né tanto meno le molestie sessuali, lo stalking, lo stupro commesso da
un uomo con cui si aveva appuntamento,
da un conoscente o dal marito, e che in alcuni casi ancora mette sotto processo la
vittima invece dell’aggressore, come se solo le educande potessero essere aggredite o
credute.
Come abbiamo scoperto durante la
campagna elettorale del 2012, è anche radicato nella mente e nella bocca dei politici
statunitensi. Ricorderete il iume di assurdità sparate da alcuni repubblicani tra
l’estate e l’autunno dell’anno scorso, co minciando dalla celebre afermazione di
Todd Akin secondo cui una donna sa come
non rimanere incinta durante uno stupro.
All’inizio del 2013, i repubblicani del congresso hanno rifiutato di reintrodurre la
legge sulla violenza contro le donne perché
erano contrari alle tutele che ofriva all donne immigrate, transgender e native
americane. A proposito di epidemie: una
donna nativa americana su tre subisce uno
stupro o un tentativo di stupro nel corso
della vita, e nelle riserve l’88 per cento di
questi stupri è commesso da uomini non
nativi che sanno di poter sfuggire alle incriminazioni dei tribunali tribali.
I repubblicani vogliono anche spazzar via i diritti riproduttivi, dal controllo della
nascita all’aborto, come hanno già fatto in
vari stati negli ultimi dieci anni. Ovviamente per “diritti riproduttivi” s’intende il diritto delle donne di disporre del proprio corpo. Come abbiamo già detto, la violenza
contro le donne è una questione di controllo.
E se da un lato le indagini sui casi di stupro brillano per la loro lentezza, dall’altro
gli stupratori che mettono incinta una donna possono esercitare la potestà genitoriale
in trentuno stati.
Naturalmente anche le donne sono capaci di cattiverie di ogni tipo e possono
commettere crimini violenti, ma se parliamo di violenza nella cosiddetta guerra dei
sessi lo squilibrio è plateale. A diferenza
del precedente direttore (uomo) del Fondo
monetario internazionale, l’attuale direttore (donna) non aggredirà un’impiegata di
un albergo di lusso; nell’esercito statunitense le uiciali di alto grado, a diferenza
dei colleghi uomini, non sono accusate di
aggressioni sessuali; ed è diicile immaginare delle giovani atlete che, come hanno
fatto i giocatori di football di Steunbenville,
urinano su dei ragazzi privi di conoscenza,
e ancor meno che li violentano e se ne vantano su YouTube e Twitter.
Non mi risulta che in India delle donne
si siano riunite per aggredire sessualmente un uomo su un autobus ino a farlo morire,
o che in Egitto branchi di donne terrorizzino gli uomini a piazza Tahrir, o che esista
un equivalente materno dell’11 per cento di
stupri commessi da padri e patrigni. Il 93,5
per cento dei detenuti nelle carceri statunitensi non sono donne, e se molti di loro non
dovrebbero stare dietro le sbarre, è giusto
che i violenti ci stiano, almeno ino a quando non avremo trovato un modo migliore
di gestire la violenza, e quindi loro stessi.
Nessuna pop star donna ha sparato alla
testa di un ragazzo dopo averlo portato a
casa sua, come ha fatto il produttore discograico Phil Spector (oggi fa parte di quel
93,5 per cento per l’omicidio di Lana Clarkson, che a quanto pare aveva riiutato le
sue avance). Nessuna protagonista di ilm
d’azione è stata accusata di violenze domestiche, perché Angelina Jolie non fa quello
che hanno fatto Mel Gibson e Steve McQueen, e nessuna regista famosa ha drogato un tredicenne prima di aggredirlo sessualmente nonostante lui dicesse “no”,
come ha fatto Roman Polanski.
In memoria di Jhoti Singh
Cos’è che non va nella specie maschile? C’è
qualcosa, nel modo in cui la mascolinità è
immaginata, esaltata e incoraggiata, nel
modo in cui la violenza è trasmessa ai maschi, che dobbiamo deciderci ad afrontare.
In giro ci sono uomini splendidi e afettuosi, e uno dei dati più incoraggianti, in questa fase della guerra contro le donne, è che
tantissimi uomini sono consapevoli, pensano che la cosa riguardi anche loro, si
schierano per noi e con noi nella vita di tutti i giorni, online e nei cortei da New Delhi
a San Francisco.
Gli uomini sono sempre più nostri alleati, e anche in passato abbiamo potuto contare su alcuni di loro. Bontà e gentilezza
non hanno mai avuto un genere, e nemmeno l’empatia. I dati sulle violenze domestiche sono in calo rispetto ai decenni passati
(pur rimanendo spaventosamente alti), e
molti uomini sono impegnati a creare nuove idee e nuovi ideali legati alla mascolinità
e al potere.
Gli omosessuali sono miei alleati da
quasi quarant’anni (a quanto pare il matrimonio gay fa orrore ai conservatori perché
è un matrimonio tra pari senza ruoli prestabiliti). Il movimento di liberazione delle
donne è stato spesso presentato come un
tentativo di ledere o di sottrarre potere e
privilegi agli uomini, come se in un lugubre
gioco a somma zero solo un genere alla volta potesse avere libertà e potere. Non è così:
siamo liberi insieme o schiavi insieme.
Preferirei scrivere su altri argomenti,
ma questo incide su tutto il resto. La vita di
metà dell’umanità è ancora segnata, distrutta e a volte annientata da questa onnipresente forma di violenza. Pensate a
quanto tempo e a quanta energia potremmo dedicare ad altre cose importanti se
non fossimo così impegnate a sopravvivere. Vi faccio un esempio: una delle migliori
giornaliste che io conosca vive nel mio
quartiere e la sera ha paura di tornare a casa
da sola. Deve smettere di lavorare ino a
tardi? Quante donne hanno rinunciato al
loro lavoro, o sono state costrette da altri a
rinunciare, per motivi simili?
Oggi uno dei movimenti politici più entusiasmanti del mondo è il movimento per
i diritti dei nativi canadesi Idle no more, di
orientamento femminista e ambientalista.
Il 27 dicembre 2012, poco dopo il suo lancio, una donna nativa è stata rapita, stuprata e picchiata a Thunder bay, nell’Ontario.
I suoi aggressori, che l’hanno abbandonata
credendola morta, hanno lasciato intendere che la loro era una ritorsione contro Idle
no more. La donna ha camminato per quattro ore, sopravvivendo al gelo, e ha potuto
raccontare la sua storia. I suoi aggressori,
che hanno minacciato di rifarlo, sono ancora latitanti.
Lo stupro e l’omicidio a New Delhi di
Jhoti Singh, la ragazza ventitreenne che
studiava isioterapia per poter andare avanti nella vita e aiutare gli altri, e l’aggressione
del suo ragazzo (che è sopravvissuto), sembrano aver scatenato la reazione che aspettavamo da cento, forse mille, forse cinquemila anni. Che Jhoti possa essere per le
donne – e gli uomini – quello che Emmett
Till, assassinato dai suprematisti bianchi
nel 1955, è stato per gli afroamericani e per
l’allora giovane movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti vengono commessi oltre 87mila stupri all’anno, eppure ognuno è
presentato come un caso isolato. I punti sono così ravvicinati da formare una macchia,
ma nessuno li collega o indica la macchia.
In India l’hanno fatto. Hanno detto che
questo è un problema di diritti civili e di diritti umani, un problema che riguarda tutti,
un problema che non è isolato e che non
sarà mai più considerato accettabile. Le cose devono cambiare. Sta a voi cambiarle, a
me, a noi. u fs
L’AUTRICE
Rebecca Solnitè una scrittrice
statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato
in Italia è Un paradiso
stupro è denunciato
ogni 6,2 minuti e una
donna su cinque è vittima di uno stupro o di un
tentato stupro nel corso
della vita, la terribile storia della ragazza
violentata e uccisa su un autobus di New
Delhi, il 16 dicembre 2012, è stata presentata come un fatto eccezionale. Eppure proprio in quei giorni si cominciava a parlare
del presunto stupro di un’adolescente priva
di sensi aggredita dai giocatori della squadra di football del liceo di Steubenville, in
Ohio. Dalle nostre parti gli stupri di gruppo
non sono rari. Qualche esempio: a novembre sono stati condannati alcuni dei venti
uomini che hanno stuprato una bambina di
11 anni a Cleveland, in Texas, mentre l’istigatore dello stupro di gruppo di una sedicenne a Richmond, in California, è stato
condannato a ottobre e quattro uomini che
avevano stuprato una ragazza di 15 anni vicino a New Orleans sono stati condannati
ad aprile. I sei che hanno stuprato una ragazza di 14 anni a Chicago nell’autunno del
2012, invece, sono ancora latitanti. Non ho
dovuto cercare queste notizie: sono su tutti
i mezzi d’informazione, anche se nessuno
pensa a collegarle e a spiegare che siamo di
fronte a uno schema ricorrente.
E invece la violenza contro le donne è
uno schema ricorrente ampio, radicato,
terribile e sistematicamente ignorato. A
volte, se il caso coinvolge una celebrità o
presenta qualche particolare scabroso, se
ne parla di più, ma come fosse un’anomalia, mentre la valanga di notizie di secondo
piano sulle donne vittime di violenza negli
Stati Uniti, in altri paesi, in tutti i continenti
compreso l’Antartide, formano una sorta di
rumore di sottofondo. Se gli stupri sugli autobus vi interessano più degli stupri di
gruppo, allora ci sono lo stupro di una disabile mentale su un autobus di Los Angeles
a novembre e il rapimento di una ragazza di
16 anni autistica su un treno regionale a
Oakland, in California (è successo quest’inverno, e il rapitore l’ha stuprata per due
giorni di seguito) e uno stupro di gruppo
con diverse vittime su un autobus a Città
del Messico il 19 dicembre. Mentre scrive
vo questo articolo ho letto che un’altra donna era stata rapita su un autobus in India e
stuprata tutta la notte dal conducente e da
cinque suoi amici, ai quali i fatti di Delhi
dovevano essere sembrati una gran igata.
In questo paese e su questa terra gli stupri e le violenze contro le donne non si contano, eppure quasi nessuno ne parla come
di una questione di diritti civili o umani, o
come di una crisi, o anche solo di uno schema ricorrente. La violenza non ha razza,
classe, religione né nazionalità, ma ha un
genere.
Chiariamo subito una cosa: anche se gli
autori di questi crimini sono quasi tutti uomini, non vuol dire che tutti gli uomini siano violenti. La maggior parte non lo è. E
anche gli uomini, naturalmente, subiscono
violenze, spesso per mano di altri uomini, e
qualunque morte violenta, qualunque aggressione è orribile. Ma l’argomento che
voglio trattare ora è l’epidemia di violenze
maschili contro le donne commesse da
persone molto vicine e da estranei.
Tutto tranne il genere
Potrei andare avanti all’infinito. Parlare
dell’aggressione e dello stupro di una donna di 73 anni a Central park, a Manhattan,
sei mesi fa, o del recente stupro di una bambina di quattro anni e di una signora di 83
anni in Louisiana, o del poliziotto di New
York arrestato a ottobre del 2012 perché sospettato di voler rapire, stuprare, cuocere e
mangiare una donna, qualunque donna
(non nutriva un odio personale, a diferenza probabilmente dell’uomo di San Diego
che ha ucciso e cotto sua moglie a novembre e del tizio di New Orleans che ha ucciso, smembrato e cotto la sua ragazza nel
2005).
Questi crimini sono fuori del comune,
ma potremmo parlare delle aggressioni
quotidiane, perché anche se negli Stati
Uniti viene denunciato solo uno stupro
ogni 6,2 minuti, il numero reale probabilmente è cinque volte superiore. Vuol dire
che negli Stati Uniti potrebbe esserci quasi
uno stupro al minuto. Stiamo parlando di
decine di milioni di vittime.
Potremmo parlare degli stupri nei licei,
nei college e nelle università, nei confronti
dei quali le autorità mostrano spesso un’agghiacciante apatia, com’è successo nel liceo di Steubenville, alla Notre Dame university, all’Amherst college e in tanti altri
casi. Potremmo parlare dell’esplosione di
stupri, aggressioni e molestie sessuali
nell’esercito statunitense: secondo il segretario alla difesa Leon Panetta ci sarebbero
state 19mila aggressioni sessuali contro
soldate nel solo 2010, e la stragrande maggioranza degli aggressori l’ha fatta franca.
Ma lasciamo perdere le violenze sul
luogo di lavoro, spostiamoci nelle case.
Ogni anno più di mille uomini uccidono le
loro compagne ed ex compagne, il che signiica che ogni tre anni il numero delle
vittime supera quello delle vittime dell’11
settembre, eppure nessuno dichiara guerra
a questo tipo di terrorismo. Per dirla altrimenti: le 11.766 donne vittime di omicidi
domestici dall’11 settembre a oggi sono più
delle vittime dell’11 settembre e di tutti i
soldati statunitensi uccisi durante la “guerra al terrorismo” messi insieme. Se parlassimo di questi reati e del perché sono tanto
frequenti, dovremmo parlare anche dei
profondi cambiamenti necessari in questa
società, in questo paese, in quasi tutti i paesi. Dovremmo parlare di mascolinità, di
ruoli maschili, forse di patriarcato, e sono
cose di cui non parliamo.
Invece sentiamo dire che negli Stati
Uniti gli uomini commettono omicidi-suicidi (circa dodici alla settimana) per colpa
della crisi economica, ma poi li commettono anche quando l’economia è in crescita.
O che in India quegli uomini hanno ucciso
la ragazza sull’autobus perché i poveri ce
l’hanno con i ricchi, ma sempre in India altri casi di stupro sono legati al fatto che i
ricchi sfruttano i poveri. E poi ci sono le
spiegazioni classiche: disturbi mentali, sostanze stupefacenti e, per gli atleti, i traumi
cranici. L’ultima trovata è l’avvelenamento
da piombo, che avrebbe causato gran parte
di queste violenze, solo che entrambi i sessi
sono avvelenati e uno dei due commette la
maggior parte delle violenze. Per spiegare
l’epidemia di violenza si tira in ballo tutto
tranne il genere, tutto tranne quello che
sembra il più ampio schema di spiegazione.
Quando un professore della Washington state university ha scritto che negli Stati Uniti le stragi le commettono soprattutto
uomini bianchi, i commentatori, in gran
parte ostili, si sono sofermati sulla parola
“bianchi”. È raro sentir dire quello che una
ricerca medica, per quanto aridamente, ha
evidenziato: “Diversi studi indicano che il
fatto di essere un uomo è un fattore di rischio di comportamenti criminali violenti
proprio come l’essere esposti al fumo di sigaretta prima della nascita, avere dei genitori antisociali e appartenere a una famiglia
povera”.
Lo schema ricorrente salta agli occhi.
Potremmo deinirlo un problema globale,
se consideriamo l’epidemia di aggressioni,
molestie e stupri a piazza Tahrir, che ha tolto alle donne la libertà celebrata durante la
primavera araba, o della persecuzione delle donne indiane nella sfera privata e pubblica (dal cosiddetto eve teasing– le aggressioni sessuali – all’immolazione delle vedove), o dei “delitti d’onore” nell’Asia meridionale e in Medio Oriente, o di come il
Sudafrica sia diventato una capitale mondiale dello stupro, con una stima di 600mila stupri nel 2012, o di come lo stupro sia
stato usato come tattica e “arma” di guerra
in Mali, in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo, come era già successo
nell’ex Jugoslavia, o della frequenza degli
stupri e delle molestie in Messico e del femminicidio a Ciudad Juárez, o della negazione dei diritti fondamentali delle donne in
Arabia Saudita e della miriade di aggressioni sessuali di cui sono vittime le lavoratrici
domestiche immigrate in quel paese, o di
come la reazione al caso Dominique
Strauss-Kahn negli Stati Uniti abbia svelato
l’impunità riservata a lui e ad altri in Francia, ed è solo per mancanza di spazio che
non parlerò del Regno Unito, del Canada,
dell’Italia (con quell’ex presidente del consiglio noto per le sue orge con delle minorenni), dell’Argentina, dell’Australia e di
tanti altri paesi.
Il diritto di ucciderti
Ma forse siete stanchi delle statistiche,
quindi parliamo di un fatto preciso, avvenuto nella mia città il 7 gennaio 2013, uno
dei tanti fatti di questo tipo segnalati dai
mezzi d’informazione locali a gennaio:
“Una donna è stata pugnalata dopo aver
respinto le avance di un uomo mentre camminava nel quartiere Tenderloin di San Francisco nella tarda serata di lunedì, ha
dichiarato oggi un portavoce della polizia.
La vittima, 33 anni, stava camminando per
strada quando un estraneo l’ha avvicinata,
ha spiegato l’uiciale di polizia Albie Esparza. Quando la donna l’ha respinto, l’uomo
si è alterato, ha colpito la donna al viso e
l’ha pugnalata al braccio”.
Per quell’uomo, la vittima prescelta non
aveva diritti né libertà, mentre lui aveva il
diritto di controllarla e di punirla. E questo
ci ricorda che la violenza è innanzitutto autoritaria. Comincia dalla premessa: io ho il
diritto di controllare la tua vita.
L’omicidio è la forma estrema dell’auto
Gli stupri
di piazza Tahrir
I
l 25 gennaio 2013, al centro del
Cairo, una donna è stata aggredita e ferita ai genitali con
un coltello nel bel mezzo di
quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione rivoluzionaria.
Secondo le informazioni raccolte
dall’organizzazione Operazione antistupro, è stata una delle 19 donne aggredite sessualmente nella piazza e
nelle strade circostanti. Alcune di lorsono state spogliate e violentate in pubblico con le mani, altre minacciate con i
coltelli. Sei di loro sono state portate in
ospedale. E senza dubbio ci sono stati altri episodi dei quali non è giunta notizia.
Nel novembre del 2011 una coraggiosa
vittima di un’aggressione simile ha pubblicato la sua storia sul sito del gruppo
femminista Nazra: “Ricordo solo che
c’erano centinaia di mani che mi spogliavano e violavano brutalmente il mio corpo. Non c’era via d’uscita, perché tutti dicevano che mi avrebbero protetta e salvata, ma intorno a me sentivo solo quelle
mani che mi toccavano, quelle dita che
mi stupravano, davanti e dietro, qualcuno
ha cercato perino di baciarmi. Ero completamente nuda, sono stata spinta dalla
folla che mi circondava in un vicolo vicino al ristorante Hardee. Mi si stringevano
intorno. Ogni volta che cercavo di strillare, di difendermi, di chiedere aiuto, la loro violenza aumentava”.
La sera del 25 gennaio, stavo passando
per la piazza, nella zona dove di solito
montano il palco, cominciava a fare buio
e ho assistito a un altro episodio simile. A
una trentina di metri di distanza si era
formato un mulinello di persone, con una
donna sulla quarantina, chiaramente
egiziana, al centro. Cerchi concentrici di
uomini le giravano intorno e lei urlava.
Ho cercato di avvicinarmi facendomi
strada tra la folla.
Alla ine quelli che la circondavano
l’hanno spinta verso le sbarre. Lei continuava a strillare. Ero ormai a pochi metri
di distanza quando l’ho persa di vista, era
stata gettata a terra. Quando è ricomparsa era nuda e le si leggeva il terrore sul
volto. Ho provato ad avvicinarmi, ma non
si riusciva a capire chi la stesse attaccando e chi cercasse di aiutarla. Molti sostenevano di volerlo fare ma poi partecipavano all’aggressione.
Ho individuato un ragazzo che senza
dubbio era tra gli aggressori, l’ho preso
per una spalla e l’ho tirato via. Si è girato
verso di me, mi aspettavo un pugno, o almeno un ghigno. Invece mi ha sorriso. A
un certo punto, il corpo nudo della donna
è stato piegato in avanti sulle sbarre che
dividono i marciapiedi della piazza dalla
strada.
L’ho persa nuovamente di vista, ho
pensato che fosse stata trascinata al di là
delle sbarre e ho cercato di andare dall’altra parte. Non so se mi ero sbagliato, o come e perché fosse tornata indietro, ma
quando l’ho rivista era sull’asfalto, inalmente difesa da due o tre energumeni
che usavano le loro cinture come fruste.
Alla ine, un’ambulanza è riuscita a farsi
strada tra la folla e l’ha caricata.
Mentre mi allontanavo, qualcuno mi
ha chiesto cos’era successo. “Uno stupro,
molto violento”. E ogni volta, c’era qualcuno che interveniva e negava quello che
era accaduto a pochi metri da lì.ritarismo, quella in cui qualcuno si arroga il
diritto di decidere se vivrai o morirai, il
massimo controllo che una persona possa
esercitare sull’altra. Ed è così anche quando l’altra “obbedisce”, perché il desiderio
di controllo nasce da una rabbia che l’obbedienza non può placare. Dietro questo
comportamento possono esserci paure e
senso di fragilità, ma rimane un arrogarsi il
diritto di infliggere sofferenza e perfino
morte all’altra persona. È una disgrazia per
gli autori e per le vittime.
Tornando al caso di cronaca nella mia
città, fatti simili succedono spessissimo. A
me è capitato varie volte quando ero più
giovane, a volte nella variante “minacce di
morte”, spesso nella variante “fiumi di
oscenità”: un uomo abborda una donna
mosso dal desiderio e al tempo stesso rabbiosamente pronto a essere respinto. La
rabbia e il desiderio sono inseparabili, formano un intreccio che minaccia sempre di
trasformare l’eros in thanatos, l’amore in
morte, a volte in senso letterale.
È un sistema di controllo. Per questo
tante vittime di omicidi domestici sono
donne che hanno osato lasciare il loro partner. Per questo tante donne sono in trappola, e anche se l’aggressore del 7 gennaio, o
l’autore di un violento tentativo di stupro
nel mio quartiere il 5 gennaio, o l’autore di
un altro stupro da queste parti il 12 gennaio,
o l’uomo di San Francisco che il 6 gennaio
ha dato fuoco alla sua ragazza perché aveva
riiutato di fare la lavatrice, o l’uomo che è
appena stato condannato a 370 anni di carcere per alcuni stupri particolarmente brutali commessi nel 2011, anche se tutti questi
uomini potrebbero essere deiniti dei marginali, le stesse cose le fanno gli uomini
ricchi, famosi e privilegiati.
A settembre il viceconsole giapponese a
San Francisco è stato incriminato con dodici capi di accusa per violenze coniugali e
aggressione con un’arma letale, e lo stesso
mese, nella stessa città, l’ex compagna di
Mason Mayer (fratello dell’amministratrice delegata di Yahoo, Marissa Mayer) testimoniava in tribunale: “Mi ha strappato gli
orecchini e le ciglia e mi ha sputato in faccia, dicendomi quanto ero spregevole. Ero
a terra, in posizione fetale, e quando provavo a muovermi mi stringeva più forte i ianchi con le ginocchia e mi schiafeggiava”.
Secondo il San Francisco Gate, “Mayer le
ha sbattuto ripetutamente la testa sul pavimento, strappandole ciocche di capelli e
dicendole che non sarebbe uscita viva
dall’appartamento a meno che lui non
l’avesse portata sul Golden gate bridge ‘dove ti potrai buttare o ti butterò giù io’”. Mason Mayer ha ottenuto la condizionale.
L’estate scorsa un uomo ha violato il divieto di avvicinamento alla moglie che lo
aveva lasciato, sparando a lei e ad altre sei
donne nel centro benessere in cui lavoravano, nella periferia di Milwaukee, ma dato
che c’erano solo quattro cadaveri, in un anno pieno di stragi spettacolari, la cosa non
ha colpito i mezzi d’informazione (e ancora
non abbiamo parlato del fatto che, delle
sessantadue sparatorie di massa registrate
negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti, solo
una è stata opera di una donna, e visto che
ci siamo quasi due terzi di tutte le donne
vittime di armi da fuoco sono uccise dai loro partner o ex partner).
“What’s love got to do with it”, si chiedeva Tina Turner, il cui ex marito Ike una
volta disse: “Sì, la picchiavo, ma non più di
quanto un uomo normalmente picchi la
moglie”. Una donna è picchiata ogni nove
secondi negli Stati Uniti. Avete letto bene:
non ogni nove minuti, ogni nove secondi. È
la prima causa di ferite tra le donne americane. Secondo il Center for desease control, dei due milioni di donne ferite ogni
anno, mezzo milione ha bisogno di cure
mediche e circa 145mila passano una notte
in ospedale, e vi risparmio i particolari sui
successivi interventi odontoiatrici. Negli
Stati Uniti i mariti sono anche la causa principale di morte tra le donne incinte.
“In tutto il mondo le donne tra i quindici
e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere uccise o menomate dalla
violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici
messi insieme”, scrive Nicholas D. Kristof,
una delle poche irme note ad afrontare
spesso l’argomento.
Lo stupro e altri atti di violenza (finoall’omicidio), così come le minacce di violenza, sono il fuoco di sbarramento che alcuni uomini aprono nel loro tentativo di
controllare alcune donne, e la paura di questa violenza limita molte donne in modi di
cui non si rendono più conto, e di cui non
parla quasi nessuno. Esistono delle eccezioni: nell’estate del 2012 qualcuno mi ha
raccontato di un corso in cui gli studenti di
un college dovevano spiegare come si proteggevano dai rischi di stupro. Le ragazz avevano descritto i mille modi in cui cercavano di essere vigili, riducevano i loro contatti con il mondo, prendevano precauzioni
e, di fatto, pensavano di continuo allo stupro. I ragazzi avevano ascoltato con la bocca spalancata. Per un attimo l’abisso tra i
loro mondi era diventato visibile.
Di solito, però, non se ne parla. A un certo punto in rete ha girato un elenco, “Dieci
consigli per mettere ine agli stupri”, il classico messaggio che le ragazze ricevono
spesso, ma con un approccio inedito. Uno
dei consigli era: “Porta un ischietto! Se temi di aggredire qualcuno ‘per sbaglio’, potrai darlo alla persona con cui ti trovi e lei
chiamerà aiuto”. Per quanto divertente,
l’elenco mette in luce un dato terribile: questo tipo di raccomandazioni in genere carica tutto il peso della prevenzione sulle spalle delle potenziali vittime, dando per scontata la violenza. Qualcuno mi spiega perché
i college passano più tempo a dire alle ragazze come sopravvivere alle aggressioni
che a dire all’altra metà dei loro studenti di
non aggredire le donne?
Ormai le minacce di violenza sessuale
sono frequenti anche online. Alla ine del
2011 l’opinionista britannica Laurie Penny
scriveva: “A quanto pare, un’opinione è la
minigonna di internet. Averne una e mostrarla è un po’ come chiedere a una massa
amorfa e quasi interamente maschile iche modo vorrebbe stuprarti, ucciderti e
pisciarti addosso. Questa settimana, dopo
una lunga serie di minacce particolarmente pesanti, ho deciso di rendere pubblici
alcuni di quei messaggi su Twitter, e sono
stata subissata di risposte. Molti non riuscivano a credere che ricevessi messaggi così
pieni di odio, e molti altri hanno cominciato a raccontarmi le loro storie di molestie,
intimidazioni e abusi” (Internazionale 927,
8 dicembre 2011).
Nelle comunità di giochi online le donne vengono molestate, minacciate ed
escluse. Anita Sarkeesian, una critica femminista canadese che ha documentato
questo fenomeno, ha ricevuto molta solidarietà ma anche, come spiegava una giornalista, “una nuova ondata di minacce
personali e davvero violente. C’è chi ha
provato a piratare i suoi account e un tizio
dell’Ontario ha addirittura creato un gioco
online in cui l’utente può prendere a pugni
l’immagine di Anita. E dopo qualche pugno
si vedono apparire lividi e ferite”. Tra questi giocatori e i taliban che, nell’ottobre del
2012, hanno tentato di uccidere Malala
Yousafzai, 14 anni, colpevole di aver difeso
il diritto all’istruzione delle donne pachistane, esiste solo una diferenza di grado.
In entrambi i casi degli uomini vogliono
zittire e punire delle donne che chiedono
libertà di espressione, potere e diritto di
partecipazione. Benvenuti in Maschistan.
I diritti degli stupratori
Il fenomeno non è solo pubblico, privato o
online. È radicato nel nostro sistema politico e nel nostro ordinamento giuridico che,
prima delle battaglie femministe, praticamente non riconosceva il reato di violenza
domestica, né tanto meno le molestie sessuali, lo stalking, lo stupro commesso da
un uomo con cui si aveva appuntamento,
da un conoscente o dal marito, e che in alcuni casi ancora mette sotto processo la
vittima invece dell’aggressore, come se solo le educande potessero essere aggredite o
credute.
Come abbiamo scoperto durante la
campagna elettorale del 2012, è anche radicato nella mente e nella bocca dei politici
statunitensi. Ricorderete il iume di assurdità sparate da alcuni repubblicani tra
l’estate e l’autunno dell’anno scorso, co minciando dalla celebre afermazione di
Todd Akin secondo cui una donna sa come
non rimanere incinta durante uno stupro.
All’inizio del 2013, i repubblicani del congresso hanno rifiutato di reintrodurre la
legge sulla violenza contro le donne perché
erano contrari alle tutele che ofriva all donne immigrate, transgender e native
americane. A proposito di epidemie: una
donna nativa americana su tre subisce uno
stupro o un tentativo di stupro nel corso
della vita, e nelle riserve l’88 per cento di
questi stupri è commesso da uomini non
nativi che sanno di poter sfuggire alle incriminazioni dei tribunali tribali.
I repubblicani vogliono anche spazzar via i diritti riproduttivi, dal controllo della
nascita all’aborto, come hanno già fatto in
vari stati negli ultimi dieci anni. Ovviamente per “diritti riproduttivi” s’intende il diritto delle donne di disporre del proprio corpo. Come abbiamo già detto, la violenza
contro le donne è una questione di controllo.
E se da un lato le indagini sui casi di stupro brillano per la loro lentezza, dall’altro
gli stupratori che mettono incinta una donna possono esercitare la potestà genitoriale
in trentuno stati.
Naturalmente anche le donne sono capaci di cattiverie di ogni tipo e possono
commettere crimini violenti, ma se parliamo di violenza nella cosiddetta guerra dei
sessi lo squilibrio è plateale. A diferenza
del precedente direttore (uomo) del Fondo
monetario internazionale, l’attuale direttore (donna) non aggredirà un’impiegata di
un albergo di lusso; nell’esercito statunitense le uiciali di alto grado, a diferenza
dei colleghi uomini, non sono accusate di
aggressioni sessuali; ed è diicile immaginare delle giovani atlete che, come hanno
fatto i giocatori di football di Steunbenville,
urinano su dei ragazzi privi di conoscenza,
e ancor meno che li violentano e se ne vantano su YouTube e Twitter.
Non mi risulta che in India delle donne
si siano riunite per aggredire sessualmente un uomo su un autobus ino a farlo morire,
o che in Egitto branchi di donne terrorizzino gli uomini a piazza Tahrir, o che esista
un equivalente materno dell’11 per cento di
stupri commessi da padri e patrigni. Il 93,5
per cento dei detenuti nelle carceri statunitensi non sono donne, e se molti di loro non
dovrebbero stare dietro le sbarre, è giusto
che i violenti ci stiano, almeno ino a quando non avremo trovato un modo migliore
di gestire la violenza, e quindi loro stessi.
Nessuna pop star donna ha sparato alla
testa di un ragazzo dopo averlo portato a
casa sua, come ha fatto il produttore discograico Phil Spector (oggi fa parte di quel
93,5 per cento per l’omicidio di Lana Clarkson, che a quanto pare aveva riiutato le
sue avance). Nessuna protagonista di ilm
d’azione è stata accusata di violenze domestiche, perché Angelina Jolie non fa quello
che hanno fatto Mel Gibson e Steve McQueen, e nessuna regista famosa ha drogato un tredicenne prima di aggredirlo sessualmente nonostante lui dicesse “no”,
come ha fatto Roman Polanski.
In memoria di Jhoti Singh
Cos’è che non va nella specie maschile? C’è
qualcosa, nel modo in cui la mascolinità è
immaginata, esaltata e incoraggiata, nel
modo in cui la violenza è trasmessa ai maschi, che dobbiamo deciderci ad afrontare.
In giro ci sono uomini splendidi e afettuosi, e uno dei dati più incoraggianti, in questa fase della guerra contro le donne, è che
tantissimi uomini sono consapevoli, pensano che la cosa riguardi anche loro, si
schierano per noi e con noi nella vita di tutti i giorni, online e nei cortei da New Delhi
a San Francisco.
Gli uomini sono sempre più nostri alleati, e anche in passato abbiamo potuto contare su alcuni di loro. Bontà e gentilezza
non hanno mai avuto un genere, e nemmeno l’empatia. I dati sulle violenze domestiche sono in calo rispetto ai decenni passati
(pur rimanendo spaventosamente alti), e
molti uomini sono impegnati a creare nuove idee e nuovi ideali legati alla mascolinità
e al potere.
Gli omosessuali sono miei alleati da
quasi quarant’anni (a quanto pare il matrimonio gay fa orrore ai conservatori perché
è un matrimonio tra pari senza ruoli prestabiliti). Il movimento di liberazione delle
donne è stato spesso presentato come un
tentativo di ledere o di sottrarre potere e
privilegi agli uomini, come se in un lugubre
gioco a somma zero solo un genere alla volta potesse avere libertà e potere. Non è così:
siamo liberi insieme o schiavi insieme.
Preferirei scrivere su altri argomenti,
ma questo incide su tutto il resto. La vita di
metà dell’umanità è ancora segnata, distrutta e a volte annientata da questa onnipresente forma di violenza. Pensate a
quanto tempo e a quanta energia potremmo dedicare ad altre cose importanti se
non fossimo così impegnate a sopravvivere. Vi faccio un esempio: una delle migliori
giornaliste che io conosca vive nel mio
quartiere e la sera ha paura di tornare a casa
da sola. Deve smettere di lavorare ino a
tardi? Quante donne hanno rinunciato al
loro lavoro, o sono state costrette da altri a
rinunciare, per motivi simili?
Oggi uno dei movimenti politici più entusiasmanti del mondo è il movimento per
i diritti dei nativi canadesi Idle no more, di
orientamento femminista e ambientalista.
Il 27 dicembre 2012, poco dopo il suo lancio, una donna nativa è stata rapita, stuprata e picchiata a Thunder bay, nell’Ontario.
I suoi aggressori, che l’hanno abbandonata
credendola morta, hanno lasciato intendere che la loro era una ritorsione contro Idle
no more. La donna ha camminato per quattro ore, sopravvivendo al gelo, e ha potuto
raccontare la sua storia. I suoi aggressori,
che hanno minacciato di rifarlo, sono ancora latitanti.
Lo stupro e l’omicidio a New Delhi di
Jhoti Singh, la ragazza ventitreenne che
studiava isioterapia per poter andare avanti nella vita e aiutare gli altri, e l’aggressione
del suo ragazzo (che è sopravvissuto), sembrano aver scatenato la reazione che aspettavamo da cento, forse mille, forse cinquemila anni. Che Jhoti possa essere per le
donne – e gli uomini – quello che Emmett
Till, assassinato dai suprematisti bianchi
nel 1955, è stato per gli afroamericani e per
l’allora giovane movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti vengono commessi oltre 87mila stupri all’anno, eppure ognuno è
presentato come un caso isolato. I punti sono così ravvicinati da formare una macchia,
ma nessuno li collega o indica la macchia.
In India l’hanno fatto. Hanno detto che
questo è un problema di diritti civili e di diritti umani, un problema che riguarda tutti,
un problema che non è isolato e che non
sarà mai più considerato accettabile. Le cose devono cambiare. Sta a voi cambiarle, a
me, a noi. u fs
L’AUTRICE
Rebecca Solnitè una scrittrice
statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato
in Italia è Un paradiso
990 - Addio a Chávez Jon Lee Anderson, The New Yorker, Stati Uniti
Il 5 marzo è morto il presidente del Venezuela
Hugo Chávez, un leader carismatico e populista.
Ora il paese dovrà fare i conti con un vuoto
enorme e una rivoluzione lasciata a metà
I
l presidente venezuelano Hugo
Chávez Frías, morto di cancro il 5
marzo 2013 all’età di 58 anni, è
stato uno dei leader internazionali più provocatori degli ultimi
tempi. Per mesi le sue condizioni
di salute sono state un mistero nazionale,
circondate da voci e segretezza. Chávez ha
passato il giorno in cui avrebbe dovuto assumere la presidenza, il 10 gennaio 2013, in
un letto d’ospedale a Cuba. Il vicepresidente Nicolás Maduro, che ha annunciato la
morte del leader bolivariano, è uno dei politici che punta a controllare il Venezuela.
Tra un mese ci saranno nuove elezioni.
Chávez, un paracadutista che aveva
passato due anni in prigione dopo aver guidato nel 1992 un colpo di stato militare fallito contro il governo venezuelano, dopo
l’amnistia tornò sulla scena politica con
una rinnovata determinazione a ottenere il
potere. E per farlo cercò il sostegno del leader comunista cubano, Fidel Castro. Nel
1998 Chávez vinse le elezioni presidenziali promettendo un cambiamento radicale.
Una volta diventato presidente, nel gennaio del 1999, tutti i suoi sforzi sono andati in
questa direzione.
Lascia un Venezuela che, per alcuni
versi, non sarà più lo stesso e che per altri è
lo stesso di sempre: uno dei paesi più ricchi
di petrolio del mondo, pieno di disuguaglianze sociali, con moltissimi cittadini che
vivono in alcune delle baraccopoli più violente dell’America Latina.
A suo favore, va detto che Chávez si è
impegnato per cambiare la vita dei poveri,
che sono stati i suoi sostenitori più fedeli.
Cominciò progettando una nuova costituzione e ribattezzando il paese. Simón Bolívar, che lottò per unire tutta l’America
Latina sotto il suo comando, era il suo eroe.
Per questo Chávez decise di cambiare il
nome del paese in Repubblica bolivariana
del Venezuela e poi investì tempo e risorse
per lanciare quella che chiamava “la rivoluzione bolivariana”. All’inizio non doveva
essere una rivoluzione socialista né per
forza antistatunitense, ma poi il governo di
Chávez e il suo ruolo internazionale hanno
preso quest’impronta, almeno nelle intenzioni.
Ho incontrato Chávez varie volte nel
corso degli anni. La prima volta è stato nel
1999, poco dopo che era stato eletto presidente del Venezuela. Si trovava a Cuba per
tenere una conferenza all’università
dell’Avana. Tra il pubblico c’erano i due
fratelli Castro (una presenza eccezionale)
e altri alti membri del politburo cubano.
Fidel Castro guardò e ascoltò rapito Chávez
per i novanta minuti del suo discorso, in cui
il presidente venezuelano gettò le basi retoriche per l’intensa e profonda relazione
tra i due paesi e i due leader. Quel giorno
diversi analisti politici presenti in sala parlarono di quella che sembrava una grande
storia d’amore tra Chávez e Castro. Avevano colto nel segno.
Chávez, quasi trent’anni più giovane di
Fidel, diventò un amico inseparabile del
leader cubano, che per lui rappresentava
una igura paterna e un modello da seguire
(la famiglia di Chávez era umile e veniva
dall’entroterra del paese). Per Castro,
Chávez era un erede e qualcosa di molto
simile a un iglio prediletto. Sembra incredibile (o forse era nella logica delle cose)
ma fu Fidel a notare qualcosa che non andava in Chávez durante una visita all’Avana nel 2011 e a insistere perché si facesse
visitare da un medico. Così il leader venezuelano scoprì di avere un tumore delle
dimensioni – così è stato descritto – di una
palla da baseball, in una zona non meglio
speciicata dell’inguine. Da allora e ino al
suo rientro in patria il 18 febbraio del 2013,
ormai da malato terminale, Chávez è stato
curato all’Avana sotto lo sguardo attento di
Fidel.
In ritardo
Chávez era uno showman afabile, che sapeva cogliere il momento giusto e ogni opportunità strategica. Le sue ambizioni e la
sua statura internazionale crebbero durante gli anni di George W. Bush, quando
l’America Latina era stata relegata in secondo piano da Washington. Dopo l’11 settembre 2001 Chávez prese le distanze
dall’amministrazione Bush e diventò sempre più critico nei confronti delle politiche
e degli atteggiamenti “dell’impero” statunitense. Chiuse gli uici militari statunitensi in Venezuela e mise ine alla cooperazione con la Drug enforcement administration. Poi si spinse oltre, ridicolizzando
il presidente degli Stati Uniti, che chiamava “Mr. Danger” e “asino” nel suo programma televisivo settimanale Aló presidente. A volte sembrava che per lui governare fosse come un reality televisivo (una
volta ordinò al suo ministro della difesa di
inviare l’esercito alla frontiera con la Co lombia in diretta su Aló presidente). Nel
2002 un tentativo di colpo di stato nato da
un complotto di politici di destra, uomini
d’afari e militari, fermò e umiliò Chávez
per un brevissimo periodo, prima che fosse
liberato e riassumesse di nuovo la presidenza.
Il colpo di stato contro Chávez fallì, ma
non prima di ricevere, così sembrò, una
strizzata d’occhi e un cenno di assenso da
parte dell’amministrazione Bush. Chávez
non perdonò mai gli statunitensi. Da quel
momento la sua retorica antiyankee diventò più pungente e, quando poteva, cercava
di mettere in difficoltà Washington. Nel
2000 Chávez andò a Baghdad per un incontro amichevole con Saddam Hussein.
Poi, nella sua dichiarata ambizione d’indebolire “l’impero” degli Stati Uniti e di creare un “mondo multipolare”, si avvicinò ad
altri leader ostili a Washington: l’iraniano
Mahmoud Ahmadinejad e il bielorusso
Alexander Lukashenko. Invitò Vladimir
Putin a mandare le sue navi a esercitarsi in
acque venezuelane e gli vendette delle armi. Era sempre più vicino a Fidel Castro e
dipendente dal legame con il leader cubano. Il petrolio venezuelano arrivava in una
Cuba priva di energia, mettendo di fatto
ine a quasi un decennio di penurie del “periodo speciale” seguito al crollo dell’Unione Sovietica e all’improvvisa ine dei in
ziamenti provenienti da Mosca. Medici
cubani, istruttori sportivi ed esperti di sicurezza venivano inviati in Venezuela, per
aiutare Chávez in alcuni programmi sociali – le cosiddette missioni – creati per ridurre la povertà e le malattie nelle baraccopoli
e nelle zone rurali del paese. Chávez e Castro viaggiavano insieme, spesso si facevano visita e a ognuno piaceva molto la compagnia dell’altro.
Nel 2005 – Chávez aveva annunciato
che il socialismo era la strada da seguire
per la sua rivoluzione e per il Venezuela –
l’ho incontrato al palazzo presidenziale.
Straripava di nuovo fervore rivoluzionario.
In una riunione con alcuni contadini poveri, il presidente annunciò che i grandi latifondi dell’interno del paese sarebbero stati
coniscati e consigliò con euforia di organizzarsi in gruppi per lavorare quelle terre.
“Ras!”, gridò diverse volte. “Ras!”. Un aiutante spiegò che la sigla stava per rumbo al
socialismo, verso il socialismo.
Ma i risultati sono stati scarsi. I tentativi
di collettivizzazione e di riforma agraria di
Chávez erano mal pianificati e fuori dal
tempo, proprio come il presidente stesso,
un personaggio riesumato da un passato in
cui l’America Latina era governata da caudilloscapricciosi e il mondo era diviso in
due grandi blocchi dalla guerra fredda.
Un paio d’anni dopo gli chiesi perché
avesse deciso di aderire al socialismo così
tardi. Lui ammise di esserci arrivato in ritardo, molto dopo che il resto del mondo lo
aveva abbandonato, ma disse che qualcosa
era scattato dentro di lui dopo aver letto il
romanzoI miserabili di Victor Hugo. Per
questo, e per Fidel.
un cuore grande
Spinto dai miliardi di dollari ottenuti con
l’aumento del prezzo del petrolio, negli ultimi anni Chávez guadagnò inluenza in
tutto l’emisfero, intessendo rapporti con
diversi governi emergenti di sinistra, che in
alcuni casi aiutò a sostenere e a creare: in
Bolivia, in Argentina, in Ecuador e in Nicaragua, guidato dal vecchio leader sandinista Daniel Ortega. Creò un blocco commerciale, chiamato Alba, per contrastare
l’egemonia economica statunitense nella
regione. E pronosticò un indebolimento
dell’inluenza di Washington e un’opportunità, in in dei conti, per far risorgere il
grande sogno di Bolívar. In un certo senso
Chávez aveva ragione. L’inluenza statunitense si è indebolita negli ultimi dieci anni
in America Latina. Però nella regione non
è stato il Venezuela, ma il Brasile a riempire
i vuoti. L’ex presidente brasiliano, Luiz
Inácio Lula da Silva, aveva fatto del “popolo” e della riduzione della povertà una priorità. Con una squadra migliore e senza lo
scontro frontale con l’impero, Lula ha ottenuto risultati enormi. In Venezuela, invece,
la rivoluzione di Chávez ha dovuto fare i
conti con amministratori mediocri e un’organizzazione ineiciente.
Cosa rimane dopo Chávez? Un grande
vuoto per milioni di venezuelani e altri latinoamericani, soprattutto poveri, che lo
consideravano un eroe e un protettore,
qualcuno che “si preoccupava” per loro come nessun altro leader dell’America Latina
aveva fatto nel recente passato. Si dispereranno perché non ci sarà un altro come lui,
nessuno con un cuore così grande e uno
spirito così radicale. Forse hanno ragione.
Ma è altrettanto vero che il chavismo non
ha ancora dato risultati.
Il successore designato di Chávez, Nicolás Maduro, cercherà di portare avanti la
rivoluzione, ma i problemi sociali ed economici del paese si stanno accumulando e
sembra probabile che, in un futuro non lontano, all’inquietudine per la perdita del
leader si aggiungerà quella per la rivoluzione lasciata a metà.
Nel 2006 Castro si è ammalato di diverticolite ed è stato sul punto di morire. Un
anno e mezzo dopo ha rinunciato alla presidenza e ha passato il testimone al fratello
minore Raúl. Ero sull’aereo di Chávez
quando andò a Cuba, nel 2008, per congratularsi con Raúl. All’Avana, Chávez si assentò per andare a trovare Fidel, che era
ancora malato e nascosto. Nel volo di ritorno informò tutti noi passeggeri a bordo che
“Fidel stava bene”. E aggiunse: “Fidel mi
ha chiesto di salutarvi tutti da parte sua”.
Cinque anni dopo i fratelli Castro, entrambi ottantenni, sono vivi e vegeti.
Chávez è uscito di scena. u f
Hugo Chávez, un leader carismatico e populista.
Ora il paese dovrà fare i conti con un vuoto
enorme e una rivoluzione lasciata a metà
I
l presidente venezuelano Hugo
Chávez Frías, morto di cancro il 5
marzo 2013 all’età di 58 anni, è
stato uno dei leader internazionali più provocatori degli ultimi
tempi. Per mesi le sue condizioni
di salute sono state un mistero nazionale,
circondate da voci e segretezza. Chávez ha
passato il giorno in cui avrebbe dovuto assumere la presidenza, il 10 gennaio 2013, in
un letto d’ospedale a Cuba. Il vicepresidente Nicolás Maduro, che ha annunciato la
morte del leader bolivariano, è uno dei politici che punta a controllare il Venezuela.
Tra un mese ci saranno nuove elezioni.
Chávez, un paracadutista che aveva
passato due anni in prigione dopo aver guidato nel 1992 un colpo di stato militare fallito contro il governo venezuelano, dopo
l’amnistia tornò sulla scena politica con
una rinnovata determinazione a ottenere il
potere. E per farlo cercò il sostegno del leader comunista cubano, Fidel Castro. Nel
1998 Chávez vinse le elezioni presidenziali promettendo un cambiamento radicale.
Una volta diventato presidente, nel gennaio del 1999, tutti i suoi sforzi sono andati in
questa direzione.
Lascia un Venezuela che, per alcuni
versi, non sarà più lo stesso e che per altri è
lo stesso di sempre: uno dei paesi più ricchi
di petrolio del mondo, pieno di disuguaglianze sociali, con moltissimi cittadini che
vivono in alcune delle baraccopoli più violente dell’America Latina.
A suo favore, va detto che Chávez si è
impegnato per cambiare la vita dei poveri,
che sono stati i suoi sostenitori più fedeli.
Cominciò progettando una nuova costituzione e ribattezzando il paese. Simón Bolívar, che lottò per unire tutta l’America
Latina sotto il suo comando, era il suo eroe.
Per questo Chávez decise di cambiare il
nome del paese in Repubblica bolivariana
del Venezuela e poi investì tempo e risorse
per lanciare quella che chiamava “la rivoluzione bolivariana”. All’inizio non doveva
essere una rivoluzione socialista né per
forza antistatunitense, ma poi il governo di
Chávez e il suo ruolo internazionale hanno
preso quest’impronta, almeno nelle intenzioni.
Ho incontrato Chávez varie volte nel
corso degli anni. La prima volta è stato nel
1999, poco dopo che era stato eletto presidente del Venezuela. Si trovava a Cuba per
tenere una conferenza all’università
dell’Avana. Tra il pubblico c’erano i due
fratelli Castro (una presenza eccezionale)
e altri alti membri del politburo cubano.
Fidel Castro guardò e ascoltò rapito Chávez
per i novanta minuti del suo discorso, in cui
il presidente venezuelano gettò le basi retoriche per l’intensa e profonda relazione
tra i due paesi e i due leader. Quel giorno
diversi analisti politici presenti in sala parlarono di quella che sembrava una grande
storia d’amore tra Chávez e Castro. Avevano colto nel segno.
Chávez, quasi trent’anni più giovane di
Fidel, diventò un amico inseparabile del
leader cubano, che per lui rappresentava
una igura paterna e un modello da seguire
(la famiglia di Chávez era umile e veniva
dall’entroterra del paese). Per Castro,
Chávez era un erede e qualcosa di molto
simile a un iglio prediletto. Sembra incredibile (o forse era nella logica delle cose)
ma fu Fidel a notare qualcosa che non andava in Chávez durante una visita all’Avana nel 2011 e a insistere perché si facesse
visitare da un medico. Così il leader venezuelano scoprì di avere un tumore delle
dimensioni – così è stato descritto – di una
palla da baseball, in una zona non meglio
speciicata dell’inguine. Da allora e ino al
suo rientro in patria il 18 febbraio del 2013,
ormai da malato terminale, Chávez è stato
curato all’Avana sotto lo sguardo attento di
Fidel.
In ritardo
Chávez era uno showman afabile, che sapeva cogliere il momento giusto e ogni opportunità strategica. Le sue ambizioni e la
sua statura internazionale crebbero durante gli anni di George W. Bush, quando
l’America Latina era stata relegata in secondo piano da Washington. Dopo l’11 settembre 2001 Chávez prese le distanze
dall’amministrazione Bush e diventò sempre più critico nei confronti delle politiche
e degli atteggiamenti “dell’impero” statunitense. Chiuse gli uici militari statunitensi in Venezuela e mise ine alla cooperazione con la Drug enforcement administration. Poi si spinse oltre, ridicolizzando
il presidente degli Stati Uniti, che chiamava “Mr. Danger” e “asino” nel suo programma televisivo settimanale Aló presidente. A volte sembrava che per lui governare fosse come un reality televisivo (una
volta ordinò al suo ministro della difesa di
inviare l’esercito alla frontiera con la Co lombia in diretta su Aló presidente). Nel
2002 un tentativo di colpo di stato nato da
un complotto di politici di destra, uomini
d’afari e militari, fermò e umiliò Chávez
per un brevissimo periodo, prima che fosse
liberato e riassumesse di nuovo la presidenza.
Il colpo di stato contro Chávez fallì, ma
non prima di ricevere, così sembrò, una
strizzata d’occhi e un cenno di assenso da
parte dell’amministrazione Bush. Chávez
non perdonò mai gli statunitensi. Da quel
momento la sua retorica antiyankee diventò più pungente e, quando poteva, cercava
di mettere in difficoltà Washington. Nel
2000 Chávez andò a Baghdad per un incontro amichevole con Saddam Hussein.
Poi, nella sua dichiarata ambizione d’indebolire “l’impero” degli Stati Uniti e di creare un “mondo multipolare”, si avvicinò ad
altri leader ostili a Washington: l’iraniano
Mahmoud Ahmadinejad e il bielorusso
Alexander Lukashenko. Invitò Vladimir
Putin a mandare le sue navi a esercitarsi in
acque venezuelane e gli vendette delle armi. Era sempre più vicino a Fidel Castro e
dipendente dal legame con il leader cubano. Il petrolio venezuelano arrivava in una
Cuba priva di energia, mettendo di fatto
ine a quasi un decennio di penurie del “periodo speciale” seguito al crollo dell’Unione Sovietica e all’improvvisa ine dei in
ziamenti provenienti da Mosca. Medici
cubani, istruttori sportivi ed esperti di sicurezza venivano inviati in Venezuela, per
aiutare Chávez in alcuni programmi sociali – le cosiddette missioni – creati per ridurre la povertà e le malattie nelle baraccopoli
e nelle zone rurali del paese. Chávez e Castro viaggiavano insieme, spesso si facevano visita e a ognuno piaceva molto la compagnia dell’altro.
Nel 2005 – Chávez aveva annunciato
che il socialismo era la strada da seguire
per la sua rivoluzione e per il Venezuela –
l’ho incontrato al palazzo presidenziale.
Straripava di nuovo fervore rivoluzionario.
In una riunione con alcuni contadini poveri, il presidente annunciò che i grandi latifondi dell’interno del paese sarebbero stati
coniscati e consigliò con euforia di organizzarsi in gruppi per lavorare quelle terre.
“Ras!”, gridò diverse volte. “Ras!”. Un aiutante spiegò che la sigla stava per rumbo al
socialismo, verso il socialismo.
Ma i risultati sono stati scarsi. I tentativi
di collettivizzazione e di riforma agraria di
Chávez erano mal pianificati e fuori dal
tempo, proprio come il presidente stesso,
un personaggio riesumato da un passato in
cui l’America Latina era governata da caudilloscapricciosi e il mondo era diviso in
due grandi blocchi dalla guerra fredda.
Un paio d’anni dopo gli chiesi perché
avesse deciso di aderire al socialismo così
tardi. Lui ammise di esserci arrivato in ritardo, molto dopo che il resto del mondo lo
aveva abbandonato, ma disse che qualcosa
era scattato dentro di lui dopo aver letto il
romanzoI miserabili di Victor Hugo. Per
questo, e per Fidel.
un cuore grande
Spinto dai miliardi di dollari ottenuti con
l’aumento del prezzo del petrolio, negli ultimi anni Chávez guadagnò inluenza in
tutto l’emisfero, intessendo rapporti con
diversi governi emergenti di sinistra, che in
alcuni casi aiutò a sostenere e a creare: in
Bolivia, in Argentina, in Ecuador e in Nicaragua, guidato dal vecchio leader sandinista Daniel Ortega. Creò un blocco commerciale, chiamato Alba, per contrastare
l’egemonia economica statunitense nella
regione. E pronosticò un indebolimento
dell’inluenza di Washington e un’opportunità, in in dei conti, per far risorgere il
grande sogno di Bolívar. In un certo senso
Chávez aveva ragione. L’inluenza statunitense si è indebolita negli ultimi dieci anni
in America Latina. Però nella regione non
è stato il Venezuela, ma il Brasile a riempire
i vuoti. L’ex presidente brasiliano, Luiz
Inácio Lula da Silva, aveva fatto del “popolo” e della riduzione della povertà una priorità. Con una squadra migliore e senza lo
scontro frontale con l’impero, Lula ha ottenuto risultati enormi. In Venezuela, invece,
la rivoluzione di Chávez ha dovuto fare i
conti con amministratori mediocri e un’organizzazione ineiciente.
Cosa rimane dopo Chávez? Un grande
vuoto per milioni di venezuelani e altri latinoamericani, soprattutto poveri, che lo
consideravano un eroe e un protettore,
qualcuno che “si preoccupava” per loro come nessun altro leader dell’America Latina
aveva fatto nel recente passato. Si dispereranno perché non ci sarà un altro come lui,
nessuno con un cuore così grande e uno
spirito così radicale. Forse hanno ragione.
Ma è altrettanto vero che il chavismo non
ha ancora dato risultati.
Il successore designato di Chávez, Nicolás Maduro, cercherà di portare avanti la
rivoluzione, ma i problemi sociali ed economici del paese si stanno accumulando e
sembra probabile che, in un futuro non lontano, all’inquietudine per la perdita del
leader si aggiungerà quella per la rivoluzione lasciata a metà.
Nel 2006 Castro si è ammalato di diverticolite ed è stato sul punto di morire. Un
anno e mezzo dopo ha rinunciato alla presidenza e ha passato il testimone al fratello
minore Raúl. Ero sull’aereo di Chávez
quando andò a Cuba, nel 2008, per congratularsi con Raúl. All’Avana, Chávez si assentò per andare a trovare Fidel, che era
ancora malato e nascosto. Nel volo di ritorno informò tutti noi passeggeri a bordo che
“Fidel stava bene”. E aggiunse: “Fidel mi
ha chiesto di salutarvi tutti da parte sua”.
Cinque anni dopo i fratelli Castro, entrambi ottantenni, sono vivi e vegeti.
Chávez è uscito di scena. u f
mercoledì 7 maggio 2014
988 - Makoto Fukue Maestro di sushi Secondo la tradizione ci vogliono dieci anni per diventare uno chef di sushi. Con la sua accademia di Tokyo ha dimostrato che bastano pochi mesi Saiji Ugajin, Business Nikkei, Giappone
I
n una strada secondaria vicino a
un grattacielo nel quartiere di
Shinjuku, a Tokyo, c’è la Tokyo
sushi academy. È una scuola professionale per aspiranti chef di
sushi, fondata e diretta da Makoto
Fukue. Al primo piano ci sono le aule per le
esercitazioni, dove ogni giorno si tengono
lezioni di edomaezushi(il tipo più difuso di
sushi, nato a Edo, l’antica Tokyo).
“Quando tutti gli ingredienti sono pronti, cominciate a prendere il riso”, ordina il
maestro. Un gruppetto di quindici persone
comincia a maneggiare il riso sincronicamente. Ogni studente appoggia le polpette
di riso sul vassoio da sushi che ha di fronte,
ma il modo in cui muovono le mani è impacciato, aferrano il riso troppo lentamente e le polpette sono irregolari.
Questa classe ha cominciato le lezioni
in ottobre ed è formata da adolescenti e
quarantenni, neodiplomati e impiegati da
poco in pensione: molti di loro non solo non
hanno mai lavorato in un ristorante, ma addirittura non hanno mai preso in mano un
coltello da cucina.
A questo corso per diventare chef di sushi oggi sono iscritte 32 persone. Il pro gramma prevede tre lezioni al giorno tre
volte alla settimana per un anno intero.
Ogni lezione dura un’ora e quaranta minuti, e la prima comincia alle 8.30 del mattino.
Si impara come maneggiare il tonno, la seriola, lo sgombro o il salmone, come lavorare il riso e preparare ricette per fare i makimono(rotoli di riso ripieni avvolti nelle alghe). Inoltre ci sono lezioni di scienze della
nutrizione e lezioni per conoscere le caratteristiche degli ingredienti, oltre che approfondimenti sulla cucina e sui distillati giapponesi.
La cottura perfetta
Si dice che ci vogliano tre anni per imparare
a cuocere il riso e otto per imparare a lavorarlo, e che prima di poter lavorare come
chef di sushi in modo autonomo servano
più di dieci anni di tirocinio. All’accademia
del sushi, invece, il principale vantaggio è
di poter imparare le tecniche e i modi per
lavorare il riso in un anno, se non addirittura in soli due mesi. Fukue non mette completamente in discussione la lunga e severa
gavetta che si fa nei ristoranti di sushi. Ma
ritiene che aidandosi solo al vecchio sistema sarà sempre più difficile diffondere
quest’arte tra i giovani. Per questo ha penMakoto
Fukue
Maestro
di sushi
Secondo la tradizione
ci vogliono dieci anni per
diventare uno chef di sushi.
Con la sua accademia
di Tokyo ha dimostrato che
bastano pochi mesi
Saiji Ugajin, Business Nikkei, Giappone
Ritratti
sato di creare un programma per diventare
professionisti in poco tempo.
La scuola è aperta ormai da dieci anni.
Nonostante un corso annuale costi circa 1,5
milioni di yen (dodicimila euro), e uno di
due mesi circa 830mila yen (6.600 euro), il
programma riscuote grande successo visto
che il numero degli iscritti per ogni corso
supera il numero di posti a disposizione.
Sta crescendo anche la presenza di stranieri che arrivano dal Perù, dalla Cina, dalla
Spagna o dalla Croazia per iscriversi. Ci
sono anche molti giapponesi che vogliono andare a lavorare all’estero. Tra i 1.883 diplomati all’accademia ino a oggi, 96 sono
stranieri e 500 sono i giapponesi che adesso lavorano in ristoranti all’estero (da dove
arrivano ogni anno più di cento oferte di
lavoro). In altre parole, l’Accademia sta diventando un punto di riferimento per
l’esportazione di chef di sushi dal Giappone. Ma la strada che Fukue ha percorso ino
a qui non è stata facile.
Nato nel 1967, Fukue è cresciuto nella
prefettura di Toyama, nel Giappone centrale, e ha frequentato l’università di Kanaz wa. I suoi amici aspiravano a diventare funzionari pubblici o banchieri, ma Fukue era
diverso. Fin da piccolo aveva osservato il
lavoro del padre, un artigiano che dipingeva tessuti tradizionali Kaga Yūzen. È stato
in quel periodo che ha cominciato a pensare come un giorno avrebbe sfruttato ciò che
aveva imparato. All’inizio aveva pensato di
fare il consulente amministrativo e, una
volta laureato, è andato a lavorare alla Tkc,
una grossa azienda di sistemi contabili. Dopo cinque anni passati a girare tra negozi e
piccole fabbriche locali, gli è venuta un’altra idea. Più che un semplice amministratore, voleva diventare uno specialista in grado di ascoltare le perplessità dei vari consulenti e riuscire a dargli i consigli più adatti.
E così, nel 1995, ha ottenuto un lavoro
nel centro di ricerca di un’azienda di consulenza amministrativa di Meguro, a Tokyo.
Era una ditta di piccole dimensioni, con appena qualche decina di dipendenti, che
concentrava la sua attività sulla messa a
punto di sistemi di controllo aziendale.
Grazie a queste informazioni i consulenti
formulavano soluzioni specifiche con le
quali aiutavano le piccole e medie imprese.
Questo lavoro coincideva con le aspirazioni
di Fukue, afascinato dal fatto di poter imparare le strategie di gestione di un’impresa, un prerequisito per lavorare in modo
autonomo.
Da quel momento la vita di Fukue è
cambiata. Il responsabile del laboratorio di
ricerca in cui lavorava, Eikō Watanabe, era
il consulente per alcuni ristoranti di sushi a
Machida. All’epoca Watanabe si occupava
di una trentina di locali e aveva anche organizzato un seminario sulla gestione aziendale dei ristoranti di sushi e di altre specialità tradizionali, facendosi un nome
nell’ambiente. Due anni dopo l’arrivo di
Fukue, Watanabe decise di cedergli il suo
posto: “Fukue, sei una persona sempre sorridente e onesta. Sei bravo a capire le esigenze dei ristoratori, diicili da accontentare, e piaci a molti di loro”. Leggendo
l’enorme quantità di appunti che gli avev lasciato, Fukue è rimasto sorpreso dallo
sforzo costante di Watanabe di mettersi nei
panni dell’interlocutore e della sua grande
capacità di capire i problemi di chi gli stava
di fronte.
Fukue ha accettato la responsabilità
senza esitazione, ma non sono mancati i
momenti di perplessità. Sapeva che i ristoranti di sushi sono soprattutto imprese a livello familiare e che i proprietari in cerca di
consulenti sono pochi. Si chiedeva se sarebbe stato possibile vivere solo grazie a
questo mercato. La sua fortuna è stata quella di trovarsi a lavorare in un momento storico favorevole. Nel 1997, infatti, il Giappone risentiva delle conseguenze dell’esplosione della bolla economica e cresceva il
numero di ristoranti in cerca di aiuto per la
gestione. Molti avevano perso clienti, pur
senza aver alzato i prezzi. All’epoca si chiudeva un occhio anche se i ristoranti non
esponevano il menù e non avevano una
contabilità del tutto trasparente.
La svolta
In un periodo di depressione economica i
consumatori non mettono mano al portafoglio facilmente e cambiano le loro abitudini. Inoltre in quel periodo sono spuntati i
sushi bar: catene di locali a basso prezzo e
di qualità accettabile che aprivano nelle periferie delle città. I proprietari dei ristoranti
tradizionali, convinti all’inizio che queste
nuove attività non avessero niente a che
fare con le loro, cominciarono a considerarli una minaccia. “Di questo passo gli afari
andranno sempre peggio, deve darmi assolutamente qualche consiglio”, gli chiedevano i clienti. Fukue era ormai deciso a diventare uno specialista del settore del sushi e
ha cominciato a frequentare l’ambiente e a
studiarlo. Cercava i ristoranti più rinomati
e ne visitava due o tre al giorno, arrivando a
vederne da cinquecento a mille ogni anno.
Nei locali dove i proprietari si ostinavano a non esporre il menù, i clienti erano pochi. Fukue ci entrava e cominciava a chiacchierare con il proprietario sull’andamento
degli afari. In questo modo è riuscito a raccogliere una grande quantità di informazioni fondamentali per il suo lavoro di consulente.
Uno dei clienti di Fukue era Hideo Haijima, il titolare dell’Edokko sushi, che gestiva sei locali, tra cui uno nel quartiere di
Kanda, a Tokyo, un’attività avviata nel 1957
dai suoi genitori. All’epoca dell’incontro
con Fukue, gli afari di Haijima andavano
male. “Abbiamo gestito la contabilità in
modo artigianale e gli incassi sono andati a
picco”, confessò Haijima. Vendeva so bottiglie di birra e alcolici giapponesi ricercati. Fuori del locale erano accatastate casse di birra che gli davano un aspetto vecchio
e squallido. Ma la situazione è migliorata
dopo l’arrivo di Fukue come consulente, il
quale sapeva che nei ristoranti di sushi lavorano molti professionisti con idee conservatrici ed erano pochi quelli disposti ad
accettare i suoi consigli. Invece di ostinarsi
a ribattere, invitava Haijima e gli altri professionisti ad andare a mangiare in risto ranti dove gli afari andavano meglio. Spiegava che per rendersi conto della realtà bisognava vederla con i propri occhi. Osservando i colleghi, si sarebbero resi conto di
cosa non funzionava da loro.
Tra i ristoranti per cui ha lavorato c’è
anche il famoso Umegaoka sushi no midori di Setagaya, a Tokyo, dove le porzioni
sono abbondanti, la qualità buona e i prezzi ragionevoli. Il proprietario aveva aperto
diversi ristoranti di successo nella capitale.
Anche in questo caso Fukue è intervenuto
dalla gestione dell’azienda a quella dei
menù.
Il peso della tradizione
Nel 2000 aveva ormai accumulato molti
risultati positivi e ha deciso di mettersi in
proprio. Si stava rendendo conto del problema fondamentale del settore della ristorazione: la gavetta per diventare chef di
sushi. I praticanti dovevano prestarsi ogni
giorno a fare i lavori più umili, sgobbando
per anni dalla mattina alla sera. Nei ristoranti nessuno gli insegnava a preparare il
sushi, ma dovevano in qualche modo carpire il segreto di quest’arte osservando chi
aveva più esperienza di loro. Per Fukue era
chiaro che si trattava di un metodo d’insegnamento tradizionale del tutto inadeguato ai tempi.
Fukue stesso, per esercitarsi, aveva lavorato per circa un mese in un ristorante di
sushi di Kanagawa e aveva potuto constatare la violenza con cui i professionisti più
anziani trattavano i tirocinanti. Non era però solo un problema di apprendistato. Con
gli afari che andavano sempre peggio, i ristoranti tagliavano il personale e i professionisti non avevano più tempo per insegnare alle nuove leve.
Per questo Fukue ha proposto a diversi
ristoratori di sushi di aprire una scuola di
cucina. Alcuni hanno accettato e tra questi
c’era Suehiko Shimizu, che all’epoca aveva
62 anni. Dopo il diploma di scuole superiori, Shimizu aveva cominciato a fare pratica
in un locale di sushi e aveva poi lavorato in
altri ristoranti, diventando un veterano della professione. Dopo aver lavorato come
chef a Macao e a Shanghai, e poi in un locale di sushi da asporto a Tokyo, è andato in
pensione, continuando però a insegnare la
preparazione del sushi ai dipendenti parttime del locale.
Pur sapendo che Shimizu aveva anni di
esperienza alle spalle, Fukue gli chiese se
fosse possibile imparare a lavorare il riso
per il sushi in un mese. “Se si tratta solo di
lavorare il riso, è possibile. Basta che l’insegnante si concentri sui fondamentali”, rispose Shimizu. “Bene, allora facciamolo”.
Fukue gli ha proposto di insegnare nella sua
scuola. Così nel giugno del 2002 hanno
inaugurato a Tokyo la Sushi academy. Fukue aveva solo un milione di yen (ottomila
euro) da investire, e li ha usati per prendere
in aitto un ristorante di sushi. Era un ambiente piccolo e accogliente, dove le lezioni
si tenevano al bancone. Niente a che vedere
con le tre ampie stanze per le lezioni pratiche e le numerose aule della Sushi academy
di oggi.
Il primo corso di un mese ha avuto solo
undici iscritti. Con il tempo, però, la notizia
si è difusa su internet e con il passaparola.
Tra gli iscritti c’erano quelli che lasciavano
il loro impiego per andare a lavorare
all’estero, consapevoli che “per uno chef di
sushi essere giapponese è un vantaggio” e
sperando in un buono stipendio. Jun Miki,
titolare di due ristoranti di sushi in Vietnam, è uno di loro.
Il sushi di Ho Chi Minh
Dopo aver lavorato per un’azienda giapponese a Ho Chi Minh city, Miki voleva avviare un’impresa in Vietnam. Dato il rapido
sviluppo economico del paese aveva pensato che un ristorante di sushi sarebbe stato
una buona opportunità di guadagno. Ma
fare arrivare un cuoco dal Giappone era difficile e costoso. Saputo della Sushi academy, nel 2004 è tornato in Giappone per
due mesi e ha frequentato la scuola. Dopo il
diploma ha fatto pratica in un ristorante di
sushi e nel 2005 ha aperto ad Hanoi Sushi
Tokyo: dietro il bancone c’era lui a preparare il sushi e ha insegnato il mestiere anche
al personale vietnamita.
“In classe dovevamo preparare ogni
giorno duecento polpette di riso a testa. È
stata dura ma dopo il corso intensivo non
solo si è in grado di preparare il sushi, ma
anche di insegnare. Se non ci fosse stata la
Sushi academy avrei dovuto imparare da
solo, ma non so se sarei riuscito ad aprire
un’attività di tale successo”.
Con l’aumento di richieste da parte di
studenti che vogliono andare a lavorare
all’estero, nel 2010 l’accademia ha inaugurato un corso di approfondimento: sono
state aggiunte lezioni di inglese, di enologia
e di strategie gestionali. Nei primi sei mesi
gli studenti erano sette, ma dall’ottobre del
2012 sono diventati 32.
Fukue ha aperto a Shinjuku e a Kanda,
due quartieri di Tokyo, due ristoranti dove
possono esercitarsi gli iscritti e i diplomati.
Nel 2012 ne ha aperto uno anche in China,
nel Guangdong. “Il corso intensivo ti insegna a maneggiare il riso, ma buona parte
della tecnica deriva da lunghi anni di esperienza. Anche la capacità di fare conversazione con i clienti seduti al bancone è importante e bisogna esercitarla”, insiste
Fukue.
Far fruttare l’esperienza
Fukue sta pensando di usare la sua esperienza di consulente per aiutare i diplomati
che vogliono aprire un ristorante. Inoltre ha
intenzione di aprire un’altra accademia a
Singapore dove si terranno lezioni in inglese per attirare studenti da tutto il mondo.
Dato che molti stranieri iscritti alla scuola
sono imprenditori che hanno intenzione di
aprire un ristorante, Fukue ha anche creato
degli spazi durante i corsi per fornire gli
strumenti necessari ad aprire una propria
attività.
Grazie a questo senso dell’innovazione,
l’accademia continua a mandare all’estero
i diplomati giapponesi e a dare un’opportunità ai ragazzi di tutto il mondo che vogliono aprire un ristorante di sushi. L’attività di
Fukue, cominciata per colmare una mancanza di chef di sushi in Giappone, adesso
si sta difondendo in tutto il mondo. Si può
dire che Fukue è riuscito a esportare l’industria del sushi. u
n una strada secondaria vicino a
un grattacielo nel quartiere di
Shinjuku, a Tokyo, c’è la Tokyo
sushi academy. È una scuola professionale per aspiranti chef di
sushi, fondata e diretta da Makoto
Fukue. Al primo piano ci sono le aule per le
esercitazioni, dove ogni giorno si tengono
lezioni di edomaezushi(il tipo più difuso di
sushi, nato a Edo, l’antica Tokyo).
“Quando tutti gli ingredienti sono pronti, cominciate a prendere il riso”, ordina il
maestro. Un gruppetto di quindici persone
comincia a maneggiare il riso sincronicamente. Ogni studente appoggia le polpette
di riso sul vassoio da sushi che ha di fronte,
ma il modo in cui muovono le mani è impacciato, aferrano il riso troppo lentamente e le polpette sono irregolari.
Questa classe ha cominciato le lezioni
in ottobre ed è formata da adolescenti e
quarantenni, neodiplomati e impiegati da
poco in pensione: molti di loro non solo non
hanno mai lavorato in un ristorante, ma addirittura non hanno mai preso in mano un
coltello da cucina.
A questo corso per diventare chef di sushi oggi sono iscritte 32 persone. Il pro gramma prevede tre lezioni al giorno tre
volte alla settimana per un anno intero.
Ogni lezione dura un’ora e quaranta minuti, e la prima comincia alle 8.30 del mattino.
Si impara come maneggiare il tonno, la seriola, lo sgombro o il salmone, come lavorare il riso e preparare ricette per fare i makimono(rotoli di riso ripieni avvolti nelle alghe). Inoltre ci sono lezioni di scienze della
nutrizione e lezioni per conoscere le caratteristiche degli ingredienti, oltre che approfondimenti sulla cucina e sui distillati giapponesi.
La cottura perfetta
Si dice che ci vogliano tre anni per imparare
a cuocere il riso e otto per imparare a lavorarlo, e che prima di poter lavorare come
chef di sushi in modo autonomo servano
più di dieci anni di tirocinio. All’accademia
del sushi, invece, il principale vantaggio è
di poter imparare le tecniche e i modi per
lavorare il riso in un anno, se non addirittura in soli due mesi. Fukue non mette completamente in discussione la lunga e severa
gavetta che si fa nei ristoranti di sushi. Ma
ritiene che aidandosi solo al vecchio sistema sarà sempre più difficile diffondere
quest’arte tra i giovani. Per questo ha penMakoto
Fukue
Maestro
di sushi
Secondo la tradizione
ci vogliono dieci anni per
diventare uno chef di sushi.
Con la sua accademia
di Tokyo ha dimostrato che
bastano pochi mesi
Saiji Ugajin, Business Nikkei, Giappone
Ritratti
sato di creare un programma per diventare
professionisti in poco tempo.
La scuola è aperta ormai da dieci anni.
Nonostante un corso annuale costi circa 1,5
milioni di yen (dodicimila euro), e uno di
due mesi circa 830mila yen (6.600 euro), il
programma riscuote grande successo visto
che il numero degli iscritti per ogni corso
supera il numero di posti a disposizione.
Sta crescendo anche la presenza di stranieri che arrivano dal Perù, dalla Cina, dalla
Spagna o dalla Croazia per iscriversi. Ci
sono anche molti giapponesi che vogliono andare a lavorare all’estero. Tra i 1.883 diplomati all’accademia ino a oggi, 96 sono
stranieri e 500 sono i giapponesi che adesso lavorano in ristoranti all’estero (da dove
arrivano ogni anno più di cento oferte di
lavoro). In altre parole, l’Accademia sta diventando un punto di riferimento per
l’esportazione di chef di sushi dal Giappone. Ma la strada che Fukue ha percorso ino
a qui non è stata facile.
Nato nel 1967, Fukue è cresciuto nella
prefettura di Toyama, nel Giappone centrale, e ha frequentato l’università di Kanaz wa. I suoi amici aspiravano a diventare funzionari pubblici o banchieri, ma Fukue era
diverso. Fin da piccolo aveva osservato il
lavoro del padre, un artigiano che dipingeva tessuti tradizionali Kaga Yūzen. È stato
in quel periodo che ha cominciato a pensare come un giorno avrebbe sfruttato ciò che
aveva imparato. All’inizio aveva pensato di
fare il consulente amministrativo e, una
volta laureato, è andato a lavorare alla Tkc,
una grossa azienda di sistemi contabili. Dopo cinque anni passati a girare tra negozi e
piccole fabbriche locali, gli è venuta un’altra idea. Più che un semplice amministratore, voleva diventare uno specialista in grado di ascoltare le perplessità dei vari consulenti e riuscire a dargli i consigli più adatti.
E così, nel 1995, ha ottenuto un lavoro
nel centro di ricerca di un’azienda di consulenza amministrativa di Meguro, a Tokyo.
Era una ditta di piccole dimensioni, con appena qualche decina di dipendenti, che
concentrava la sua attività sulla messa a
punto di sistemi di controllo aziendale.
Grazie a queste informazioni i consulenti
formulavano soluzioni specifiche con le
quali aiutavano le piccole e medie imprese.
Questo lavoro coincideva con le aspirazioni
di Fukue, afascinato dal fatto di poter imparare le strategie di gestione di un’impresa, un prerequisito per lavorare in modo
autonomo.
Da quel momento la vita di Fukue è
cambiata. Il responsabile del laboratorio di
ricerca in cui lavorava, Eikō Watanabe, era
il consulente per alcuni ristoranti di sushi a
Machida. All’epoca Watanabe si occupava
di una trentina di locali e aveva anche organizzato un seminario sulla gestione aziendale dei ristoranti di sushi e di altre specialità tradizionali, facendosi un nome
nell’ambiente. Due anni dopo l’arrivo di
Fukue, Watanabe decise di cedergli il suo
posto: “Fukue, sei una persona sempre sorridente e onesta. Sei bravo a capire le esigenze dei ristoratori, diicili da accontentare, e piaci a molti di loro”. Leggendo
l’enorme quantità di appunti che gli avev lasciato, Fukue è rimasto sorpreso dallo
sforzo costante di Watanabe di mettersi nei
panni dell’interlocutore e della sua grande
capacità di capire i problemi di chi gli stava
di fronte.
Fukue ha accettato la responsabilità
senza esitazione, ma non sono mancati i
momenti di perplessità. Sapeva che i ristoranti di sushi sono soprattutto imprese a livello familiare e che i proprietari in cerca di
consulenti sono pochi. Si chiedeva se sarebbe stato possibile vivere solo grazie a
questo mercato. La sua fortuna è stata quella di trovarsi a lavorare in un momento storico favorevole. Nel 1997, infatti, il Giappone risentiva delle conseguenze dell’esplosione della bolla economica e cresceva il
numero di ristoranti in cerca di aiuto per la
gestione. Molti avevano perso clienti, pur
senza aver alzato i prezzi. All’epoca si chiudeva un occhio anche se i ristoranti non
esponevano il menù e non avevano una
contabilità del tutto trasparente.
La svolta
In un periodo di depressione economica i
consumatori non mettono mano al portafoglio facilmente e cambiano le loro abitudini. Inoltre in quel periodo sono spuntati i
sushi bar: catene di locali a basso prezzo e
di qualità accettabile che aprivano nelle periferie delle città. I proprietari dei ristoranti
tradizionali, convinti all’inizio che queste
nuove attività non avessero niente a che
fare con le loro, cominciarono a considerarli una minaccia. “Di questo passo gli afari
andranno sempre peggio, deve darmi assolutamente qualche consiglio”, gli chiedevano i clienti. Fukue era ormai deciso a diventare uno specialista del settore del sushi e
ha cominciato a frequentare l’ambiente e a
studiarlo. Cercava i ristoranti più rinomati
e ne visitava due o tre al giorno, arrivando a
vederne da cinquecento a mille ogni anno.
Nei locali dove i proprietari si ostinavano a non esporre il menù, i clienti erano pochi. Fukue ci entrava e cominciava a chiacchierare con il proprietario sull’andamento
degli afari. In questo modo è riuscito a raccogliere una grande quantità di informazioni fondamentali per il suo lavoro di consulente.
Uno dei clienti di Fukue era Hideo Haijima, il titolare dell’Edokko sushi, che gestiva sei locali, tra cui uno nel quartiere di
Kanda, a Tokyo, un’attività avviata nel 1957
dai suoi genitori. All’epoca dell’incontro
con Fukue, gli afari di Haijima andavano
male. “Abbiamo gestito la contabilità in
modo artigianale e gli incassi sono andati a
picco”, confessò Haijima. Vendeva so bottiglie di birra e alcolici giapponesi ricercati. Fuori del locale erano accatastate casse di birra che gli davano un aspetto vecchio
e squallido. Ma la situazione è migliorata
dopo l’arrivo di Fukue come consulente, il
quale sapeva che nei ristoranti di sushi lavorano molti professionisti con idee conservatrici ed erano pochi quelli disposti ad
accettare i suoi consigli. Invece di ostinarsi
a ribattere, invitava Haijima e gli altri professionisti ad andare a mangiare in risto ranti dove gli afari andavano meglio. Spiegava che per rendersi conto della realtà bisognava vederla con i propri occhi. Osservando i colleghi, si sarebbero resi conto di
cosa non funzionava da loro.
Tra i ristoranti per cui ha lavorato c’è
anche il famoso Umegaoka sushi no midori di Setagaya, a Tokyo, dove le porzioni
sono abbondanti, la qualità buona e i prezzi ragionevoli. Il proprietario aveva aperto
diversi ristoranti di successo nella capitale.
Anche in questo caso Fukue è intervenuto
dalla gestione dell’azienda a quella dei
menù.
Il peso della tradizione
Nel 2000 aveva ormai accumulato molti
risultati positivi e ha deciso di mettersi in
proprio. Si stava rendendo conto del problema fondamentale del settore della ristorazione: la gavetta per diventare chef di
sushi. I praticanti dovevano prestarsi ogni
giorno a fare i lavori più umili, sgobbando
per anni dalla mattina alla sera. Nei ristoranti nessuno gli insegnava a preparare il
sushi, ma dovevano in qualche modo carpire il segreto di quest’arte osservando chi
aveva più esperienza di loro. Per Fukue era
chiaro che si trattava di un metodo d’insegnamento tradizionale del tutto inadeguato ai tempi.
Fukue stesso, per esercitarsi, aveva lavorato per circa un mese in un ristorante di
sushi di Kanagawa e aveva potuto constatare la violenza con cui i professionisti più
anziani trattavano i tirocinanti. Non era però solo un problema di apprendistato. Con
gli afari che andavano sempre peggio, i ristoranti tagliavano il personale e i professionisti non avevano più tempo per insegnare alle nuove leve.
Per questo Fukue ha proposto a diversi
ristoratori di sushi di aprire una scuola di
cucina. Alcuni hanno accettato e tra questi
c’era Suehiko Shimizu, che all’epoca aveva
62 anni. Dopo il diploma di scuole superiori, Shimizu aveva cominciato a fare pratica
in un locale di sushi e aveva poi lavorato in
altri ristoranti, diventando un veterano della professione. Dopo aver lavorato come
chef a Macao e a Shanghai, e poi in un locale di sushi da asporto a Tokyo, è andato in
pensione, continuando però a insegnare la
preparazione del sushi ai dipendenti parttime del locale.
Pur sapendo che Shimizu aveva anni di
esperienza alle spalle, Fukue gli chiese se
fosse possibile imparare a lavorare il riso
per il sushi in un mese. “Se si tratta solo di
lavorare il riso, è possibile. Basta che l’insegnante si concentri sui fondamentali”, rispose Shimizu. “Bene, allora facciamolo”.
Fukue gli ha proposto di insegnare nella sua
scuola. Così nel giugno del 2002 hanno
inaugurato a Tokyo la Sushi academy. Fukue aveva solo un milione di yen (ottomila
euro) da investire, e li ha usati per prendere
in aitto un ristorante di sushi. Era un ambiente piccolo e accogliente, dove le lezioni
si tenevano al bancone. Niente a che vedere
con le tre ampie stanze per le lezioni pratiche e le numerose aule della Sushi academy
di oggi.
Il primo corso di un mese ha avuto solo
undici iscritti. Con il tempo, però, la notizia
si è difusa su internet e con il passaparola.
Tra gli iscritti c’erano quelli che lasciavano
il loro impiego per andare a lavorare
all’estero, consapevoli che “per uno chef di
sushi essere giapponese è un vantaggio” e
sperando in un buono stipendio. Jun Miki,
titolare di due ristoranti di sushi in Vietnam, è uno di loro.
Il sushi di Ho Chi Minh
Dopo aver lavorato per un’azienda giapponese a Ho Chi Minh city, Miki voleva avviare un’impresa in Vietnam. Dato il rapido
sviluppo economico del paese aveva pensato che un ristorante di sushi sarebbe stato
una buona opportunità di guadagno. Ma
fare arrivare un cuoco dal Giappone era difficile e costoso. Saputo della Sushi academy, nel 2004 è tornato in Giappone per
due mesi e ha frequentato la scuola. Dopo il
diploma ha fatto pratica in un ristorante di
sushi e nel 2005 ha aperto ad Hanoi Sushi
Tokyo: dietro il bancone c’era lui a preparare il sushi e ha insegnato il mestiere anche
al personale vietnamita.
“In classe dovevamo preparare ogni
giorno duecento polpette di riso a testa. È
stata dura ma dopo il corso intensivo non
solo si è in grado di preparare il sushi, ma
anche di insegnare. Se non ci fosse stata la
Sushi academy avrei dovuto imparare da
solo, ma non so se sarei riuscito ad aprire
un’attività di tale successo”.
Con l’aumento di richieste da parte di
studenti che vogliono andare a lavorare
all’estero, nel 2010 l’accademia ha inaugurato un corso di approfondimento: sono
state aggiunte lezioni di inglese, di enologia
e di strategie gestionali. Nei primi sei mesi
gli studenti erano sette, ma dall’ottobre del
2012 sono diventati 32.
Fukue ha aperto a Shinjuku e a Kanda,
due quartieri di Tokyo, due ristoranti dove
possono esercitarsi gli iscritti e i diplomati.
Nel 2012 ne ha aperto uno anche in China,
nel Guangdong. “Il corso intensivo ti insegna a maneggiare il riso, ma buona parte
della tecnica deriva da lunghi anni di esperienza. Anche la capacità di fare conversazione con i clienti seduti al bancone è importante e bisogna esercitarla”, insiste
Fukue.
Far fruttare l’esperienza
Fukue sta pensando di usare la sua esperienza di consulente per aiutare i diplomati
che vogliono aprire un ristorante. Inoltre ha
intenzione di aprire un’altra accademia a
Singapore dove si terranno lezioni in inglese per attirare studenti da tutto il mondo.
Dato che molti stranieri iscritti alla scuola
sono imprenditori che hanno intenzione di
aprire un ristorante, Fukue ha anche creato
degli spazi durante i corsi per fornire gli
strumenti necessari ad aprire una propria
attività.
Grazie a questo senso dell’innovazione,
l’accademia continua a mandare all’estero
i diplomati giapponesi e a dare un’opportunità ai ragazzi di tutto il mondo che vogliono aprire un ristorante di sushi. L’attività di
Fukue, cominciata per colmare una mancanza di chef di sushi in Giappone, adesso
si sta difondendo in tutto il mondo. Si può
dire che Fukue è riuscito a esportare l’industria del sushi. u
988 - La torre di Caracas Jon Lee Anderson, The New Yorker, Stati Uniti
È un grattacielo costruito negli anni novanta e
mai completato. Oggi ci vivono, in condizioni
precarie, migliaia di persone senza casa.
Un simbolo del Venezuela di Hugo Chávez
L’
11 dicembre 2012 Hugo
Chávez Frías, il presidente del Venezuela, si
è sottoposto all’Avana
alla quarta operazione
per curare un tumore. È
signiicativo che Chávez abbia scelto Cuba, da tempo la sua seconda casa. Nel novembre del 1999 Fidel Castro lo invitò a
parlare all’università dell’Avana. Chávez,
ex paracadutista, era presidente del Venezuela da nove mesi, ma trovò ad accoglierlo un pubblico entusiasta. Prodigo di
espressioni di buona volontà nei confronti
di Cuba, Chávez lodò Castro e lo chiamò
“fratello”.
Era impossibile non cogliere le implicazioni della sua visita. Dalla ine dei sussidi
sovietici, otto anni prima, Cuba era in gravi
diicoltà e il Venezuela era ricco di petrolio. Chávez era accompagnato da una delegazione della compagnia petrolifera nazionale. Parlò per novanta minuti e Castro
sorrise tutto il tempo. Un uomo accanto a
me bisbigliò che non aveva mai visto Fidel
mostrare tanto rispetto per un altro leader.
Quella sera una folla riempì lo stadio
dell’Avana per assistere a una partita amichevole di baseball tra i veterani delle
squadre dei due paesi. Chávez lanciava e
batteva per il Venezuela, e giocò tutti e nove gli inning. Castro era l’allenatore di Cuba e dette ai suoi ospiti una lezione di tattica: durante la partita fece entrare in campo
di soppiatto dei giovani professionisti camufati con barbe inte, che a un certo punto furono tolte provocando grida e risate
tra la folla. Alla ine della partita Cuba era
in testa, ma Chávez dichiarò: “Hanno vinto sia Cuba sia il Venezuela. La nostra amicizia si è raforzata”.
Presto Cuba cominciò a ricevere petrolio venezuelano a basso costo in cambio
dei servizi d’insegnanti, medici e allenatori cubani che partecipavano a un programma di riduzione della povertà lanciato da
Chávez.
Dal 2001 decine di migliaia di medici
cubani garantiscono cure ai poveri del Venezuela e le persone con problemi oftalmici sono assistite a Cuba nell’ambito del
programma Misión milagro.
Irriconoscibile
Chávez aveva trovato anche un’ideologia.
Era un discepolo di Simón Bolívar, liberatore del Venezuela ed eroe nazionale, e
poco dopo aver assunto l’incarico ribattezzò il paese Repubblica bolivariana del Venezuela. Bolívar era un carismatico combattente per la libertà che, con le sue sanguinose campagne, liberò gran parte del
Sudamerica dalla Spagna coloniale, ma
nonostante la sua ammirazione per la rivoluzione americana era più autoritario che
democratico. Per Chávez, Castro era il Bolívar dei tempi moderni, il custode della
lotta antimperialista. Nel 2005 Chávez annunciò che il socialismo era il sistema migliore per il futuro della regione. In pochi
anni, grazie ai miliardi del petrolio e alla
guida di Castro, Chávez resuscitò il linguaggio e lo spirito della rivoluzione di sinistra in America Latina. Promise di trasformare il Venezuela in quello che, nel
suo discorso all’università dell’Avana, aveva deinito “un mare di felicità e di autentica pace e giustizia sociale”. Il suo obiettivo era ridurre la povertà. A Caracas i risultati della sua politica sono davanti agli occhi di tutti I coloni spagnoli che fondarono Caracas nel cinquecento scelsero con cura la
sua posizione: meglio le montagne della
costa caraibica, dove la città sarebbe stata
esposta ai pirati britannici e ai predoni indiani. Oggi la costa è accessibile grazie a
una ripida autostrada scavata attraverso le
montagne dal dittatore Marcos Pérez Jiménez, che dominò il paese negli anni cinquanta del novecento. Pérez Jiménez fu
rovesciato dopo sei anni di governo, ma
lasciò dietro di sé un’impressionante eredità di opere pubbliche: ediici amministrativi, progetti di alloggi popolari, gallerie, ponti, parchi e autostrade. Nei decenni
successivi, mentre gran parte dell’America
Latina arrancava sotto le dittature, il Venezuela è stato una democrazia dinamica e
per lo più stabile. Era uno dei paesi più ricchi di petrolio al mondo, aveva una borghesia in crescita con un tenore di vita alto
ed era alleato degli Stati Uniti. La speranza
di una vita ricca attirò dal resto dell’America Latina e dall’Europa centinaia di migliaia d’immigrati, che contribuirono a costruire la fama di Caracas come una delle città
più belle e moderne della regione.
Quella città oggi è quasi irriconoscibile.
Dopo decenni di abbandono, povertà, corruzione e rivolte sociali, Caracas è degradata al di là di ogni limite. Ha uno dei tassi
di omicidio più alti del mondo: nel 2011, in
una città di tre milioni di abitanti, sono state uccise 3.600 persone. Una ogni due ore.
Il tasso di omicidi in Venezuela si è triplicato da quando Chávez è stato eletto. La violenza è forse la caratteristica principale di
Caracas, inevitabile come il tempo, che di
solito è magniico, e il traico, che è spaventoso. Gli ambulanti si fanno largo negli
ingorghi vendendo giocattoli, insetticidi e
dvd pirata. I quartieri più ricchi sono enclave fortiicate con mura protette da ili elettrici. Dietro ai vetri oscurati, guardie armate sorvegliano i cancelli.
Caracas è una città fallita, e la torre di
David è il simbolo di questo fallimento. La
torre si innalza per 45 piani sopra la città Insieme a un’altra torre di diciotto piani e a
un parcheggio sopraelevato, è l’elemento
principale del complesso Coninanzas, ed
è visibile da ogni angolo della città. È circondata da un quartiere come tanti altri:
un reticolo di casette basse disposte sul
ianco di una collina che si esauriscono dopo qualche isolato alle pendici dell’Ávila,
una montagna coperta dalla giungla che
crea un impressionante muro verde tra Caracas e il mar dei Caraibi.
La torre prende il nome da David Brillembourg, un banchiere che aveva fatto
fortuna negli anni settanta, durante il
boom petrolifero del Venezuela. Nel 1990
Brillembourg avviò la costruzione del complesso, che doveva essere la risposta venezuelana a Wall street. Morì nel 1993, quando la torre era ancora in costruzione. Poco
dopo, una crisi bancaria spazzò via un terzo delle istituzioni inanziarie del paese. La
torre non è mai stata terminata.
Da lontano non si ha la sensazione che
nel grattacielo ci sia qualcosa di strano, ma
avvicinandosi le irregolarità della facciata
appaiono evidenti. In diversi punti mancano i pannelli di vetro e i buchi sono stati
tappati inchiodando delle assi. Sui lati i
pannelli non ci sono proprio. Il complesso
è un ammasso di cemento incompiuto, ma
dentro c’è gente che ci vive. Rozze case di
mattoni hanno riempito gli spazi vuoti tra i
vari livelli. Solo gli ultimi piani sono aperti,
all’aria, come piattaforme di una grandiosa torta nuziale.
Guillermo Barrios, professore di architettura alla Universidad central, mi ha detto: “Ogni regime ha la sua icona architettonica e senza dubbio quella del chavismo è
la torre di David. Incarna perfettamente la
sua politica urbana, che si può riassumere
in conisca, esproprio, incapacità amministrativa e uso della violenza”. La torre è
diventata loslumpiù alto del mondo.
Capitalismo selvaggio
Quando Chávez andò al potere, nel 1999,
il centro della città era fatiscente, e la torre
era nelle mani di una compagnia di assicurazione. Nel 2001 il governo cercò di venderla a un’asta pubblica, ma non ci furono
oferte. Il progetto di trasformare l’ediicio
nella sede dell’amministrazione comunale
fu accantonato. Poi, una notte di ottobre
del 2007, centinaia di uomini, donne e
bambini guidati da un gruppo di ex detenuti hanno invaso la torre e ci si sono accampati. I leader dell’invasione hanno cominciato a vendere il diritto di entrata ai
nuovi arrivati, povera gente delle baraccopoli che voleva lasciare il fango delle colline per la città. Oggi la torre è il simbolo di
una tendenza dell’era Chávez: l’occupazione degli edifici disabitati da parte di
gruppi organizzati, ribattezzati invasores.
Dal 2003 sono stati occupati centinaia di
palazzi: appartamenti, uici, magazzini e
centri commerciali. Oggi nella torre di David vivono tremila persone.
Il boss dell’ediicio è un ex criminale
diventato pastore evangelico, Alexander
Daza, detto El Niño. Sostenitore di Chávez,
Daza accetta d’incontrarmi solo quando
un intermediario gli garantisce che sono
politicamente a posto. Quando arrivo
all’ingresso principale della torre, con tanto di cancello e controllo elettronico, alcune donne mi chiedono di mostrare un documento e irmare un registro, e mi fanno
passare perché sono ospite di Daza. Lui mi
aspetta nell’atrio. Un paio di altoparlanti
piazzati davanti alla “chiesa” di Daza – una
stanza al piano terra dove predica tutte le
domeniche – trasmettono una musica assordante.
El Niño è basso, ha 38 anni ma sembra
più giovane, e si dice che in prigione sia rinato a nuova vita. Ci sediamo su un muretto, ma con la musica a tutto volume è impossibile sentire cosa dice. Daza non parla
della torre né del ruolo autorevole che gli
viene riconosciuto. Scimmiottando il linguaggio del governo, accusa i “mezzi d’informazione privati” di distorcere la verità,
di attaccare “la causa del popolo” e di
“danneggiare Chávez”. Dopo un po’ si
scioglie e m’indica la moglie, Gina, che ci
passa accanto con un bimbo di un anno.
Non riusciamo a vedere granché della
vita comunitaria della torre, che si svolge
molto più in alto, ma alcuni appartamenti
ai primi piani si afacciano sull’atrio. Ci sono panni stesi sui balconi e alcune antenne
satellitari. Si può anche cogliere qualche
segnale dell’orientamento politico dominante. Daza ha cercato di trasformare la
torre in una roccaforte di Chávez e sopra le
nostre teste è appesa una grande bandiera
rossa in suo onore.
Secondo Daza, la torre non è un covo di
criminali: lui e la sua gente “l’hanno salvata con l’idea di viverci in armonia”. Barrios
non è d’accordo: “La torre di David non è
un bell’esempio di autodeterminazione
popolare, ma un’invasione violenta”. Secondo Barrios, Daza è un malandro– un
malvivente – mascherato da pastore. “È il
leader degli invasoresma vende l’accesso
all’ediicio, e questa è la forma più selvaggia di capitalismo”, sostiene.
Il 7 ottobre 2012 Chávez è stato rieletto
presidente e a Caracas, nelle settimane
successive alla sua vittoria, si respirava
un’atmosfera d’incertezza. Il presidente,
che ha 58 anni, è in cura per un tumore dal
giugno del 2011, ma in campagna elettorale aveva assicurato di stare abbastanza bene e di poter guidare il paese per altri sei
anni. Dopo il discorso della vittoria, però,
non è più apparso in pubblico. A novembre
uno dei funzionari di Chávez mi ha spiegato che il presidente si stava “riprendendo
dalle fatiche della campagna elettorale”.
Un paio di settimane dopo Chávez è andato a Cuba per un controllo medico e, di ritorno a Caracas, ha annunciato che i medici avevano trovato nuove cellule tumorali.
Seduto accanto al vicepresidente Nicolás
Maduro, Chávez ha detto: “Se dovesse
succedermi qualcosa, scegliete Maduro”.
Una volta Chávez mi ha raccontato che
Castro lo aveva sollecitato a potenziare la
sua scorta: “Senza quest’uomo, la rivoluzione inirebbe subito”. La rivoluzione di
Chávez è stata sempre trainata dalla sua
personalità. L’ex militare ha raforzato la
sua preparazione ideologica in prigione.
Fu arrestato nel 1992 per aver guidato un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. E in p gione chiese a Jorge Giordani, professore
marxista di economia e pianiicazione sociale all’Universidad central, di dargli
qualche lezione. “Chávez doveva scrivere
una tesi su come trasformare il suo movimento bolivariano in un governo”, mi raccontò Giordani nel 2001, quand’era ministro della pianiicazione. Poi si mise a ridere: “Non abbiamo mai inito la tesi. Ogni
volta che gli chiedo notizie, mi spiega:
‘Stiamo mettendo in pratica la teoria’”.
Nella vita pubblica, in Venezuela si litiga per quasi tutto. Questo vale anche per la
torre di David: le opinioni sul grattacielo
sono tutte diverse. Un amico giornalista,
Boris Muñoz, sostiene che l’ediicio è gestito da “lumpen andati al potere”, i quali
controllano i residenti con la stessa violenza che regola la vita nelle prigioni del paese. Barrios dà la colpa delle occupazioni al
disinteresse del governo per la città e a
Chávez. Nel 2011 il presidente ha invitato i
senzatetto di Caracas a occupare i depositi
abbandonati, chiamati galpones. “Cercatevi un galpón e ditemi dov’è. Ci sono migliaia di galponesabbandonati a Caracas. Cerchiamoli! Chávez li esproprierà e li metterà
al servizio del popolo”.
Le occupazioni degli ediici sono aumentate. Nel dicembre del 2010, quando
un’inondazione ha lasciato senza casa centinaia di migliaia di persone, costrette nella maggior parte dei casi ad abbandonare i
quartieri poveri sulle colline, Chávez ha
requisito gli alberghi, un circolo ricreativo
e un centro commerciale per ospitarli. Per
mesi migliaia di damniicadoshanno vissuto nei parchi della città e in una tendopoli
allestita davanti al palazzo presidenziale di
Miralores. Alcuni sono stati ospitati all’interno del palazzo. Era una situazione
d’emergenza e, restando fedele al suo stile
quasi militare, Chávez ha annunciato una
nuova “missione”: la Gran misión vivienda, la grande missione degli alloggi.
Il capo
A Caracas gran parte della responsabilità
della Misión vivienda ricade su Jorge Rodríguez. Ex vicepresidente di Chávez, dal
2008 Rodríguez è il sindaco del municipio
Libertador, il centro della città. Vado a trovarlo nel suo uicio. Rodríguez mi dice di
non essersi reso conto della situazione di
Caracas ino a quando è diventato sindaco.
Mi racconta che, subito dopo la sua elezione, ha incontrato Chávez per discutere con
lui della situazione: “Abbiamo deciso che
avremmo sistemato la città, a partire dal
centro. Dovevamo cominciare da qual parte”. Secondo Rodríguez, i problemi della capitale dipendono soprattutto dai leader del passato. Da quando gli spagnoli
hanno costruito Caracas, la sua crescita
non è mai stata pianiicata, a parte la parentesi durante la dittatura di Jiménez. Il
sindaco descrive il progressivo degrado
che ha portato all’emergenza attuale come
“un lento terremoto”. Un tempo i poveri
vivevano nelle gole o sui ianchi della montagna e poi sono stati costretti a trasferirsi
in città. Il ricco settore privato ha smesso
d’investire nella capitale e l’inondazione
del 2010 ha portato la situazione al punto
di crisi. Nel paese mancavano tre milioni
di alloggi e l’obiettivo quell’anno era costruire 270mila nuove unità abitative. Secondo Barrios, dal 1999 il governo in media ha costruito 25mila case all’anno, e in
percentuale ha fatto meno di qualunque
altra amministrazione per affrontare il
problema della casa dal 1959 a oggi. Ma
Rodríguez mi assicura che l’obiettivo è vicino: “Stiamo costruendo ovunque è possibile”.
In giro per la città si vedono alcuni segnali positivi, a dimostrazione che il governo sta afrontando il problema dell’insuicienza di alloggi popolari e di trasporti
pubblici. Rodríguez mi ha portato in un p sto, sull’avenida Libertador, dove stanno
costruendo vari palazzi, tra cui alcuni ediici di cinque piani in mattoni e acciaio su
palaitte. Ai lati dell’avenida, i bulldozer
stanno abbattendo le baraccopoli e i loro
abitanti vengono trasferiti nei nuovi alloggi. In alcune zone ci sono i piloni di una
nuova sopraelevata per i pendolari appaltata alla Cina, che rientra in un piano ambizioso per ridurre il traico e alleggerire la
pressione sulla metropolitana. È stata
inaugurata una costosa funivia per trasportare i passeggeri a san Augustín, una delle
baraccopoli più vecchie della capitale, sulle colline. Le cabine partono da una stazione scintillante e si muovono in silenzio,
spinte da enormi cavi fabbricati in Austria.
Ogni cabina è dipinta di rosso – il colore
della rivoluzione bolivariana – e ha un nome diverso: Soberanía, Sacriicio, Moral
socialista. In basso, i pendii della collina
sono una discarica a cielo aperto attraversata da dedali di baracche e stradine di terra battuta.
Una mattina incontro Daza in un terreno coperto di erbacce dietro alla torre più
bassa. Sta sorvegliando un gruppo di quattro ragazzi e un uomo più anziano che mescolano del cemento in una carriola e poi lo
distribuiscono su una distesa di fango, erba e detriti. Daza mi spiega che vuole costruire un piccolo parco, in modo che le
famiglie con bambini possano avere un posto sicuro dove giocare e organizzare feste
di compleanno.
Daza ha piani ambiziosi per la torre. Mi
mostra il garage al piano terra – uno spazio
immenso e completamente vuoto a parte
alcuni autobus rotti – e spiega che è una
fonte di reddito importante: il garage è afittato agli autisti di autobus e si riempie
durante la giornata. Accanto all’ingresso
Daza ha in mente d’installare una porta di
sicurezza e di far costruire un gabbiotto per
la sorveglianza. A un lato dell’edificio,
all’ombra di una ila di manghi, mi indica
uno spazio inutilizzato dove vuole costruire un centro diurno per i igli delle madri
lavoratrici. Accanto al cancello principale
spera di aprire un bar “per vendere cibo
bolivariano a prezzi socialisti”.
Mentre camminiamo, mi spiega come
funziona l’ediicio. Parla con tono ritmico
ed enfatico, come un predicatore. “Non c’è
un regime carcerario”, dichiara. “C’è ordine. E non ci sono celle, ma case. Nessuno è
costretto a collaborare. Non ci sono inquilini, ma abitanti”. Ogni abitante deve pagare una retta mensile di 150 bolívar (circa
17 euro) per contribuire ai costi della manutenzione di base, come i salari della brigata di pulizia e del gruppo di lavoro. Le
persone che non possono permettersi di
costruire la loro abitazione ricevono un
aiuto economico. I residenti sono tutti registrati e ogni piano ha un rappresentante
che si occupa delle varie questioni. Se i problemi non si possono risolvere al livello del
piano vengono sottoposti al consiglio della
torre, presieduto da Daza, che si riunisce
due volte alla settimana.
Una storia di redenzione
La versione di Daza sul sistema di regole in
vigore nel grattacielo contrasta con alcune
storie che ho sentito, in cui si parla di esecuzioni in stile carcerario, e di persone mutilate e poi gettate a pezzi dagli ultimi piani.
Questa è la punizione riservata ai ladri e ai
delatori nelle prigioni del Venezuela, e la
consuetudine si è difusa anche nei quartieri controllati dalla criminalità. Quando
chiedo a Daza cosa pensa di queste storie,
lui storce le labbra con un atteggiamento
sprezzante. “Vogliamo che ci lascino vivere qui”, risponde. “Viviamo bene. Non ci
sono sparatorie né malviventi con la pistola in mano. C’è lavoro e c’è brava gente,
gente che lavora”. Poi gli chiedo come ha
fatto a diventare il jefe, il capo della torre.
Lui storce di nuovo le labbra e risponde:
“All’inizio tutti volevano prendere il comando. Ma Dio si è liberato di chi voleva
liberarsi e ha lasciato chi voleva lasciare”.
Molti abitanti della torre hanno avuto
una vita complicata dall’intreccio di miseria e criminalità tipico del paese. In un magazzino riadattato accanto alla chiesa di
Daza vive Gregorio Laya, compagno di prigione del Niño. Oggi Laya lavora come
cuoco nella cucina del presidente a palazzo
Miralores, ma un tempo faceva parte di
una banda di roleros, ladri specializzati in
orologi costosi. Un giorno derubò il proprietario di un centro estetico “a qualche
isolato da qui”, mi spiega indicando oltre la
torre. Prese l’orologio, ma prima che riuscisse a scappare l’uomo tirò fuori una pistola e cominciò a sparare. Lui “non aveva
altra scelta” che rispondere al fuoco: sparò
più volte al proprietario del centro estetico,
uccidendolo. Anche Laya era ferito e la polizia lo arrestò quasi subito. Fu condannato
a undici anni di carcere. È fortunato ad
avere un lavoro ed è grato a Daza per avergli trovato un posto nella torre. Ogni giorno, andando al lavoro, passa davanti al
centro estetico e pensa a com’è cambiata la
sua vita.
Anche Daza racconta la sua vita come
una storia di redenzione. Un giorno mi fa
vedere la sua chiesa, un grande magazzino
ridipinto di verde, con sedie di plastica impilate e un pulpito da predicatore. Alle pareti ci sono ritagli di carta da lettera dorata
con le scritte Casa de diose Puerta del cielo.
Daza prende due sedie e mi fa accomodare. Viene da Catia, mi racconta, una delle
peggiori baraccopoli di Caracas. La sua famiglia era molto povera. Era il più piccolo
di vari igli maschi. È rimasto fuori dai guai
ino all’età di otto anni, quando alcuni ragazzi più grandi gli rubarono la bicicletta e
lo umiliarono picchiandolo. Lui li deinisce
malandrosche terrorizzavano il quartiere.
“Ricordo di averli visti minacciare i miei
fratelli maggiori”, racconta. “Avevano la
pistola, e quando i miei fratelli scappavano
loro li inseguivano sparando. Non m’importava che uccidessero i miei fratelli, però
non sopportavo come si comportavano
con mia madre. La maltrattavano, fumavano e dicevano oscenità davanti a lei. Io gli
dicevo che erano dei vigliacchi perché attiravano i loro nemici nel quartiere e poi,
quando arrivavano, scappavano”. Daza
mise su una banda di ragazzini. “Ci procurammo delle armi e poi, quando avevo
quindici anni, aspettammo il capo di quei
malandros. Quando si presentò l’occasione”, fa il gesto di sparare, “lo eliminammo”.
Dopo quell’omicidio diventò il boss del
quartiere.
Daza è stato in prigione due volte, la
prima per cinque anni e la seconda per due.
Mentre scontava la seconda condanna per
possesso illegale di armi da fuoco, un poliziotto predicatore andò a trovarlo e lo con- vertì. Uscì dal carcere “con el Evangelio” e
da allora cerca di condurre una vita migliore.
Per Daza, come per molti altri abitanti
di Caracas, la prospettiva di una vita migliore non è solo spirituale ma anche materiale. L’amministrazione di Hugo Chávez
ha avuto efetti contraddittori sull’economia del paese. La sua retorica anticapitalista ha spinto alcune aziende a espatriare,
mentre altre sono riuscite a lavorare con il
governo e hanno fatto fortuna. C’è un numero incredibile di norme da rispettare –
solo per pagare una cena in un ristorante
bisogna esibire un documento d’identità –
ma paradossalmente questo ha incoraggiato l’economia sommersa. Molti medici
e ingegneri hanno abbandonato il paese,
mentre altri professionisti continuano a
lavorare bene. L’unica costante è il lusso
di denaro proveniente dal petrolio, che assicura ad alcuni enormi ricchezze e sostiene un settore pubblico in espansione. Da
quando c’è stata la rivoluzione i venezuelani più poveri se la cavano un po’ meglio.
Eppure, nonostante gli appelli di Chávez
alla solidarietà socialista, il suo popolo
vuole sicurezza e cose belle almeno quanto
vuole una società più giusta.
A Caracas ci sono migliaia di sequestri
ogni anno. Nel novembre del 2011 alcuni
uomini hanno catturato il console cileno,
lo hanno picchiato e gli hanno sparato.
Quello stesso mese il catcherdei Washington Nationals, Wilson Ramos, è stato rapito dalla casa dei genitori in Venezuela ed è
stato tenuto in ostaggio due giorni prima di
essere liberato. Ad aprile è stato sequestrato un diplomatico della Costa Rica. Il giorno dopo la polizia ha fatto irruzione nella
torre di David per cercarlo, ma ha trovato
solo alcune armi.
Ho l’impressione che Daza non voglia
mai lasciare il piano terra della torre e che
non voglia farlo lasciare neanche a me.
Ogni volta che gli propongo di andare di
sopra diventa evasivo e, quando gli chiedo
di partecipare a una riunione con i rappresentanti dei vari piani, accampa delle scuse. Si racconta che chieda una tassa d’ingresso a ogni nuovo residente, ma lui nega.
Sembra probabile, però, che si guadagni da
vivere sfruttando l’ediicio, probabilmente
il garage degli autobus. E può permettersi
qualche lusso: vive sopra la chiesa, ma ha
anche un appartamento in un altro luogo
della città. Ha avuto dei igli da relazioni
precedenti e li può incontrare senza correre rischi.
In un paio di occasioni riesco a salire ai
piani superiori del grattacielo per dare
un’occhiata. Al decimo piano le persone
della squadra di sicurezza pretendono che
mi presenti e dica dove sto andando. Quando faccio un cenno a Daza le guardie mi
lasciano passare, ma dopo qualche minuto
riappaiono per tenermi d’occhio. Gli abitanti della torre sono cauti e parlano poco
con gli stranieri. Sulle scale molti hanno
dei carichi da trasportare e si muovono come montanari, con l’espressione tesa delle
persone che stanno facendo una prova di
resistenza.
I corridoi sono orientati in modo da far
entrare la luce dalle grandi vetrate a ciascuna estremità dell’ediicio. Nei piani non
ultimati, i residenti hanno costruito delle
casette con blocchi di calcestruzzo intonacati. Molti hanno la porta aperta, non solo
per socializzare ma per lasciar passare
l’aria, e li vedo impegnati nelle faccende
quotidiane: cucinare, pulire, portare secchi d’acqua, fare la doccia. Qui e là si sente
la musica. Daza ha improvvisato una pompa per l’acqua alimentata da un generatore
e in ogni piano c’è un serbatoio, ma la fornitura d’acqua è imprevedibile.
Nella torre ci sono vari negozietti di generi alimentari, un parrucchiere e un paio
di asili. Al nono piano visito il neg Zaida Gómez, una donna sui sessant’anni
con i capelli bianchi, vive insieme alla madre ultranovantenne. Gómez mi mostra la
piccola stanza accanto al negozio dove ha
sistemato la madre. Il ventilatore è sempre
acceso perché il caldo è forte.
Zaida Gómez ha paura che la costringano a lasciare la torre. “Quest’edificio è
troppo costoso per gente come noi”, mi dice. “Un giorno le autorità vorranno riprenderselo”. La donna spera che il governo,
impegnato a costruire alloggi nella vicina
avenida Libertador, arrivi ino alla torre e
dia una casa a tutti. “Voglio solo una casetta e un pezzetto di terra da coltivare, qualcosa che sia tutto mio”.
Albinson Linares, un giornalista venezuelano che si è occupato della torre, ha
deinito i suoi abitanti “rifugiati di uno stato sottosviluppato che vivono in una struttura del primo mondo”. È uno spaccato
degli abitanti di Caracas: infermieri, uomini della sicurezza, autisti di autobus, commercianti e studenti. Ci sono anche disoccupati e la cerchia di ex carcerati evangelici
di Daza. Ogni piano ha la sua sociologia. I
piani più bassi sono in gran parte riservati
agli anziani, che non possono arrampicarsi
per le scale. Alcuni piani sono dominati
dalla vita familiare, altri sono occupati da
ragazzi dall’aria pericolosa. Un giorno un
fotografo che mi accompagnava viene
spinto dentro un appartamento da un paio
di uomini che vogliono interrogarlo. Quando il fotografo fa il nome di Daza lo lasciano andare, ma con un po’ di riluttanza.
Scendendo le scale vediamo una scritta
che dice “El Niño sapo”, El Niño è un delatore. Sembra che Daza abbia dei nemici
anche nella torre.
Colpa delle prigioni
A mezz’ora di macchina dal grattacielo c’è
un’altrainvasión: El Milagro. È stato fondato parecchi anni fa da José Argenis, un ex
detenuto diventato pastore che si è unito
ad altri ex carcerati e alle loro famiglie per
occupare un pezzo di terra accanto al iume fuori Caracas. Era un terreno coperto
di arbusti e disseminato di spazzatura, ma
si trovava in una buona posizione: non lontano dalla strada principale, vicino a una
stazione di autobus e a un piccolo pont che consentiva ai residenti di attraversare
il iume a piedi o in motorino. Oggi El Milagro è una comunità di diecimila persone, e
continua a espandersi.
Argenis, un nero carismatico dalla voce
tonante, dirige un centro di recupero nel
Milagro per ex detenuti che gli hanno chiesto aiuto. Le prigioni del Venezuela sono le
peggiori dell’America Latina. Le trenta
strutture del paese sono state progettate
per accogliere quindicimila detenuti, ma
ne ospitano tre volte di più. La droga si
compra e si vende apertamente, e i detenuti riescono a procurarsi armi automatiche e
granate. In molti istituti le guardie penitenziarie hanno ceduto il controllo a bande
armate agli ordini di criminali incalliti ribattezzati pranes.
I pranesguidano la comunità criminale,
dentro e fuori dal carcere: con una polizia e
una magistratura corrotte e inefficienti,
forniscono un punto di riferimento dove
non ne esistono altri. Sono diventati abbastanza potenti da trattare direttamente con
il governo. Argenis lavora come consigliere
di Iris Varela, ministra per il servizio penitenziario, e l’aiuta a negoziare con i capi
della criminalità. “Per il momento è un lavoro non retribuito”, mi ha spiegato Argenis. Ma è contento di lavorare con la ministra: spera di ricevere inanziamenti dal
governo per il suo centro di recupero e di
poterne costruire altri in tutto il paese.
Argenis ha scontato una condanna di
nove anni per omicidio e in prigione ha conosciuto Daza. Dopo il carcere sono rimasti in contatto. “Quando hanno occupato la
torre, El Niño era ancora coinvolto nel
mondo della malavita”, mi ha raccontato.
“Qualcuno voleva il disordine. Ma lui ha
imposto l’ordine, alla vecchia maniera”. Mi
ha lanciato uno sguardo d’intesa.
Un giorno Daza è andato da lui per chiedergli aiuto. “È venuto qui per sei mesi.
Uicialmente era il capo della torre, ma
alloggiava qui”. Secondo Argenis, “quando
è uscito di prigione, Daza aveva dei problemi. C’era della gente che voleva ucciderlo,
e noi lo abbiamo protetto”. Argenis non
esclude che Daza possa tornare alla vita
criminale. “Credo che abbia appeso i guantoni”, mi ha detto sorridendo. “Ma potrebbe cadere di nuovo in tentazione, perché
dobbiamo guardarci alle spalle, capisci?”.
Quando gli chiedo come mai la cultura
dei malandrossi è difusa così tanto, mi risponde che la colpa è delle prigioni. Gli
uomini in carcere non cercano neanche di
scappare, perché “hanno tutto quello che
gli serve e vivono perino meglio di quando
stavano sulla strada”. L’economia carceraria è in pieno boom, con miliardi di bolívar
generati dal controllo del traico di stupefacenti. “Le prigioni sono davvero forti e
negli ultimi sette e otto anni lo sono diventate ancora di più”.
La prima cosa che si nota arrivando
all’aeroporto internazionale di Caracas è
una baraccopoli, forse la più famosa della
città: il 23 de enero. “El 23”, come lo chiamano tutti, è un quartiere costruito negli
anni cinquanta da uno dei più grandi architetti del Venezuela, Carlos Raúl Villanueva. È un complesso di ottanta ediici che
occupa un immenso terreno nella parte
settentrionale della città. È stato concepito
come un grande sobborgo, con palazzi di
quattro piani e grattacieli di quindici, intervallati da giardini e vialetti.
Oggi gli spazi verdi sono completamente occupati dagli invasores. El 23 è a tutti gli
efetti una baraccopoli di centomila persone, punteggiata dai palazzi residenziali di
Villanueva. La zona è un instabile mosaico
di gruppi autonomi, alcuni con pretese rivoluzionarie e altri dichiaratamente criminali. Molti gruppi sono armati.
Una igura emblematica del 23 è stata
Lina Ron, una militante con i capelli ossigenati e un carattere esuberante. Prima di
morire per un ictus l’anno scorso, Lina Ron
ha guidato le proteste antimperialiste, che
ogni tanto sfociavano nella violenza.
Chávez ha sempre tollerato Ron e i suoi aggressivi seguaci, perché lei difendeva la
sua politica e spesso appariva al suo ianco
nelle manifestazioni. Nel 2001 Chávez mi
fece capire che aveva abbracciato l’estrema sinistra per evitare un colpo di stato
come quello che lui aveva guidato nel 1992:
“La verità è che abbiamo bisogno di una
rivoluzione. Se non riusciamo a farla ora,
arriverà più tardi con un altro volto”, mi
disse il presidente in quell’occasione. “Forse nello stesso modo in cui siamo arrivati
noi, una notte, con le armi in pugno”.
Difesa personale
Oggi non c’è un chavista più dichiaratamente radicale di Juan Barreto, un professore dell’Universidad central. Barreto, che
ha 50 anni, è un marxista loquace e brillante che dal 2004 al 2008 – il periodo delle
occupazioni, compresa quella della tor di David – è stato alcalde mayordi Caracas,
cioè il sindaco che supervisiona tutti i distretti della città. All’inizio del 2008 ho
passato un po’ di tempo con lui e ho capito
che alcuni invasoreslo consideravano il loro protettore. Barreto ha sempre detto di
non sostenere le invasioni, ma di approvare l’esproprio di proprietà inutilizzate per
superare la crisi degli alloggi. Durante il
suo mandato di sindaco, ha fatto arrabbiare i ricchi della città minacciando di coniscare in nome del popolo il Caracas Country club, dove ville e giardini lussuosi circondano un campo da golf di diciotto buche. Alla ine il piano è stato abbandonato,
sembra per ordine di Chávez.
Quando era sindaco, gli piaceva essere
l’enfant terribledella rivoluzione di Chávez.
Ha organizzato una scorta di guardie del
corpo in motocicletta che viaggiavano insieme a lui. Nella squadra c’era anche un
ex killer a contratto, un ragazzo che si chiama Cristian, che lui voleva rieducare. Me
lo ha presentato e gli ha chiesto: “Cristian,
quante persone hai ammazzato?”. Il ragazzo ha risposto tra i denti: “Una sessantina,
credo”, e Barreto ha riso divertito.
Dopo aver lasciato l’incarico nel 2008,
Barreto si è allontanato dalla vita politica,
ma l’anno scorso è tornato a impegnar per la campagna elettorale di Chávez. Alla
testa di un gruppo informale di collettivi
radicali che hanno sede nelle varie baraccopoli, ha fondato Redes, una nuova organizzazione con cui ha partecipato alla campagna elettorale. Caracas era tappezzata di
manifesti di Redes che mostravano il leader della rivoluzione abbracciato al corpulento Barreto.
Incontro Barreto nella sua casa nella
zona del Cementerio. Barreto mi spiega
che lui e i suoi compagni stanno lavorando
per trasformare Redes in un partito politico. Negli ultimi tempi Chávez ha ideato un
piano per “il socialismo del ventunesimo
secolo”, in base al quale la società venezuelana dev’essere ristrutturata in comunas. Nessuno, a parte forse lo stesso
Chávez, ha capito bene cosa signiichi questo termine o come dev’essere applicato il
piano. Barreto e i suoi compagni temono
che, senza la pressione di gruppi come Redes, il piano sia usato per ingabbiare le vere
forze rivoluzionarie.
Per contribuire a creare un’autentica
comune, Barreto collabora con Alexis Vive, uno dei collettivi armati più organizzati
di El 23. Mi propone di andare a vederli.
Quando saliamo nel suo suv – glielo ha prestato Chávez – una guardia del corpo tira
fuori una mitraglietta Belgian P90. “Bella,
vero?”, chiede Barreto sorridendo. “Spara
57 pallottole”. Poi aggiunge che armi come
questa servono alla difesa personale. “Non
siamo contro il governo. Ma non riesco a
trovare il modo di sostenerlo ino in fondo”. Scoppia a ridere. “È come quando hai
una bella donna ma non sei più innamorato di lei. È diicile, la vuoi ancora ma non la
vuoi più, mi capisci?”.
Nel quartier generale del collettivo Alexis Vive ci sono murales di Karl Marx, Mao
Zedong , Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara, ma a parte qualche uomo armato che
indugia intorno ad alcuni ediici lì vicino,
la fanteria si tiene a distanza. Uno dei leader del gruppo, Salvador, un giovane studente di sociologia, mi spiega che il collettivo controlla una ventina di ettari dove
vivono diecimila persone, con cui stanno
cercando di formare un collettivo marxista
autosuiciente. Il gruppo è armato solo per
motivi di autodifesa, spiega Salvador. A El
23, poliziotti corrotti e membri della guardia nazionale venezuelana lavorano insieme ai gruppi di malandros, alcuni nell’area
che conina con il loro territorio. Barreto
sostiene che il contingente armato protegge la sua gente dai funzionari canaglia.
“Non riescono a venire qui dal 2008”, dic ridendo. “Abbiamo avuto degli scontri a
fuoco con loro”.
La corruzione nelle forze dell’ordine è
un problema radicato nel paese e, secondo
Barreto, è la vera fonte della cultura criminale del Venezuela. Lui l’ha combattuta
quando ha amministrato la capitale sostituendo gran parte della polizia con i Tupamaros, un gruppo armato di El 23. La situazione, aggiunge Salvador, dipende anche
dall’incapacità di Chávez di afrontare i
veri criminali: “Il presidente non si è messo contro i malandros perché pensa che loro possano mettersi contro di lui”.
Una certezza
È domenica. Nella chiesa di Daza sono state preparate cinquanta sedie di plastica per
i fedeli, ma si presenta solo una decina di
persone, soprattutto donne e bambini. El
Niño non sembra sorpreso. La sua compagna, Gina, arriva con i igli e una Bibbia
dalla copertina rosa. Mentre i musicisti
suonano, Daza canta a un lato del palcoscenico – è stonato ma non si vergogna – e
suona il bongo. Alla ine prende il microfono e comincia a gridare ritmicamente con
voce roca, parlando del bene e del male.
Qualche giorno dopo Daza mi porta nel
vicino stato di Miranda per mostrarmi la
baraccopoli dove viveva con l’ex moglie e
dove lei abita ancora. Lungo la strada mi
racconta come Dio l’ha salvato. Aveva lasciato la scuola a tredici anni e un anno
dopo faceva già parte di una banda. In prigione, la seconda volta che è stato arrestato, ha imparato a leggere, e la Bibbia è stata
il suo primo libro. “Non ho studiato come
all’università, ma mi sono preparato molto
su Dio. Una volta mi rivolgevo alla gente in
modo ofensivo, usando parole oscene. Ma
ho letto da qualche parte nella Bibbia – non
ricordo dove – che un cattivo linguaggio
corrompe i buoni costumi. E quando l’ho
letto ho pensato: ‘Dio mi sta parlando’”.
Raggiungiamo una casetta di blocchi di
calcestruzzo in cima a una collina scoscesa, afacciata su altre colline coperte di boschi e sfregiate dalle nuove invasioni. Qui
abita la iglia dell’ex moglie di Daza, una
ragazza sui vent’anni. Sembra felice di vederlo. Ci sediamo in una piccola sala da
pranzo e Daza comincia a ricordare la s vita con la madre della ragazza. Anche se
all’epoca era un malvivente, il loro rapporto è stato formativo. Lei era più grande, e
secondo Daza l’ha aiutato a farlo diventare
un uomo. Lo ha anche viziato, dice ridendo, cucinando, pulendo e stirandogli i vestiti.
In macchina gli chiedo se rimpiange
qualcosa. “No”, risponde. “E che mi dici
degli uomini che hai ucciso?”. “Per esempio chi?”. “Per esempio quel malandro che
hai ucciso quando avevi quindici anni”.
Daza non risponde. Dopo un minuto
comincia a parlare: “Ero ignorante, oggi
sono cambiato. Mi sento un uomo nuovo,
una persona nuova. Quelle cose capitano
nella vita e, insomma, Dio le permetteva,
ma ora credo di essere diverso”. Daza s’interrompe qualche secondo e poi riprende:
“Quando diventi un leader, la tua vita è a
rischio perché ti fai dei nemici. A volte la
gente pensa che sei complice della maia o
altre cose strane, per via del tuo passato. I
nemici cercano di screditarti e il diavolo
farà in modo che tu rimanga un miserabile,
per usarti come vuole”.
Non è facile capire se El Niño Daza è un
malvivente, un vero avvocato dei poveri o
tutte e due le cose. Ma mi sembra chiaro
che ha saputo adattarsi alla vita nel Venezuela di Hugo Chávez procurandosi dei
vantaggi in ogni modo: lavorando negli
spazi lasciati vuoti dal governo, mettendo
in piedi un’impresa capitalistica e, quand’è
necessario, anche negoziando con la criminalità.
Daza sta considerando l’ipotesi di entrare in politica. Come capo della torre ha
conosciuto alcune autorità cittadine, comprese persone vicine a Chávez, che gli hanno chiesto di candidarsi come assessore
comunale. Con i cambiamenti proposti dal
governo e la creazione delle comunas, Daza spera che la torre possa ottenere un riconoscimento legale. Ha parlato della sua
candidatura nel grattacielo. “La gente mi
ripete che dovrei candidarmi e che avrei
buone possibilità di essere eletto”, mi dice.
“Sto cominciando a pensarci”.
Al centro di Caracas sta per essere ultimato uno splendido mausoleo. Chávez ha
ordinato la sua costruzione due anni fa per
ofrire un nuovo luogo di riposo alle ossa di
Simón Bolívar. In precedenza aveva fatto
riesumare ed esaminare i resti del Libertador, credendo che fosse stato avvelenato
dai suoi nemici, ma l’autopsia non ha portato a nessuna conclusione. Così il presidente ha deciso di dedicargli una nuova
tomba.
L’ediicio è un sottile cuneo bianco che
si erge, come una vela, ino a 52 metri di altezza. Si dice che sia costato 150 milioni di
dollari e, come molte cose fatte da Chávez,
è contestato. I lavori sono stati condotti in
segreto e il mausoleo non è ancora stato
inaugurato. Quando sarà completato, diventerà il cuore di un angolo degradato
della città, accanto a una vecchia fortezza
militare – dove Chávez è stato recluso dopo
il suo tentativo di colpo di stato – e al pantheon nazionale – una chiesa dell’ottocento dove i resti di Bolívar sono sorvegliati da
guardie in uniforme. Circola anche la voce
che quando Chávez morirà, sarà sepolto
nel mausoleo accanto a Bolívar.
Nel 2001 il comandante mi aveva detto
che il suo più grande desiderio era quello di
portare “una vera rivoluzione in Venezuela”. Ma qualche anno dopo, il suo vecchio
maestro, Jorge Giordani, era preoccupato
che il suo protetto non stesse costruendo
una rivoluzione permanente. “Dobbiamo
tenere i piedi ben piantati a terra”, mi disse
Giordani. “Se ci sarà ancora petrolio, avremo un paese vero tra vent’anni, ma abbiamo molto da fare prima di arrivare a quel
momento”.
Mentre Chávez lotta contro il tumore,
uomini che si deiniscono chavisti trasmettono i suoi presunti desideri ai cittadini.
Nei mesi scorsi i venezuelani hanno avuto
poche informazioni aidabili sulle sue intenzioni e sulle sue reali condizioni di salute. Gli hanno dato il potere, un’elezione
dopo l’altra: sono vittime del loro afetto
per un leader carismatico a cui hanno permesso di diventare la igura centrale della
scena venezuelana, a spese di tutto il resto.
Dopo quasi una generazione, Chávez
lascia ai suoi cittadini molte domande senza risposta e una certezza: la rivoluzione
che ha cercato d’innescare non è mai realmente avvenuta. È cominciata con Chávez
e con lui, probabilmente, inirà. u gc
mai completato. Oggi ci vivono, in condizioni
precarie, migliaia di persone senza casa.
Un simbolo del Venezuela di Hugo Chávez
L’
11 dicembre 2012 Hugo
Chávez Frías, il presidente del Venezuela, si
è sottoposto all’Avana
alla quarta operazione
per curare un tumore. È
signiicativo che Chávez abbia scelto Cuba, da tempo la sua seconda casa. Nel novembre del 1999 Fidel Castro lo invitò a
parlare all’università dell’Avana. Chávez,
ex paracadutista, era presidente del Venezuela da nove mesi, ma trovò ad accoglierlo un pubblico entusiasta. Prodigo di
espressioni di buona volontà nei confronti
di Cuba, Chávez lodò Castro e lo chiamò
“fratello”.
Era impossibile non cogliere le implicazioni della sua visita. Dalla ine dei sussidi
sovietici, otto anni prima, Cuba era in gravi
diicoltà e il Venezuela era ricco di petrolio. Chávez era accompagnato da una delegazione della compagnia petrolifera nazionale. Parlò per novanta minuti e Castro
sorrise tutto il tempo. Un uomo accanto a
me bisbigliò che non aveva mai visto Fidel
mostrare tanto rispetto per un altro leader.
Quella sera una folla riempì lo stadio
dell’Avana per assistere a una partita amichevole di baseball tra i veterani delle
squadre dei due paesi. Chávez lanciava e
batteva per il Venezuela, e giocò tutti e nove gli inning. Castro era l’allenatore di Cuba e dette ai suoi ospiti una lezione di tattica: durante la partita fece entrare in campo
di soppiatto dei giovani professionisti camufati con barbe inte, che a un certo punto furono tolte provocando grida e risate
tra la folla. Alla ine della partita Cuba era
in testa, ma Chávez dichiarò: “Hanno vinto sia Cuba sia il Venezuela. La nostra amicizia si è raforzata”.
Presto Cuba cominciò a ricevere petrolio venezuelano a basso costo in cambio
dei servizi d’insegnanti, medici e allenatori cubani che partecipavano a un programma di riduzione della povertà lanciato da
Chávez.
Dal 2001 decine di migliaia di medici
cubani garantiscono cure ai poveri del Venezuela e le persone con problemi oftalmici sono assistite a Cuba nell’ambito del
programma Misión milagro.
Irriconoscibile
Chávez aveva trovato anche un’ideologia.
Era un discepolo di Simón Bolívar, liberatore del Venezuela ed eroe nazionale, e
poco dopo aver assunto l’incarico ribattezzò il paese Repubblica bolivariana del Venezuela. Bolívar era un carismatico combattente per la libertà che, con le sue sanguinose campagne, liberò gran parte del
Sudamerica dalla Spagna coloniale, ma
nonostante la sua ammirazione per la rivoluzione americana era più autoritario che
democratico. Per Chávez, Castro era il Bolívar dei tempi moderni, il custode della
lotta antimperialista. Nel 2005 Chávez annunciò che il socialismo era il sistema migliore per il futuro della regione. In pochi
anni, grazie ai miliardi del petrolio e alla
guida di Castro, Chávez resuscitò il linguaggio e lo spirito della rivoluzione di sinistra in America Latina. Promise di trasformare il Venezuela in quello che, nel
suo discorso all’università dell’Avana, aveva deinito “un mare di felicità e di autentica pace e giustizia sociale”. Il suo obiettivo era ridurre la povertà. A Caracas i risultati della sua politica sono davanti agli occhi di tutti I coloni spagnoli che fondarono Caracas nel cinquecento scelsero con cura la
sua posizione: meglio le montagne della
costa caraibica, dove la città sarebbe stata
esposta ai pirati britannici e ai predoni indiani. Oggi la costa è accessibile grazie a
una ripida autostrada scavata attraverso le
montagne dal dittatore Marcos Pérez Jiménez, che dominò il paese negli anni cinquanta del novecento. Pérez Jiménez fu
rovesciato dopo sei anni di governo, ma
lasciò dietro di sé un’impressionante eredità di opere pubbliche: ediici amministrativi, progetti di alloggi popolari, gallerie, ponti, parchi e autostrade. Nei decenni
successivi, mentre gran parte dell’America
Latina arrancava sotto le dittature, il Venezuela è stato una democrazia dinamica e
per lo più stabile. Era uno dei paesi più ricchi di petrolio al mondo, aveva una borghesia in crescita con un tenore di vita alto
ed era alleato degli Stati Uniti. La speranza
di una vita ricca attirò dal resto dell’America Latina e dall’Europa centinaia di migliaia d’immigrati, che contribuirono a costruire la fama di Caracas come una delle città
più belle e moderne della regione.
Quella città oggi è quasi irriconoscibile.
Dopo decenni di abbandono, povertà, corruzione e rivolte sociali, Caracas è degradata al di là di ogni limite. Ha uno dei tassi
di omicidio più alti del mondo: nel 2011, in
una città di tre milioni di abitanti, sono state uccise 3.600 persone. Una ogni due ore.
Il tasso di omicidi in Venezuela si è triplicato da quando Chávez è stato eletto. La violenza è forse la caratteristica principale di
Caracas, inevitabile come il tempo, che di
solito è magniico, e il traico, che è spaventoso. Gli ambulanti si fanno largo negli
ingorghi vendendo giocattoli, insetticidi e
dvd pirata. I quartieri più ricchi sono enclave fortiicate con mura protette da ili elettrici. Dietro ai vetri oscurati, guardie armate sorvegliano i cancelli.
Caracas è una città fallita, e la torre di
David è il simbolo di questo fallimento. La
torre si innalza per 45 piani sopra la città Insieme a un’altra torre di diciotto piani e a
un parcheggio sopraelevato, è l’elemento
principale del complesso Coninanzas, ed
è visibile da ogni angolo della città. È circondata da un quartiere come tanti altri:
un reticolo di casette basse disposte sul
ianco di una collina che si esauriscono dopo qualche isolato alle pendici dell’Ávila,
una montagna coperta dalla giungla che
crea un impressionante muro verde tra Caracas e il mar dei Caraibi.
La torre prende il nome da David Brillembourg, un banchiere che aveva fatto
fortuna negli anni settanta, durante il
boom petrolifero del Venezuela. Nel 1990
Brillembourg avviò la costruzione del complesso, che doveva essere la risposta venezuelana a Wall street. Morì nel 1993, quando la torre era ancora in costruzione. Poco
dopo, una crisi bancaria spazzò via un terzo delle istituzioni inanziarie del paese. La
torre non è mai stata terminata.
Da lontano non si ha la sensazione che
nel grattacielo ci sia qualcosa di strano, ma
avvicinandosi le irregolarità della facciata
appaiono evidenti. In diversi punti mancano i pannelli di vetro e i buchi sono stati
tappati inchiodando delle assi. Sui lati i
pannelli non ci sono proprio. Il complesso
è un ammasso di cemento incompiuto, ma
dentro c’è gente che ci vive. Rozze case di
mattoni hanno riempito gli spazi vuoti tra i
vari livelli. Solo gli ultimi piani sono aperti,
all’aria, come piattaforme di una grandiosa torta nuziale.
Guillermo Barrios, professore di architettura alla Universidad central, mi ha detto: “Ogni regime ha la sua icona architettonica e senza dubbio quella del chavismo è
la torre di David. Incarna perfettamente la
sua politica urbana, che si può riassumere
in conisca, esproprio, incapacità amministrativa e uso della violenza”. La torre è
diventata loslumpiù alto del mondo.
Capitalismo selvaggio
Quando Chávez andò al potere, nel 1999,
il centro della città era fatiscente, e la torre
era nelle mani di una compagnia di assicurazione. Nel 2001 il governo cercò di venderla a un’asta pubblica, ma non ci furono
oferte. Il progetto di trasformare l’ediicio
nella sede dell’amministrazione comunale
fu accantonato. Poi, una notte di ottobre
del 2007, centinaia di uomini, donne e
bambini guidati da un gruppo di ex detenuti hanno invaso la torre e ci si sono accampati. I leader dell’invasione hanno cominciato a vendere il diritto di entrata ai
nuovi arrivati, povera gente delle baraccopoli che voleva lasciare il fango delle colline per la città. Oggi la torre è il simbolo di
una tendenza dell’era Chávez: l’occupazione degli edifici disabitati da parte di
gruppi organizzati, ribattezzati invasores.
Dal 2003 sono stati occupati centinaia di
palazzi: appartamenti, uici, magazzini e
centri commerciali. Oggi nella torre di David vivono tremila persone.
Il boss dell’ediicio è un ex criminale
diventato pastore evangelico, Alexander
Daza, detto El Niño. Sostenitore di Chávez,
Daza accetta d’incontrarmi solo quando
un intermediario gli garantisce che sono
politicamente a posto. Quando arrivo
all’ingresso principale della torre, con tanto di cancello e controllo elettronico, alcune donne mi chiedono di mostrare un documento e irmare un registro, e mi fanno
passare perché sono ospite di Daza. Lui mi
aspetta nell’atrio. Un paio di altoparlanti
piazzati davanti alla “chiesa” di Daza – una
stanza al piano terra dove predica tutte le
domeniche – trasmettono una musica assordante.
El Niño è basso, ha 38 anni ma sembra
più giovane, e si dice che in prigione sia rinato a nuova vita. Ci sediamo su un muretto, ma con la musica a tutto volume è impossibile sentire cosa dice. Daza non parla
della torre né del ruolo autorevole che gli
viene riconosciuto. Scimmiottando il linguaggio del governo, accusa i “mezzi d’informazione privati” di distorcere la verità,
di attaccare “la causa del popolo” e di
“danneggiare Chávez”. Dopo un po’ si
scioglie e m’indica la moglie, Gina, che ci
passa accanto con un bimbo di un anno.
Non riusciamo a vedere granché della
vita comunitaria della torre, che si svolge
molto più in alto, ma alcuni appartamenti
ai primi piani si afacciano sull’atrio. Ci sono panni stesi sui balconi e alcune antenne
satellitari. Si può anche cogliere qualche
segnale dell’orientamento politico dominante. Daza ha cercato di trasformare la
torre in una roccaforte di Chávez e sopra le
nostre teste è appesa una grande bandiera
rossa in suo onore.
Secondo Daza, la torre non è un covo di
criminali: lui e la sua gente “l’hanno salvata con l’idea di viverci in armonia”. Barrios
non è d’accordo: “La torre di David non è
un bell’esempio di autodeterminazione
popolare, ma un’invasione violenta”. Secondo Barrios, Daza è un malandro– un
malvivente – mascherato da pastore. “È il
leader degli invasoresma vende l’accesso
all’ediicio, e questa è la forma più selvaggia di capitalismo”, sostiene.
Il 7 ottobre 2012 Chávez è stato rieletto
presidente e a Caracas, nelle settimane
successive alla sua vittoria, si respirava
un’atmosfera d’incertezza. Il presidente,
che ha 58 anni, è in cura per un tumore dal
giugno del 2011, ma in campagna elettorale aveva assicurato di stare abbastanza bene e di poter guidare il paese per altri sei
anni. Dopo il discorso della vittoria, però,
non è più apparso in pubblico. A novembre
uno dei funzionari di Chávez mi ha spiegato che il presidente si stava “riprendendo
dalle fatiche della campagna elettorale”.
Un paio di settimane dopo Chávez è andato a Cuba per un controllo medico e, di ritorno a Caracas, ha annunciato che i medici avevano trovato nuove cellule tumorali.
Seduto accanto al vicepresidente Nicolás
Maduro, Chávez ha detto: “Se dovesse
succedermi qualcosa, scegliete Maduro”.
Una volta Chávez mi ha raccontato che
Castro lo aveva sollecitato a potenziare la
sua scorta: “Senza quest’uomo, la rivoluzione inirebbe subito”. La rivoluzione di
Chávez è stata sempre trainata dalla sua
personalità. L’ex militare ha raforzato la
sua preparazione ideologica in prigione.
Fu arrestato nel 1992 per aver guidato un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. E in p gione chiese a Jorge Giordani, professore
marxista di economia e pianiicazione sociale all’Universidad central, di dargli
qualche lezione. “Chávez doveva scrivere
una tesi su come trasformare il suo movimento bolivariano in un governo”, mi raccontò Giordani nel 2001, quand’era ministro della pianiicazione. Poi si mise a ridere: “Non abbiamo mai inito la tesi. Ogni
volta che gli chiedo notizie, mi spiega:
‘Stiamo mettendo in pratica la teoria’”.
Nella vita pubblica, in Venezuela si litiga per quasi tutto. Questo vale anche per la
torre di David: le opinioni sul grattacielo
sono tutte diverse. Un amico giornalista,
Boris Muñoz, sostiene che l’ediicio è gestito da “lumpen andati al potere”, i quali
controllano i residenti con la stessa violenza che regola la vita nelle prigioni del paese. Barrios dà la colpa delle occupazioni al
disinteresse del governo per la città e a
Chávez. Nel 2011 il presidente ha invitato i
senzatetto di Caracas a occupare i depositi
abbandonati, chiamati galpones. “Cercatevi un galpón e ditemi dov’è. Ci sono migliaia di galponesabbandonati a Caracas. Cerchiamoli! Chávez li esproprierà e li metterà
al servizio del popolo”.
Le occupazioni degli ediici sono aumentate. Nel dicembre del 2010, quando
un’inondazione ha lasciato senza casa centinaia di migliaia di persone, costrette nella maggior parte dei casi ad abbandonare i
quartieri poveri sulle colline, Chávez ha
requisito gli alberghi, un circolo ricreativo
e un centro commerciale per ospitarli. Per
mesi migliaia di damniicadoshanno vissuto nei parchi della città e in una tendopoli
allestita davanti al palazzo presidenziale di
Miralores. Alcuni sono stati ospitati all’interno del palazzo. Era una situazione
d’emergenza e, restando fedele al suo stile
quasi militare, Chávez ha annunciato una
nuova “missione”: la Gran misión vivienda, la grande missione degli alloggi.
Il capo
A Caracas gran parte della responsabilità
della Misión vivienda ricade su Jorge Rodríguez. Ex vicepresidente di Chávez, dal
2008 Rodríguez è il sindaco del municipio
Libertador, il centro della città. Vado a trovarlo nel suo uicio. Rodríguez mi dice di
non essersi reso conto della situazione di
Caracas ino a quando è diventato sindaco.
Mi racconta che, subito dopo la sua elezione, ha incontrato Chávez per discutere con
lui della situazione: “Abbiamo deciso che
avremmo sistemato la città, a partire dal
centro. Dovevamo cominciare da qual parte”. Secondo Rodríguez, i problemi della capitale dipendono soprattutto dai leader del passato. Da quando gli spagnoli
hanno costruito Caracas, la sua crescita
non è mai stata pianiicata, a parte la parentesi durante la dittatura di Jiménez. Il
sindaco descrive il progressivo degrado
che ha portato all’emergenza attuale come
“un lento terremoto”. Un tempo i poveri
vivevano nelle gole o sui ianchi della montagna e poi sono stati costretti a trasferirsi
in città. Il ricco settore privato ha smesso
d’investire nella capitale e l’inondazione
del 2010 ha portato la situazione al punto
di crisi. Nel paese mancavano tre milioni
di alloggi e l’obiettivo quell’anno era costruire 270mila nuove unità abitative. Secondo Barrios, dal 1999 il governo in media ha costruito 25mila case all’anno, e in
percentuale ha fatto meno di qualunque
altra amministrazione per affrontare il
problema della casa dal 1959 a oggi. Ma
Rodríguez mi assicura che l’obiettivo è vicino: “Stiamo costruendo ovunque è possibile”.
In giro per la città si vedono alcuni segnali positivi, a dimostrazione che il governo sta afrontando il problema dell’insuicienza di alloggi popolari e di trasporti
pubblici. Rodríguez mi ha portato in un p sto, sull’avenida Libertador, dove stanno
costruendo vari palazzi, tra cui alcuni ediici di cinque piani in mattoni e acciaio su
palaitte. Ai lati dell’avenida, i bulldozer
stanno abbattendo le baraccopoli e i loro
abitanti vengono trasferiti nei nuovi alloggi. In alcune zone ci sono i piloni di una
nuova sopraelevata per i pendolari appaltata alla Cina, che rientra in un piano ambizioso per ridurre il traico e alleggerire la
pressione sulla metropolitana. È stata
inaugurata una costosa funivia per trasportare i passeggeri a san Augustín, una delle
baraccopoli più vecchie della capitale, sulle colline. Le cabine partono da una stazione scintillante e si muovono in silenzio,
spinte da enormi cavi fabbricati in Austria.
Ogni cabina è dipinta di rosso – il colore
della rivoluzione bolivariana – e ha un nome diverso: Soberanía, Sacriicio, Moral
socialista. In basso, i pendii della collina
sono una discarica a cielo aperto attraversata da dedali di baracche e stradine di terra battuta.
Una mattina incontro Daza in un terreno coperto di erbacce dietro alla torre più
bassa. Sta sorvegliando un gruppo di quattro ragazzi e un uomo più anziano che mescolano del cemento in una carriola e poi lo
distribuiscono su una distesa di fango, erba e detriti. Daza mi spiega che vuole costruire un piccolo parco, in modo che le
famiglie con bambini possano avere un posto sicuro dove giocare e organizzare feste
di compleanno.
Daza ha piani ambiziosi per la torre. Mi
mostra il garage al piano terra – uno spazio
immenso e completamente vuoto a parte
alcuni autobus rotti – e spiega che è una
fonte di reddito importante: il garage è afittato agli autisti di autobus e si riempie
durante la giornata. Accanto all’ingresso
Daza ha in mente d’installare una porta di
sicurezza e di far costruire un gabbiotto per
la sorveglianza. A un lato dell’edificio,
all’ombra di una ila di manghi, mi indica
uno spazio inutilizzato dove vuole costruire un centro diurno per i igli delle madri
lavoratrici. Accanto al cancello principale
spera di aprire un bar “per vendere cibo
bolivariano a prezzi socialisti”.
Mentre camminiamo, mi spiega come
funziona l’ediicio. Parla con tono ritmico
ed enfatico, come un predicatore. “Non c’è
un regime carcerario”, dichiara. “C’è ordine. E non ci sono celle, ma case. Nessuno è
costretto a collaborare. Non ci sono inquilini, ma abitanti”. Ogni abitante deve pagare una retta mensile di 150 bolívar (circa
17 euro) per contribuire ai costi della manutenzione di base, come i salari della brigata di pulizia e del gruppo di lavoro. Le
persone che non possono permettersi di
costruire la loro abitazione ricevono un
aiuto economico. I residenti sono tutti registrati e ogni piano ha un rappresentante
che si occupa delle varie questioni. Se i problemi non si possono risolvere al livello del
piano vengono sottoposti al consiglio della
torre, presieduto da Daza, che si riunisce
due volte alla settimana.
Una storia di redenzione
La versione di Daza sul sistema di regole in
vigore nel grattacielo contrasta con alcune
storie che ho sentito, in cui si parla di esecuzioni in stile carcerario, e di persone mutilate e poi gettate a pezzi dagli ultimi piani.
Questa è la punizione riservata ai ladri e ai
delatori nelle prigioni del Venezuela, e la
consuetudine si è difusa anche nei quartieri controllati dalla criminalità. Quando
chiedo a Daza cosa pensa di queste storie,
lui storce le labbra con un atteggiamento
sprezzante. “Vogliamo che ci lascino vivere qui”, risponde. “Viviamo bene. Non ci
sono sparatorie né malviventi con la pistola in mano. C’è lavoro e c’è brava gente,
gente che lavora”. Poi gli chiedo come ha
fatto a diventare il jefe, il capo della torre.
Lui storce di nuovo le labbra e risponde:
“All’inizio tutti volevano prendere il comando. Ma Dio si è liberato di chi voleva
liberarsi e ha lasciato chi voleva lasciare”.
Molti abitanti della torre hanno avuto
una vita complicata dall’intreccio di miseria e criminalità tipico del paese. In un magazzino riadattato accanto alla chiesa di
Daza vive Gregorio Laya, compagno di prigione del Niño. Oggi Laya lavora come
cuoco nella cucina del presidente a palazzo
Miralores, ma un tempo faceva parte di
una banda di roleros, ladri specializzati in
orologi costosi. Un giorno derubò il proprietario di un centro estetico “a qualche
isolato da qui”, mi spiega indicando oltre la
torre. Prese l’orologio, ma prima che riuscisse a scappare l’uomo tirò fuori una pistola e cominciò a sparare. Lui “non aveva
altra scelta” che rispondere al fuoco: sparò
più volte al proprietario del centro estetico,
uccidendolo. Anche Laya era ferito e la polizia lo arrestò quasi subito. Fu condannato
a undici anni di carcere. È fortunato ad
avere un lavoro ed è grato a Daza per avergli trovato un posto nella torre. Ogni giorno, andando al lavoro, passa davanti al
centro estetico e pensa a com’è cambiata la
sua vita.
Anche Daza racconta la sua vita come
una storia di redenzione. Un giorno mi fa
vedere la sua chiesa, un grande magazzino
ridipinto di verde, con sedie di plastica impilate e un pulpito da predicatore. Alle pareti ci sono ritagli di carta da lettera dorata
con le scritte Casa de diose Puerta del cielo.
Daza prende due sedie e mi fa accomodare. Viene da Catia, mi racconta, una delle
peggiori baraccopoli di Caracas. La sua famiglia era molto povera. Era il più piccolo
di vari igli maschi. È rimasto fuori dai guai
ino all’età di otto anni, quando alcuni ragazzi più grandi gli rubarono la bicicletta e
lo umiliarono picchiandolo. Lui li deinisce
malandrosche terrorizzavano il quartiere.
“Ricordo di averli visti minacciare i miei
fratelli maggiori”, racconta. “Avevano la
pistola, e quando i miei fratelli scappavano
loro li inseguivano sparando. Non m’importava che uccidessero i miei fratelli, però
non sopportavo come si comportavano
con mia madre. La maltrattavano, fumavano e dicevano oscenità davanti a lei. Io gli
dicevo che erano dei vigliacchi perché attiravano i loro nemici nel quartiere e poi,
quando arrivavano, scappavano”. Daza
mise su una banda di ragazzini. “Ci procurammo delle armi e poi, quando avevo
quindici anni, aspettammo il capo di quei
malandros. Quando si presentò l’occasione”, fa il gesto di sparare, “lo eliminammo”.
Dopo quell’omicidio diventò il boss del
quartiere.
Daza è stato in prigione due volte, la
prima per cinque anni e la seconda per due.
Mentre scontava la seconda condanna per
possesso illegale di armi da fuoco, un poliziotto predicatore andò a trovarlo e lo con- vertì. Uscì dal carcere “con el Evangelio” e
da allora cerca di condurre una vita migliore.
Per Daza, come per molti altri abitanti
di Caracas, la prospettiva di una vita migliore non è solo spirituale ma anche materiale. L’amministrazione di Hugo Chávez
ha avuto efetti contraddittori sull’economia del paese. La sua retorica anticapitalista ha spinto alcune aziende a espatriare,
mentre altre sono riuscite a lavorare con il
governo e hanno fatto fortuna. C’è un numero incredibile di norme da rispettare –
solo per pagare una cena in un ristorante
bisogna esibire un documento d’identità –
ma paradossalmente questo ha incoraggiato l’economia sommersa. Molti medici
e ingegneri hanno abbandonato il paese,
mentre altri professionisti continuano a
lavorare bene. L’unica costante è il lusso
di denaro proveniente dal petrolio, che assicura ad alcuni enormi ricchezze e sostiene un settore pubblico in espansione. Da
quando c’è stata la rivoluzione i venezuelani più poveri se la cavano un po’ meglio.
Eppure, nonostante gli appelli di Chávez
alla solidarietà socialista, il suo popolo
vuole sicurezza e cose belle almeno quanto
vuole una società più giusta.
A Caracas ci sono migliaia di sequestri
ogni anno. Nel novembre del 2011 alcuni
uomini hanno catturato il console cileno,
lo hanno picchiato e gli hanno sparato.
Quello stesso mese il catcherdei Washington Nationals, Wilson Ramos, è stato rapito dalla casa dei genitori in Venezuela ed è
stato tenuto in ostaggio due giorni prima di
essere liberato. Ad aprile è stato sequestrato un diplomatico della Costa Rica. Il giorno dopo la polizia ha fatto irruzione nella
torre di David per cercarlo, ma ha trovato
solo alcune armi.
Ho l’impressione che Daza non voglia
mai lasciare il piano terra della torre e che
non voglia farlo lasciare neanche a me.
Ogni volta che gli propongo di andare di
sopra diventa evasivo e, quando gli chiedo
di partecipare a una riunione con i rappresentanti dei vari piani, accampa delle scuse. Si racconta che chieda una tassa d’ingresso a ogni nuovo residente, ma lui nega.
Sembra probabile, però, che si guadagni da
vivere sfruttando l’ediicio, probabilmente
il garage degli autobus. E può permettersi
qualche lusso: vive sopra la chiesa, ma ha
anche un appartamento in un altro luogo
della città. Ha avuto dei igli da relazioni
precedenti e li può incontrare senza correre rischi.
In un paio di occasioni riesco a salire ai
piani superiori del grattacielo per dare
un’occhiata. Al decimo piano le persone
della squadra di sicurezza pretendono che
mi presenti e dica dove sto andando. Quando faccio un cenno a Daza le guardie mi
lasciano passare, ma dopo qualche minuto
riappaiono per tenermi d’occhio. Gli abitanti della torre sono cauti e parlano poco
con gli stranieri. Sulle scale molti hanno
dei carichi da trasportare e si muovono come montanari, con l’espressione tesa delle
persone che stanno facendo una prova di
resistenza.
I corridoi sono orientati in modo da far
entrare la luce dalle grandi vetrate a ciascuna estremità dell’ediicio. Nei piani non
ultimati, i residenti hanno costruito delle
casette con blocchi di calcestruzzo intonacati. Molti hanno la porta aperta, non solo
per socializzare ma per lasciar passare
l’aria, e li vedo impegnati nelle faccende
quotidiane: cucinare, pulire, portare secchi d’acqua, fare la doccia. Qui e là si sente
la musica. Daza ha improvvisato una pompa per l’acqua alimentata da un generatore
e in ogni piano c’è un serbatoio, ma la fornitura d’acqua è imprevedibile.
Nella torre ci sono vari negozietti di generi alimentari, un parrucchiere e un paio
di asili. Al nono piano visito il neg Zaida Gómez, una donna sui sessant’anni
con i capelli bianchi, vive insieme alla madre ultranovantenne. Gómez mi mostra la
piccola stanza accanto al negozio dove ha
sistemato la madre. Il ventilatore è sempre
acceso perché il caldo è forte.
Zaida Gómez ha paura che la costringano a lasciare la torre. “Quest’edificio è
troppo costoso per gente come noi”, mi dice. “Un giorno le autorità vorranno riprenderselo”. La donna spera che il governo,
impegnato a costruire alloggi nella vicina
avenida Libertador, arrivi ino alla torre e
dia una casa a tutti. “Voglio solo una casetta e un pezzetto di terra da coltivare, qualcosa che sia tutto mio”.
Albinson Linares, un giornalista venezuelano che si è occupato della torre, ha
deinito i suoi abitanti “rifugiati di uno stato sottosviluppato che vivono in una struttura del primo mondo”. È uno spaccato
degli abitanti di Caracas: infermieri, uomini della sicurezza, autisti di autobus, commercianti e studenti. Ci sono anche disoccupati e la cerchia di ex carcerati evangelici
di Daza. Ogni piano ha la sua sociologia. I
piani più bassi sono in gran parte riservati
agli anziani, che non possono arrampicarsi
per le scale. Alcuni piani sono dominati
dalla vita familiare, altri sono occupati da
ragazzi dall’aria pericolosa. Un giorno un
fotografo che mi accompagnava viene
spinto dentro un appartamento da un paio
di uomini che vogliono interrogarlo. Quando il fotografo fa il nome di Daza lo lasciano andare, ma con un po’ di riluttanza.
Scendendo le scale vediamo una scritta
che dice “El Niño sapo”, El Niño è un delatore. Sembra che Daza abbia dei nemici
anche nella torre.
Colpa delle prigioni
A mezz’ora di macchina dal grattacielo c’è
un’altrainvasión: El Milagro. È stato fondato parecchi anni fa da José Argenis, un ex
detenuto diventato pastore che si è unito
ad altri ex carcerati e alle loro famiglie per
occupare un pezzo di terra accanto al iume fuori Caracas. Era un terreno coperto
di arbusti e disseminato di spazzatura, ma
si trovava in una buona posizione: non lontano dalla strada principale, vicino a una
stazione di autobus e a un piccolo pont che consentiva ai residenti di attraversare
il iume a piedi o in motorino. Oggi El Milagro è una comunità di diecimila persone, e
continua a espandersi.
Argenis, un nero carismatico dalla voce
tonante, dirige un centro di recupero nel
Milagro per ex detenuti che gli hanno chiesto aiuto. Le prigioni del Venezuela sono le
peggiori dell’America Latina. Le trenta
strutture del paese sono state progettate
per accogliere quindicimila detenuti, ma
ne ospitano tre volte di più. La droga si
compra e si vende apertamente, e i detenuti riescono a procurarsi armi automatiche e
granate. In molti istituti le guardie penitenziarie hanno ceduto il controllo a bande
armate agli ordini di criminali incalliti ribattezzati pranes.
I pranesguidano la comunità criminale,
dentro e fuori dal carcere: con una polizia e
una magistratura corrotte e inefficienti,
forniscono un punto di riferimento dove
non ne esistono altri. Sono diventati abbastanza potenti da trattare direttamente con
il governo. Argenis lavora come consigliere
di Iris Varela, ministra per il servizio penitenziario, e l’aiuta a negoziare con i capi
della criminalità. “Per il momento è un lavoro non retribuito”, mi ha spiegato Argenis. Ma è contento di lavorare con la ministra: spera di ricevere inanziamenti dal
governo per il suo centro di recupero e di
poterne costruire altri in tutto il paese.
Argenis ha scontato una condanna di
nove anni per omicidio e in prigione ha conosciuto Daza. Dopo il carcere sono rimasti in contatto. “Quando hanno occupato la
torre, El Niño era ancora coinvolto nel
mondo della malavita”, mi ha raccontato.
“Qualcuno voleva il disordine. Ma lui ha
imposto l’ordine, alla vecchia maniera”. Mi
ha lanciato uno sguardo d’intesa.
Un giorno Daza è andato da lui per chiedergli aiuto. “È venuto qui per sei mesi.
Uicialmente era il capo della torre, ma
alloggiava qui”. Secondo Argenis, “quando
è uscito di prigione, Daza aveva dei problemi. C’era della gente che voleva ucciderlo,
e noi lo abbiamo protetto”. Argenis non
esclude che Daza possa tornare alla vita
criminale. “Credo che abbia appeso i guantoni”, mi ha detto sorridendo. “Ma potrebbe cadere di nuovo in tentazione, perché
dobbiamo guardarci alle spalle, capisci?”.
Quando gli chiedo come mai la cultura
dei malandrossi è difusa così tanto, mi risponde che la colpa è delle prigioni. Gli
uomini in carcere non cercano neanche di
scappare, perché “hanno tutto quello che
gli serve e vivono perino meglio di quando
stavano sulla strada”. L’economia carceraria è in pieno boom, con miliardi di bolívar
generati dal controllo del traico di stupefacenti. “Le prigioni sono davvero forti e
negli ultimi sette e otto anni lo sono diventate ancora di più”.
La prima cosa che si nota arrivando
all’aeroporto internazionale di Caracas è
una baraccopoli, forse la più famosa della
città: il 23 de enero. “El 23”, come lo chiamano tutti, è un quartiere costruito negli
anni cinquanta da uno dei più grandi architetti del Venezuela, Carlos Raúl Villanueva. È un complesso di ottanta ediici che
occupa un immenso terreno nella parte
settentrionale della città. È stato concepito
come un grande sobborgo, con palazzi di
quattro piani e grattacieli di quindici, intervallati da giardini e vialetti.
Oggi gli spazi verdi sono completamente occupati dagli invasores. El 23 è a tutti gli
efetti una baraccopoli di centomila persone, punteggiata dai palazzi residenziali di
Villanueva. La zona è un instabile mosaico
di gruppi autonomi, alcuni con pretese rivoluzionarie e altri dichiaratamente criminali. Molti gruppi sono armati.
Una igura emblematica del 23 è stata
Lina Ron, una militante con i capelli ossigenati e un carattere esuberante. Prima di
morire per un ictus l’anno scorso, Lina Ron
ha guidato le proteste antimperialiste, che
ogni tanto sfociavano nella violenza.
Chávez ha sempre tollerato Ron e i suoi aggressivi seguaci, perché lei difendeva la
sua politica e spesso appariva al suo ianco
nelle manifestazioni. Nel 2001 Chávez mi
fece capire che aveva abbracciato l’estrema sinistra per evitare un colpo di stato
come quello che lui aveva guidato nel 1992:
“La verità è che abbiamo bisogno di una
rivoluzione. Se non riusciamo a farla ora,
arriverà più tardi con un altro volto”, mi
disse il presidente in quell’occasione. “Forse nello stesso modo in cui siamo arrivati
noi, una notte, con le armi in pugno”.
Difesa personale
Oggi non c’è un chavista più dichiaratamente radicale di Juan Barreto, un professore dell’Universidad central. Barreto, che
ha 50 anni, è un marxista loquace e brillante che dal 2004 al 2008 – il periodo delle
occupazioni, compresa quella della tor di David – è stato alcalde mayordi Caracas,
cioè il sindaco che supervisiona tutti i distretti della città. All’inizio del 2008 ho
passato un po’ di tempo con lui e ho capito
che alcuni invasoreslo consideravano il loro protettore. Barreto ha sempre detto di
non sostenere le invasioni, ma di approvare l’esproprio di proprietà inutilizzate per
superare la crisi degli alloggi. Durante il
suo mandato di sindaco, ha fatto arrabbiare i ricchi della città minacciando di coniscare in nome del popolo il Caracas Country club, dove ville e giardini lussuosi circondano un campo da golf di diciotto buche. Alla ine il piano è stato abbandonato,
sembra per ordine di Chávez.
Quando era sindaco, gli piaceva essere
l’enfant terribledella rivoluzione di Chávez.
Ha organizzato una scorta di guardie del
corpo in motocicletta che viaggiavano insieme a lui. Nella squadra c’era anche un
ex killer a contratto, un ragazzo che si chiama Cristian, che lui voleva rieducare. Me
lo ha presentato e gli ha chiesto: “Cristian,
quante persone hai ammazzato?”. Il ragazzo ha risposto tra i denti: “Una sessantina,
credo”, e Barreto ha riso divertito.
Dopo aver lasciato l’incarico nel 2008,
Barreto si è allontanato dalla vita politica,
ma l’anno scorso è tornato a impegnar per la campagna elettorale di Chávez. Alla
testa di un gruppo informale di collettivi
radicali che hanno sede nelle varie baraccopoli, ha fondato Redes, una nuova organizzazione con cui ha partecipato alla campagna elettorale. Caracas era tappezzata di
manifesti di Redes che mostravano il leader della rivoluzione abbracciato al corpulento Barreto.
Incontro Barreto nella sua casa nella
zona del Cementerio. Barreto mi spiega
che lui e i suoi compagni stanno lavorando
per trasformare Redes in un partito politico. Negli ultimi tempi Chávez ha ideato un
piano per “il socialismo del ventunesimo
secolo”, in base al quale la società venezuelana dev’essere ristrutturata in comunas. Nessuno, a parte forse lo stesso
Chávez, ha capito bene cosa signiichi questo termine o come dev’essere applicato il
piano. Barreto e i suoi compagni temono
che, senza la pressione di gruppi come Redes, il piano sia usato per ingabbiare le vere
forze rivoluzionarie.
Per contribuire a creare un’autentica
comune, Barreto collabora con Alexis Vive, uno dei collettivi armati più organizzati
di El 23. Mi propone di andare a vederli.
Quando saliamo nel suo suv – glielo ha prestato Chávez – una guardia del corpo tira
fuori una mitraglietta Belgian P90. “Bella,
vero?”, chiede Barreto sorridendo. “Spara
57 pallottole”. Poi aggiunge che armi come
questa servono alla difesa personale. “Non
siamo contro il governo. Ma non riesco a
trovare il modo di sostenerlo ino in fondo”. Scoppia a ridere. “È come quando hai
una bella donna ma non sei più innamorato di lei. È diicile, la vuoi ancora ma non la
vuoi più, mi capisci?”.
Nel quartier generale del collettivo Alexis Vive ci sono murales di Karl Marx, Mao
Zedong , Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara, ma a parte qualche uomo armato che
indugia intorno ad alcuni ediici lì vicino,
la fanteria si tiene a distanza. Uno dei leader del gruppo, Salvador, un giovane studente di sociologia, mi spiega che il collettivo controlla una ventina di ettari dove
vivono diecimila persone, con cui stanno
cercando di formare un collettivo marxista
autosuiciente. Il gruppo è armato solo per
motivi di autodifesa, spiega Salvador. A El
23, poliziotti corrotti e membri della guardia nazionale venezuelana lavorano insieme ai gruppi di malandros, alcuni nell’area
che conina con il loro territorio. Barreto
sostiene che il contingente armato protegge la sua gente dai funzionari canaglia.
“Non riescono a venire qui dal 2008”, dic ridendo. “Abbiamo avuto degli scontri a
fuoco con loro”.
La corruzione nelle forze dell’ordine è
un problema radicato nel paese e, secondo
Barreto, è la vera fonte della cultura criminale del Venezuela. Lui l’ha combattuta
quando ha amministrato la capitale sostituendo gran parte della polizia con i Tupamaros, un gruppo armato di El 23. La situazione, aggiunge Salvador, dipende anche
dall’incapacità di Chávez di afrontare i
veri criminali: “Il presidente non si è messo contro i malandros perché pensa che loro possano mettersi contro di lui”.
Una certezza
È domenica. Nella chiesa di Daza sono state preparate cinquanta sedie di plastica per
i fedeli, ma si presenta solo una decina di
persone, soprattutto donne e bambini. El
Niño non sembra sorpreso. La sua compagna, Gina, arriva con i igli e una Bibbia
dalla copertina rosa. Mentre i musicisti
suonano, Daza canta a un lato del palcoscenico – è stonato ma non si vergogna – e
suona il bongo. Alla ine prende il microfono e comincia a gridare ritmicamente con
voce roca, parlando del bene e del male.
Qualche giorno dopo Daza mi porta nel
vicino stato di Miranda per mostrarmi la
baraccopoli dove viveva con l’ex moglie e
dove lei abita ancora. Lungo la strada mi
racconta come Dio l’ha salvato. Aveva lasciato la scuola a tredici anni e un anno
dopo faceva già parte di una banda. In prigione, la seconda volta che è stato arrestato, ha imparato a leggere, e la Bibbia è stata
il suo primo libro. “Non ho studiato come
all’università, ma mi sono preparato molto
su Dio. Una volta mi rivolgevo alla gente in
modo ofensivo, usando parole oscene. Ma
ho letto da qualche parte nella Bibbia – non
ricordo dove – che un cattivo linguaggio
corrompe i buoni costumi. E quando l’ho
letto ho pensato: ‘Dio mi sta parlando’”.
Raggiungiamo una casetta di blocchi di
calcestruzzo in cima a una collina scoscesa, afacciata su altre colline coperte di boschi e sfregiate dalle nuove invasioni. Qui
abita la iglia dell’ex moglie di Daza, una
ragazza sui vent’anni. Sembra felice di vederlo. Ci sediamo in una piccola sala da
pranzo e Daza comincia a ricordare la s vita con la madre della ragazza. Anche se
all’epoca era un malvivente, il loro rapporto è stato formativo. Lei era più grande, e
secondo Daza l’ha aiutato a farlo diventare
un uomo. Lo ha anche viziato, dice ridendo, cucinando, pulendo e stirandogli i vestiti.
In macchina gli chiedo se rimpiange
qualcosa. “No”, risponde. “E che mi dici
degli uomini che hai ucciso?”. “Per esempio chi?”. “Per esempio quel malandro che
hai ucciso quando avevi quindici anni”.
Daza non risponde. Dopo un minuto
comincia a parlare: “Ero ignorante, oggi
sono cambiato. Mi sento un uomo nuovo,
una persona nuova. Quelle cose capitano
nella vita e, insomma, Dio le permetteva,
ma ora credo di essere diverso”. Daza s’interrompe qualche secondo e poi riprende:
“Quando diventi un leader, la tua vita è a
rischio perché ti fai dei nemici. A volte la
gente pensa che sei complice della maia o
altre cose strane, per via del tuo passato. I
nemici cercano di screditarti e il diavolo
farà in modo che tu rimanga un miserabile,
per usarti come vuole”.
Non è facile capire se El Niño Daza è un
malvivente, un vero avvocato dei poveri o
tutte e due le cose. Ma mi sembra chiaro
che ha saputo adattarsi alla vita nel Venezuela di Hugo Chávez procurandosi dei
vantaggi in ogni modo: lavorando negli
spazi lasciati vuoti dal governo, mettendo
in piedi un’impresa capitalistica e, quand’è
necessario, anche negoziando con la criminalità.
Daza sta considerando l’ipotesi di entrare in politica. Come capo della torre ha
conosciuto alcune autorità cittadine, comprese persone vicine a Chávez, che gli hanno chiesto di candidarsi come assessore
comunale. Con i cambiamenti proposti dal
governo e la creazione delle comunas, Daza spera che la torre possa ottenere un riconoscimento legale. Ha parlato della sua
candidatura nel grattacielo. “La gente mi
ripete che dovrei candidarmi e che avrei
buone possibilità di essere eletto”, mi dice.
“Sto cominciando a pensarci”.
Al centro di Caracas sta per essere ultimato uno splendido mausoleo. Chávez ha
ordinato la sua costruzione due anni fa per
ofrire un nuovo luogo di riposo alle ossa di
Simón Bolívar. In precedenza aveva fatto
riesumare ed esaminare i resti del Libertador, credendo che fosse stato avvelenato
dai suoi nemici, ma l’autopsia non ha portato a nessuna conclusione. Così il presidente ha deciso di dedicargli una nuova
tomba.
L’ediicio è un sottile cuneo bianco che
si erge, come una vela, ino a 52 metri di altezza. Si dice che sia costato 150 milioni di
dollari e, come molte cose fatte da Chávez,
è contestato. I lavori sono stati condotti in
segreto e il mausoleo non è ancora stato
inaugurato. Quando sarà completato, diventerà il cuore di un angolo degradato
della città, accanto a una vecchia fortezza
militare – dove Chávez è stato recluso dopo
il suo tentativo di colpo di stato – e al pantheon nazionale – una chiesa dell’ottocento dove i resti di Bolívar sono sorvegliati da
guardie in uniforme. Circola anche la voce
che quando Chávez morirà, sarà sepolto
nel mausoleo accanto a Bolívar.
Nel 2001 il comandante mi aveva detto
che il suo più grande desiderio era quello di
portare “una vera rivoluzione in Venezuela”. Ma qualche anno dopo, il suo vecchio
maestro, Jorge Giordani, era preoccupato
che il suo protetto non stesse costruendo
una rivoluzione permanente. “Dobbiamo
tenere i piedi ben piantati a terra”, mi disse
Giordani. “Se ci sarà ancora petrolio, avremo un paese vero tra vent’anni, ma abbiamo molto da fare prima di arrivare a quel
momento”.
Mentre Chávez lotta contro il tumore,
uomini che si deiniscono chavisti trasmettono i suoi presunti desideri ai cittadini.
Nei mesi scorsi i venezuelani hanno avuto
poche informazioni aidabili sulle sue intenzioni e sulle sue reali condizioni di salute. Gli hanno dato il potere, un’elezione
dopo l’altra: sono vittime del loro afetto
per un leader carismatico a cui hanno permesso di diventare la igura centrale della
scena venezuelana, a spese di tutto il resto.
Dopo quasi una generazione, Chávez
lascia ai suoi cittadini molte domande senza risposta e una certezza: la rivoluzione
che ha cercato d’innescare non è mai realmente avvenuta. È cominciata con Chávez
e con lui, probabilmente, inirà. u gc
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